Quando gli anarchici puzzano – (in risposta all’articolo di P. Finzi su A rivista di novembre 2019)

Suore che tentano di convertire un punk
Ho cercato di contare fino a dieci. Anzi ho contato di più. Perché a volte si rischia di andare oltre, di scrivere cose che poi, a riguardarle dopo, rischiano di sembrare eccessive, stonate.

Quello che pubblico qui di seguito e un estratto del lungo articolo pubblicato a firma Paolo Finzi, sul numero di A Rivista anarchica distribuito questo mese. Per chi lo volesse, dato che sul sito sarà disponibile tra un po’, sono disponibile a mandare gli screenshot dell’articolo in privato.
Un articolo in cui le sciocchezze si mischiano ad alcune infamità vere e proprie, fatto ancora più incredibile se pensiamo che ad essere preso di mira è un morto. L’idea e sempre la stessa, da qualche mese a questa parte. Da una parte l’anarchico buono, il buon padre di famiglia, il rivoluzionario “saggio”, morto innocente precipitando da una finestra in questura, l’uomo di popolo di buoni principi e di valide letture, seguace di un Malatesta opportunamente depurato e democratizzato, buono, per l’uso che se ne fa, un po’ per tutte le stagioni.
Dall’altra, un anarchico “cattivo”, uno poco affidabile, irregolare, estemporaneo. Uno che, insieme a quelli come lui le bombe avrebbe anche potuto metterle. Ci sono delle perle in questo articolo. “Anarchismo stiracchiato tra droghe e bombette, estremismi verbali e sporcizia personale…”.
Per dio Paolo Finzi.
Il miglior Vittorio Feltri non avrebbe potuto usare prosa e argomenti migliori.
C’è spietatezza, e c’è anche il malcelato orgoglio personale di far parte di un anarchismo buono, nutrito di buone letture, pacifico più che pacifista. Se quelli gridavano “Bombe, sangue, anarchia” e io non so se lo facevano davvero, altri, articolista in testa, dietro, come le perpetue, a coprire gli slogan con “Cafiero, Malatesta e Bakunin” e nel rivendicarlo, nemmeno si viene sfiorati dall’idea che la santa trimurti vi avrebbe probabilmente riso dietro, avrebbe riso di questo decoro anarchico. Invece io credo, avendo conosciuto bene Pietro e un po’ meno bene Finzi, che molti dall’anarchismo istintivo (ma a differenza del mio, nutrito di ottime letture, perché Pietro, i classici, li conosceva eccome) di quel gruppo di giovani, avrebbero dovuto imparare delle cose. E invece no. Molti hanno trascinato mestamente il loro anarchismo per anni, coltivando con passione orticelli personali, facendo proseliti (pochi), trovando giullari sempre pronti a cantate e suonate (ogni riferimento non è casuale) e persino usufruendo di insperate occasioni di salire alla ribalta, come in occasione di questo cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana.
Che triste fine.
Che epilogo orrendo.
Partiti incendiari siete finiti a pisciare su un morto.

Vi regalo un’ultima immagine. Il contrasto stridente tra la “sporcizia personale” e, parlando di Calabresi “Oltre che per l’altezza si stagliava per la semplice eleganza dei suoi golf girocollo e soprattutto per come parlava…”.
Nemmeno Natalia Aspesi (che peraltro stimo) avrebbe colto con la stessa finezza i tratti distintivi del commissario. Si è sempre affascinati dal potere e dalle sue manifestazioni esteriori, ma di solito ci si esprime con maggior sobrietà.

La chiudo qui. Questo post l’ho fatto soprattutto per quanti di voi continuano a comprare A Rivista Anarchica, e magari ci scrivono pure sopra. Sappiatevi regolare. Non è più tempo per l’anarchia da salotto.

Cillo

QUESTIONE DI STILE – (in risposta ad editoriale di P. Finzi su A rivista di novembre 2019)

Il confronto all'americana del "mostro" Valpreda

Foto del confronto all’americana del “mostro” Valpreda.

Non ha remore Paolo Finzi che, su ‘A rivista anarchica’ di questo mese, delinea il suo ricordo di Giuseppe Pinelli. Non ha remore perché nel fare ciò sente la necessità impellente di abbattere la figura di Pietro Valpreda, prendendone le distanze in maniera inequivocabile. Ecco cosa scrive: Pinelli “era aperto alle più diverse forme di espressione del dissenso libertario… Ma portava… il segno delle proprie origini e della propria storia: la serietà, la credibilità, il rifiuto di ogni stolta esaltazione della violenza, di comportamenti antisociali, ecc.
Istintiva ed etica… la sua opposizione, il suo vero e proprio rifiuto di chi, invece, nei pur ristretti ambiti anarchici e libertari, si faceva portavoce di un anarchismo stiracchiato tra droghe e bombette, estremismi verbali e sporcizia personale, irregolarità ed estemporaneità. E siccome questi atteggiamenti erano anche presenti ai margini dell’anarchismo militante, Pino era tra quelli che più lucidamente li avversavano. Di qui la rottura a Milano con il gruppo che si concentrava intorno a Pietro Valpreda, che dopo una sua iniziativa sconsiderata era stato ‘cacciato’ dal circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, analogamente – nella sostanza – con quanto avvenne a Roma dalla sede di via dei Taurini, ad opera di alcuni dei militanti più attivi allora nella capitale…”.
E ancora: “… in un corteo in piazza Duomo nel 1969 ho visto e sentito Valpreda e una decina di suoi compagni urlare ‘Bombe, sangue, anarchia’… Si era alla rottura. Che avvenne anche grazie a Pinelli con il rinfacciare in un incontro a Valpreda e ai suoi compagni l’inaccettabilità di un simile comportamento pubblico e la definitiva divergenza delle rispettive strade”.
Valpreda è morto e difficilmente potrà ribattere ad affermazioni tanto definitive, peraltro in alcuni punti molto borghesi; nemmeno potrà confermare se fosse sua abitudine usare il sapone. Basterebbe però leggere le pagine di diario da lui scritte in carcere per coglierne lo spessore umano di cui deficitano molti contemporanei e contemporanee.
Ed ecco come prosegue nel suo articolo con la descrizione del commissario Calabresi: “Oltre che per l’altezza, Calabresi si stagliava per la semplice eleganza dei suoi golf girocollo e soprattutto per come parlava. Era una persona palesemente colta, mentre allora il grado di istruzione e cultura… dei funzionari delle forze dell’ordine faticava a distinguersi da quello della grossa minoranza analfabeta della popolazione italiana… Calabresi era solito parlare con noi manifestanti, cercava sempre informazioni su presenti e assenti… quel commissario alto e civile aveva un’arma in più, quella dell’apparente volontà di dialogo”.
“La campagna contro Calabresi”, prosegue Finzi, ” è stata troppo personalizzata, a mio avviso… E quei manifesti con il volto di Calabresi e le mani insanguinate non mi piacevano”.
Sconcerta leggere su una rivista anarchica parole che sembrerebbero rievocare le immagini di “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana. Sconcerta leggere sulla quarta di copertina di una rivista anarchica le parole “solo la nostra memoria può rendere migliore la nostra democrazia”. Sconcerta anche leggere sulla terza di copertina di una rivista anarchica il nome di Benedetta Tobagi, che il 15 dicembre 2009, al Teatro della Cooperativa di Milano, mentre dal palco l’avvocato Luca Boneschi ricordava le responsabilità del commissario Calabresi nell’omicidio di Pinelli, urlava dal pubblico che Calabresi non era responsabile della sua morte perché non era presente in quella stanza al quarto piano della questura.

Ingrid