ERRICO MALATESTA FRA CONTADINI DIALOGO SULL’ANARCHIA

ERRICO MALATESTA FRA CONTADINI DIALOGO SULL’ANARCHIA

Questa ristampa del “Fra Contadini” riproduce fedelmente quella curata dalle Edizioni RL di Napoli nel 1948,
compresa la nota che segue:

Questo piccolo gioiello della letteratura rivoluzionaria ed anarchica., come lo definì Luigi Fabbri, non ha bisogno di una particolare presentazione. Basterà ricordare che fu scritto da Errico Malatesta nel 1883, a Firenze, nel tempo in cui il nostro compagno compilava il periodico La Questione Sociale. La prima edizione uscì appunto in Firenze nel 1884 e ben presto si apre la serie delle traduzioni. Pietro Kropotkine ne curò l’edizione francese, nel 1887, e nel 1891 uscì l’edizione inglese. Moltissime sono le edizioni nelle diverse lingue: spagnola, tedesca, rumena, olandese, norvegese, boema ecc. ecc. Se ne hanno traduzioni in ebraico, in armeno e in fiammingo. A Parigi, nel 1898, fu stampata la prima edizione cinese. Innumerevoli sono le edizioni pubblicate in Italia. Nel 1923, a cura del periodico Fede, se ne ebbe una edizione riveduta dallo stesso Malatesta ed è quello il testo da noi riprodotto nella edizione presente. Il successo dell’opuscolo testimonia da sè l’importanza dello scritto e la sua grande efficacia per la propaganda. Vi parlano due contadini, nel limpido dialogo spoglio di frasi retoriche, così semplice e umano, ed è perciò
specialmente adatto alla propaganda fra il proletariato delle campagne. Ma la lettura dell’opuscolo è utile a tutti i lavoratori indistintamente poichè vi si affronta l’intero problema sociale, sotto tutti gli aspetti. E le argomentazioni conquidono ben presto il lettore perchè Malatesta, con l’arte garbata del dialogo, dopo aver parlato al cuore sa far ragionare convenientemente il cervello. Tutti gli scritti di Errico Malatesta, come è ben noto, hanno il sorprendente pregio di sembrare scritti oggi, per i problemi attuali . Anche questo dialogo darà perciò, ai contadini ed ai lavoratori, l’impressione di trattare argomenti sommamente aderenti alla realtà contemporanea, tanto vivi e veri sono i ragionamenti di Giorgio, l’anarchico che con fede di apostolo spiega al proprio compagno di lavoro che cosa vogliono gli anarchici e che cosa è l’anarchia.

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fracontadini

Quando Emma Goldman chiese a Lenin del trattamento riservato agli anarchici ( e altro ancora ).

Quando Emma Goldman chiese a Lenin del trattamento riservato agli anarchici ( e altro ancora ).

La scena si svolge nel marzo del 1920

Quando Angelica Balabanoff mi aveva suggerito di parlare con Lenin, avevo deciso di redarre un memorandum sulle contraddizioni più salienti della vita sovietica, ma poiché non avevo sentito più nulla riguardo a quell’eventuale incontro, non me ne ero più occupata. Mi trovai perciò in grande imbarazzo quando, una mattina, arrivò la telefonata di Angelica la quale ci informava che “ll’ic” stava aspettando me e Sasha e che la sua auto sarebbe venuta a prenderci. Sapevamo che Lenin era così occupato da essere quasi inaccessibile, per cui l’eccezione che veniva fatta in nostro favore andava colta al volo. Ritenevamo comunque che anche senza il memorandum saremmo riusciti a trovare la prospettiva giusta da cui affrontare la discussione e inoltre ci veniva offerta l’occasione per presentargli le risoluzioni che ci avevano affidato i nostri compagni di Mosca.
L’auto di Lenin attraversò di corsa le strade affollate ed entrò a gran velocità nel Cremlino, senza che le sentinelle ci fermassero per controllare i propusk [lasciapassare]. Ci fu chiesto di scendere davanti all’ingresso di uno degli antichi edifici che si erigevano a una certa distanza dagli altri. Accanto all’ascensore c’era una guardia armata, evidentemente già informata del nostro arrivo.
Senza dire una parola, aprì la porta chiusa a chiave e ci fece cenno di entrare, poi la richiuse e si mise la chiave in tasca. Sentimmo il soldato al primo piano gridare i nostri nomi, e lo stesso avvenne al secondo, e poi ancora al successivo. Mentre l’ascensore saliva lentamente, un vero e proprio coro annunciava il nostro arrivo. In cima una guardia ripeté la cerimonia dell’apertura e della chiusura della porta dell’ascensore, dopo di che ci introdusse in un ampio salone annunciando: «Tovarishtchy Goldman e Berkman».
Ci fu chiesto di aspettare un attimo, ma passò quasi un’ora prima che riprendesse la cerimonia del nostro avvicinamento al seggio del sommo. Finalmente un giovane ci fece cenno di seguirlo. Attraversammo un certo numero di uffici dove ferveva una grande attività, tra ticchettii delle macchine da scrivere e va e vieni di corrieri. Fummo fatti fermare davanti a una porta di legno massiccio, ornata da motivi finemente scolpiti dietro alla quale, dopo essersi scusato, sparì il nostro accompagnatore. Poco dopo la porta si aprì e la nostra guida ci invitò ad entrare, per poi chiuderla alle nostre spalle e sparire. Restammo sulla soglia, in attesa di altre istruzioni su come procedere. A un tratto ci rendemmo conto di due occhi che ci stavano fissando come a volerci trapassare. L’uomo a cui appartenevano era seduto dietro a un’enorme scrivania, dove tutto era disposto con assoluta precisione, mentre anche il resto della stanza dava la stessa impressione di meticolosità. Alle sue spalle c’era un pannello con numerosi interruttori del telefono e una cartina geografica del mondo che ricopriva l’intera parete; ai lati contenitori di vetro colmi di pesanti volumi. Poi un grande tavolo oblungo ricoperto di rosso, dodici sedie dallo schienale dritto e parecchie poltrone alle finestre: nient’altro a ravvivare l’ordinata monotonia dell’insieme, se non quel po’ di rosso fiammante.
Era uno sfondo molto adatto a un uomo noto per le sue rigide abitudini di vita e il suo atteggiamento pratico. Lenin, l’uomo più idolatrato al mondo, ma anche il più odiato e il più temuto, sarebbe stato fuori posto in un ambiente meno austero.
«Il’ic non spreca tempo coi preliminari, va dritto allo scopo» mi aveva detto una volta Zorin con evidente orgoglio e in effetti ogni mossa che aveva fatto a partire dal 1917 lo testimoniava. Tuttavia, se fossimo stati in dubbio, il modo in cui ci ricevette e le modalità del colloquio ci avrebbero rapidamente convinto del risparmio emotivo che lo caratterizzava. Straordinaria era non solo la velocità con cui valutava l’emotività altrui, ma anche l’abilità con cui la utilizzava per i propri scopi.
Non meno stupefacente era lo scoppio di allegria con cui sottolineava tutto ciò che riteneva buffo in sé o nei visitatori e, soprattutto se poteva mettere l’altro in posizione di svantaggio, il grande Lenin si metteva a tremare tutto per il gran ridere, come se volesse costringere anche gli altri a ridere con lui.
Dopo che ci ebbe trapassato da parte a parte con lo sguardo, fummo sottoposti a una tempesta di domande che si susseguivano una all’altra come frecce scoccate da un arco di precisione. Prima l’America, con le sue condizioni politiche ed economiche: che probabilità c’erano di una rivoluzione nell’immediato futuro? Poi l’American Federation of Labour: era intrisa di ideologia borghese, oppure lo erano solo Gompers e la sua cricca? E la massa degli iscritti, poteva costituire un terreno fertile con cui aprirsi un varco dall’interno? Poi gli I.W.W.: qual era la loro forza? E gli anarchici erano davvero tanto efficaci come pareva indicare il nostro recente processo?
“Anarchici in carcere? Sciocchezze” disse Lenin

Aveva appena finito di leggere i discorsi che avevamo tenuto in aula. «Ben fatto! Chiara analisi del sistema capitalistico, splendida propaganda!». Peccato che non avessimo potuto restare negli Stati Uniti, non importa a che prezzo. Certamente eravamo i benvenuti nella Russia sovietica, ma persone combattive come noi erano estremamente necessarie in America, dove avrebbero potuto dare il loro apporto all’imminente rivoluzione, «così come molti dei vostri migliori compagni hanno fatto con la nostra». «E voi, tovarishch Berkman, che abile organizzatore dovete essere, proprio come Shatoff. Di vero acciaio, il vostro compagno Shatoff: non si tira indietro davanti a niente e lavora come dodici uomini messi insieme. Adesso è in Siberia, Commissario alle ferrovie della Repubblica Estremo-Orientale. Molti altri anarchici hanno avuto cariche importanti con noi. Tutte le porte sono spalancate se sono disposti a collaborare come veri anarchici ideiny [idealisti]. Voi, tovarishch Berkman, troverete presto il vostro posto. Peccato, però, che siate stato strappato via dall’America in questo momento prodigioso.
E voi, tovarishch Goldman? Che spazio avevate! Avreste potuto restare. Perchè non l’avete fatto, anche se il compagno Berkman era cacciato via? Beh, adesso siete qui. Avete pensato a che tipo di lavoro vi piacerebbe fare? Siete entrambi anarchici ideiny [idealisti], lo vedo dalla vostra posizione sulla guerra, dalla vostra idea dell’“Ottobre”, la lotta che avete condotto in nostro favore e la fede nei soviet. Proprio come il vostro grande compagno Malatesta, che è al fianco della Russia sovietica. Che cosa preferite fare?».
Sasha fu il primo a recuperare l’uso della parola. Cominciò a parlare in inglese, ma Lenin lo bloccò immediatamente con un’allegra risata. «Credete che capisca l’inglese? Neanche una parola. E neanche le altre lingue. Non sono bravo, anche se sono vissuto all’estero molti anni. Strano, no?». Altri scoppi di risa. Sasha proseguì in russo. Era orgoglioso di sentir lodare i suoi compagni, disse, ma perché c’erano degli anarchici nelle prigioni russe? «Anarchici?» lo interruppe Lenin. «Sciocchezze! Chi vi ha riferito simili fandonie, e come avete potuto crederci? In prigione abbiamo banditi e seguaci di Machno, ma non anarchici ideiny [idealisti]».
«Anche l’America capitalista divide gli anarchici in due categorie, i filosofi e i criminali» intervenni a quel punto. «I primi sono ben accetti anche nella migliore società ed uno di loro è tenuto in grande considerazione perfino dall’amministrazione Wilson. La seconda categoria, alla quale abbiamo l’onore di appartenere, viene perseguitata e spesso chiusa in prigione. Anche voi pare che facciate una distinzione senza che vi sia una reale differenza. Non vi sembra?». Ragionavo in modo sbagliato, replicò Lenin, facevo una gran confusione e tiravo conclusioni simili da premesse differenti. «La libertà di parola è un pregiudizio borghese, un cataplasma buono per tutti i mali sociali. Nella Repubblica dei lavoratori il benessere economico parla con voce più forte dei semplici discorsi e la sua libertà è molto più sicura.
La dittatura del proletariato sta seguendo questa rotta. Proprio adesso si trova di fronte a gravissimi ostacoli, il principale dei quali è l’opposizione dei contadini. Hanno bisogno di chiodi, sale, tessili, trattori, elettricità. Quando riusciremo a dar loro tutto questo, saranno con noi e nessun potere controrivoluzionario li farà tornare indietro. Nello stato attuale della Russia qualsiasi chiacchiera oziosa sulla libertà serve solo ad alimentare la reazione che vuole atterrare la Russia. Solo i banditi si macchiano di una simile colpa e devono essere tenuti sotto chiave».
Sasha gli consegnò le risoluzioni del convegno anarchico e sottolineò quanto i compagni di Mosca assicuravano, e cioè che i compagni imprigionati erano ideiny [idealisti], non banditi. «Il fatto che la nostra gente chieda di essere legalizzata prova che sono al fianco della Rivoluzione e dei soviet» sostenemmo. Lenin prese il documento e promise di sottoporlo alla prossima riunione dell’esecutivo del partito. Saremmo stati informati delle decisioni prese, ma in ogni caso si trattava di una questione di poco conto, niente che valesse la pena per un vero rivoluzionario. C’era qualcosa d’altro?
Lenin entusiasta del nostro progetto…

Gli dicemmo che in America avevamo combattuto perfino per i diritti politici dei nostri avversari e che pertanto il fatto che questi diritti fossero negati ai nostri compagni non era cosa di poco conto per noi. Per quanto mi riguardava personalmente, lo informai, non me la sentivo di collaborare con un regime che perseguitava gli anarchici o altri per le loro idee. C’erano poi dei mali ancora più gravi: come potevamo conciliarli con l’alto obiettivo cui lui stesso aspirava? Gliene citai alcuni. Mi rispose che il mio atteggiamento denotava sentimentalismo borghese. La dittatura del proletariato era impegnata in una lotta mortale e i fattori secondari non potevano essere presi in considerazione. La Russia stava facendo passi da gigante sia al proprio interno che all’estero. Stava innescando la rivoluzione mondiale ed io mi lamentavo di qualche piccolo spargimento di sangue. Era assurdo, dovevo superarlo. «Fate qualcosa», consigliò, «è il metodo migliore per recuperare il vostro equilibrio rivoluzionario».
Forse Lenin aveva ragione, mi dissi. Avrei seguito il suo consiglio. Gli dissi quindi che avrei cominciato subito, non con qualche attività interna alla Russia, ma piuttosto con qualcosa che avesse un valore di propaganda negli Stati Uniti. Mi sarebbe piaciuto organizzare un’associazione di amici russi della libertà americana, che svolgesse attività a sostegno della lotta per la libertà che si svolgeva in America, così come gli amici americani della Russia avevano appoggiato la Russia e la sua battaglia contro il regime zarista.
Per tutta la durata del colloquio Lenin non si era mosso dalla sedia, ma ora poco ci mancava che facesse un balzo in avanti. Fece un giro su se stesso, poi si parò davanti a noi. «Ecco un’idea brillante!» esclamò, sfregandosi le mani con un sorrisino. «Una bella proposta pratica. Dovete darvi da fare per attuarla subito. E voi, tovarishch Berkman; collaborerete anche voi?»
Sasha rispose che ne avevamo già parlato tra di noi e avevamo già elaborato i dettagli del progetto. Potevamo iniziare subito se avessimo avuto l’attrezzatura necessaria. Nessun problema, ci assicurò Lenin, avremmo avuto tutto: un ufficio, l’attrezzatura per stampare, corrieri, e tutti i fondi necessari. Dovevamo però fargli avere un prospetto con il dettaglio delle spese preventivate. Se ne sarebbe occupata la Terza Internazionale. Era il canale adatto per il nostro progetto e ci avrebbe fornito ogni aiuto necessario.
Muti per lo stupore, ci guardammo l’un l’altro e poi rivolgemmo lo sguardo verso Lenin. Parlando insieme, cominciammo a spiegare che i nostri sforzi sarebbero stati efficaci solo se fossimo stati liberi da qualsiasi affiliazione alle organizzazioni bolsceviche. Dovevamo condurre il progetto a modo nostro: conoscevamo la psicologia degli americani e qual era il sistema per svolgere il lavoro al meglio. Prima però che potessimo addentrarci in ulteriori dettagli, ricomparve improvvisamente la nostra guida, con la stessa discrezione con cui era sparita, e Lenin ci porse la mano in gesto di commiato. «Non dimenticatevi di farmi avere il prospetto» ripeté mentre già lasciavamo la stanza.

Emma Goldman