QUESTIONE DI STILE – (in risposta ad editoriale di P. Finzi su A rivista di novembre 2019)

Il confronto all'americana del "mostro" Valpreda

Foto del confronto all’americana del “mostro” Valpreda.

Non ha remore Paolo Finzi che, su ‘A rivista anarchica’ di questo mese, delinea il suo ricordo di Giuseppe Pinelli. Non ha remore perché nel fare ciò sente la necessità impellente di abbattere la figura di Pietro Valpreda, prendendone le distanze in maniera inequivocabile. Ecco cosa scrive: Pinelli “era aperto alle più diverse forme di espressione del dissenso libertario… Ma portava… il segno delle proprie origini e della propria storia: la serietà, la credibilità, il rifiuto di ogni stolta esaltazione della violenza, di comportamenti antisociali, ecc.
Istintiva ed etica… la sua opposizione, il suo vero e proprio rifiuto di chi, invece, nei pur ristretti ambiti anarchici e libertari, si faceva portavoce di un anarchismo stiracchiato tra droghe e bombette, estremismi verbali e sporcizia personale, irregolarità ed estemporaneità. E siccome questi atteggiamenti erano anche presenti ai margini dell’anarchismo militante, Pino era tra quelli che più lucidamente li avversavano. Di qui la rottura a Milano con il gruppo che si concentrava intorno a Pietro Valpreda, che dopo una sua iniziativa sconsiderata era stato ‘cacciato’ dal circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, analogamente – nella sostanza – con quanto avvenne a Roma dalla sede di via dei Taurini, ad opera di alcuni dei militanti più attivi allora nella capitale…”.
E ancora: “… in un corteo in piazza Duomo nel 1969 ho visto e sentito Valpreda e una decina di suoi compagni urlare ‘Bombe, sangue, anarchia’… Si era alla rottura. Che avvenne anche grazie a Pinelli con il rinfacciare in un incontro a Valpreda e ai suoi compagni l’inaccettabilità di un simile comportamento pubblico e la definitiva divergenza delle rispettive strade”.
Valpreda è morto e difficilmente potrà ribattere ad affermazioni tanto definitive, peraltro in alcuni punti molto borghesi; nemmeno potrà confermare se fosse sua abitudine usare il sapone. Basterebbe però leggere le pagine di diario da lui scritte in carcere per coglierne lo spessore umano di cui deficitano molti contemporanei e contemporanee.
Ed ecco come prosegue nel suo articolo con la descrizione del commissario Calabresi: “Oltre che per l’altezza, Calabresi si stagliava per la semplice eleganza dei suoi golf girocollo e soprattutto per come parlava. Era una persona palesemente colta, mentre allora il grado di istruzione e cultura… dei funzionari delle forze dell’ordine faticava a distinguersi da quello della grossa minoranza analfabeta della popolazione italiana… Calabresi era solito parlare con noi manifestanti, cercava sempre informazioni su presenti e assenti… quel commissario alto e civile aveva un’arma in più, quella dell’apparente volontà di dialogo”.
“La campagna contro Calabresi”, prosegue Finzi, ” è stata troppo personalizzata, a mio avviso… E quei manifesti con il volto di Calabresi e le mani insanguinate non mi piacevano”.
Sconcerta leggere su una rivista anarchica parole che sembrerebbero rievocare le immagini di “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana. Sconcerta leggere sulla quarta di copertina di una rivista anarchica le parole “solo la nostra memoria può rendere migliore la nostra democrazia”. Sconcerta anche leggere sulla terza di copertina di una rivista anarchica il nome di Benedetta Tobagi, che il 15 dicembre 2009, al Teatro della Cooperativa di Milano, mentre dal palco l’avvocato Luca Boneschi ricordava le responsabilità del commissario Calabresi nell’omicidio di Pinelli, urlava dal pubblico che Calabresi non era responsabile della sua morte perché non era presente in quella stanza al quarto piano della questura.

Ingrid