Altra lettura in vista del giorno della memoria.
Il secondo capitolo de “I sommersi e i salvati” ( la zona grigia ) di Primo Levi.
In queste pagine appare chiarissimo come il potere sia in grado di corrompere chiunque e spezzare la solidarietà tra le vittime contro i carnefici.
Chi si riconosce nell’anarchismo sa che l’unico modo per evitare il ripetersi di nuovi stermini è lo sradicamento di qualunque forma di potere, statale o religioso che sia.
Date uno stato alle vittime e subito diventeranno carnefici.
Nella foto di Cartier Bresson una ex progioniera di un lager riconosce la sua aguzzina,
La zona grigia
Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere»
coincide con «semplificare»: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili
strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.
Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che
risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra «noi» e «loro », che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea
che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo dell’enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o
meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava
mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
La zona grigia della «protekcja» e della collaborazione nasce da
radici molteplici. In primo luogo, l’area del potere, quanto più è
ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli
ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com’era a mantenere il suo ordine all’interno dell’Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo mano d’opera, ma anche forze d’ordine, delegati ed amministratori del potere tedesco ormai impegnato altrove fino all’esaurimento. Entro quest’area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso,
Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di
Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici
impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il
combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Mai collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici,
sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire
ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di
legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità, e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70.
In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione
agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è
diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere gli ordini e l’ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia
grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano
accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.
Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni
prigionieri a collaborare in varia misura con l’autorità dei Lager,
occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è sempre difficile da valutare. É un giudizio che vorremmo affidare
soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di
verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione.
Lo sapeva bene il Manzoni: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi». La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura.
Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a
cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato
minimo, e su cui la costrizione è stata massima. Intorno a noi,
prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango.
Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie
notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio
la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di
pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In
generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario
come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si
adattavano a svolgere queste ed altre funzioni « terziarie»: innocue,
talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma
tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a
difendere con energia il loro «posto di lavoro» contro chi, dal basso o
dall’alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava
disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva
alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era
sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e
protervi, ma non venivano sentiti come nemici.
Il giudizio si fa più delicato e più vario per coloro che occupavano
posizioni di comando: i capi (Kapòs: il termine tedesco deriva
direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai
prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata
dall’omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo
valore differenziale) delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli
scritturali, fino al mondo (a quel tempo da me neppure sospettato) dei
prigionieri che svolgevano attività diverse, talvolta delicatissime, presso
gli uffici amministrativi del campo, la Sezione Politica (di fatto, una
sezione della Gestapo), il Servizio del Lavoro, le celle di punizione.
Alcuni fra questi, grazie alla loro abilità o alla fortuna, hanno avuto
accesso alle notizie più segrete dei rispettivi Lager, e, come Hermann
Langbein ad Auschwitz, Eugen Kogon a Buchenwald, e Hans Marsalek
a Mauthausen, ne sono poi diventati gli storici. Non si sa se ammirare di
più il loro coraggio personale o la loro astuzia, che ha concesso loro di
aiutare concretamente i loro compagni in molti modi, studiando
attentamente i singoli ufficiali delle SS con cui erano a contatto, ed in-
tuendo quali fra questi potessero essere corrotti, quali dissuasi dalle
decisioni più crudeli, quali ricattati, quali ingannati, quali spaventati
dalla prospettiva di un redde rationem a guerra finita. Alcuni fra loro,
ad esempio i tre nominati, erano anche membri di organizzazioni
segrete di difesa, e perciò il potere di cui disponevano grazie alla loro
carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in
quanto «resistenti» e in quanto detentori di segreti.
I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo
apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori
mimetizzati. Non così la maggior parte degli altri detentori di posizioni
di comando, che si sono rivelati esemplari umani da mediocri a pessimi.
Piuttosto che logorare, il potere corrompe; tanto più intensamente
corrompeva il loro potere, che era di natura peculiare.
Il potere esiste in tutte le varietà dell’organizzazione sociale
umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall’alto o
riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà
corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa
misura di dominio dell’uomo sull’uomo sia inscritta nel nostro
patrimonio genetico di animali gregari. Non è dimostrato che il potere
sia intrinsecamente nocivo alla collettività. Ma il potere di cui
disponevano i funzionari di cui si parla, anche di basso grado, come i
Kapòs delle squadre di lavoro, era sostanzialmente illimitato; o per
meglio dire, alla loro violenza era imposto un limite inferiore, nel
senso che essi venivano puniti o destituiti se non si mostravano
abbastanza duri, ma nessun limite superiore. In altri termini, erano
liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di
punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo
alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse
ucciso a botte da un Kapò, senza che questo avesse da temere alcuna
sanzione. Solo più tardi, quando il bisogno di mano d’opera si era
fatto più acuto, vennero introdotte alcune limitazioni: i maltrattamenti
che i Kapòs potevano infliggere ai prigionieri non dovevano ridurne
permanentemente la capacità lavorativa; ma ormai il mal uso era
invalso, e non sempre la norma venne rispettata.
Si riproduceva così, all’interno dei Lager, in scala più piccola ma
con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato
totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall’alto, ed in cui un
controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo «quasi» è
importante: non è mai esistito uno Stato che fosse realmente «tota-
litario» sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un
correttivo all’arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo
Reich né nell’Unione Sovietica di Stalin: nell’uno e nell’altra hanno
fatto da freno, in maggiore o minor misura, l’opinione pubblica, la
magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e
giustizia che dieci o vent’anni di tirannide non bastano a sradicare.
Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei
piccoli satrapi era assoluto. É comprensibile come un potere di tale
ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è
avido: come vi aspirassero anche individui dagli istinti moderati,
attratti dai molti vantaggi materiali della carica; e come questi ultimi
venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.
Chi diventava Kapò? Occorre ancora una volta distinguere. In
primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli
individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso
erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore:
rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva
un’eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da
cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati;
più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che
veniva loro offerta l’unico modo di sfuggire alla «soluzione finale». Ma
molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo
cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro
la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai
sottoposti sofferenza ed umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche
questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il
macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della
capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia
disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in
questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo
cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli
oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio
di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette
cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un
terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e
sconvolto. La regista Liliana Cavani, a cui era stato chiesto di esprimere
in breve il senso di un suo film bello e falso, ha dichiarato: «Siamo tutti
vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e
Dostoevskij l’hanno compreso bene»; ha detto anche di credere «che in
ogni ambiente, in ogni rapporto, ci sia una dinamica vittima-carnefice più
o meno chiaramente espressa e generalmente vissuta a livello non
cosciente».
Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne
intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa
poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che
vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini
sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in
servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o
un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è
un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità.
So che in Lager, e più in generale sul palcoscenico umano, capita tut-
to, e che perciò l’esempio singolo dimostra poco. Detto chiaramente
tutto questo, e riaffermato che confondere i due ruoli significa voler
mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia, restano da fare
alcune considerazioni.
Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige,
ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende
ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (tanto
più rilevante quanto maggiore era la loro libertà di scelta) di colpa, ed
oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema.
Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più
spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o
avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbio disagio, od
anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad
arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i
cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi: i prigionieri
dei Lager, centinaia di migliaia di persone di tutte le classi sociali, di
quasi tutti i paesi d’Europa, rappresentavano un campione medio, non
selezionato, di umanità: anche se non si volesse tener conto
dell’ambiente infernale in cui erano stati bruscamente precipitati, è
illogico pretendere da loro, ed è retorico e falso sostenere che abbiano
sempre e tutti seguito, il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai
filosofi stoici. In realtà, nella enorme maggioranza dei casi, il loro
comportamento è stato ferreamente obbligato: nel giro di poche
settimane o mesi, le privazioni a cui erano sottoposti li hanno condotti
ad una condizione di pura sopravvivenza, di lotta quotidiana contro la
fame, il freddo, la stanchezza, le percosse, in cui lo spazio per le scelte
(in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla; fra questi, pochissimi
hanno sopravvissuto alla prova, grazie alla somma di molti eventi
improbabili: sono insomma stati salvati dalla fortuna, e non ha molto
senso cercare fra i loro destini qualcosa di comune, al di fuori forse
della buona salute iniziale.
Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonder-
kommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a
parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto
(ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo
perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente
vaga, «Squadra Speciale», veniva indicato dalle SS il gruppo di
prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava
mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli
del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle
camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle
mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le
scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e
sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le
ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei
periodi, da 700 a 1.000 effettivi.
Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi,
da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun
uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad
Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in
funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un
artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra
successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori.
L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno
dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento a cui
accennerò più oltre. I superstiti delle Squadre Speciali sono dunque
stati pochissimi, sfuggiti alla morte per qualche imprevedibile gioco
del destino. Nessuno di loro, dopo la liberazione, ha parlato volentieri,
e nessuno parla volentieri della loro spaventosa condizione. Le notizie
che possediamo su queste Squadre provengono dalle scarne depo-
sizioni di questi superstiti; dalle ammissioni dei loro «committenti»
processati davanti a vari tribunali; da cenni contenuti in deposizioni di
«civili» tedeschi o polacchi che ebbero casualmente occasione di
venire a contatto con le squadre; e finalmente, da fogli di diario che
vennero scritti febbrilmente a futura memoria, e sepolti con estrema
cura nei dintorni dei crematori di Auschwitz, da alcuni dei loro
componenti. Tutte queste fonti concordano tra loro, eppure ci riesce
difficile, quasi impossibile, costruirci una rappresentazione di come
questi uomini vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi,
accettassero la loro condizione.
In un primo tempo, essi venivano scelti dalle SS fra i prigionieri
già immatricolati nei Lager, ed è stato testimoniato che la scelta
avveniva non soltanto in base alla robustezza fisica, ma anche
studiando a fondo le fisionomie. In qualche raro caso, l’arruolamento
avvenne per punizione. Più tardi, si preferì prelevare i candidati di-
rettamente sulla banchina ferroviaria, all’arrivo dei singoli convogli:
gli «psicologi » delle SS si erano accorti che il reclutamento era più
facile se si attingeva da quella gente disperata e disorientata, snervata
dal viaggio, priva di resistenze, nel momento cruciale dello sbarco dal
treno, quando veramente ogni nuovo giunto si sentiva alla soglia del
buio e del terrore di uno spazio non terrestre.
Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei.
Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo
principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la
popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei
per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a
questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a
mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-
razza, sotto-uomini, sì piegano ad ogni umiliazione, perfino a
distruggere se stessi. D’altra parte, è attestato che non tutte le SS
accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare
alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva
servire (e probabilmente servì ad alleggerire qualche coscienza.
Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a
qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali
fecero parte anche prigionieri non ebrei,
proprio dalla Squadra Speciale fu organizzato, nell’ottobre 1944,
l’unico disperato tentativo di rivolta nella storia dei Lager di
Auschwitz, a cui già si è accennato.
Le notizie che di questa impresa sono pervenute fino a noi non
sono né complete né concordi; si sa che i rivoltosi (gli addetti a due
dei cinque crematori di AuschwitzBirkenau), male armati e privi di
contatti con i partigiani polacchi fuori del Lager e con l’organizza-
zione clandestina di difesa entro il Lager, fecero esplodere il
crematorio n. 3 e diedero battaglia alle SS. Il combattimento finì
molto presto; alcuni degli insorti riuscirono a tagliare il filo spinato ed
a fuggire all’esterno, ma furono catturati poco dopo. Nessuno di loro è
sopravvissuto; circa 450 furono immediatamente uccisi dalle SS; di
queste, tre furono uccise e dodici ferite.
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono
dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche
settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in
nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria
mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi
ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha
conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a
compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale:
immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto,
tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e
dall’umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i
propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né
trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o
cento per vagone merci; di viaggiare verso l’ignoto, alla cieca, per
giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un
inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli
viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. É
questo, mi pare, il vero Befehlnotstand, lo «stato di costrizione
conseguente a un ordine»: non quello sistematicamente ed
impudentemente invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi
(ma sulle loro orme) dai criminali di guerra di molti altri paesi. Il
primo è un autaut rigido, l’obbedienza immediata o la morte; il secon-
do è un fatto interno al centro di potere, ed avrebbe potuto essere
risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche manovra, con qualche
ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o, nel peggiore dei
casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.
L’esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di
rappresentarlo Vercors, nel suo racconto Les armes de la nuit (Albin
Michel, Paris 1953) in cui si parla della «morte dell’anima», e che
riletto oggi mi appare intollerabilmente infetto di estetismo e di
libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte dell’anima si tratta; ora,
nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima
sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano
possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può
essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di
valutarla. Anche senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali,
accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che
l’interlocutore dica: «Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno».
L’affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un
altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano
pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni
estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio.
Perciò chiedo che la storia dei «corvi del crematorio» venga meditata
con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.
La stessa «impotentia judicandi» ci paralizza davanti al caso
Rumkowski. La storia di Chaim Rumkowski non è propriamente una
storia di Lager, benché nel Lager si concluda: è una storia di ghetto, ma
così eloquente sul tema fondamentale dell’ambiguità umana provocata
fatalmente dall’oppressione, che mi pare si attagli fin troppo bene al
nostro discorso. La ripeto qui, anche se già l’ho narrata altrove.
Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa
moneta in lega leggera, che conservo tuttora. È graffiata e corrosa;
reca su una faccia la stella ebraica (lo «Scudo di Davide»), la data
1943 e la parola getto, che alla tedesca si legge ghetto; sull’altra
faccia, le scritte QUITTUNG UBER 10 MARK e DER ALTESTE
DER JUDEN IN LITZMANNSTADT, e cioè rispettivamente
Quietanza su 10 marchi e Il decano degli ebrei in Litzmannstadt: era
insomma una moneta interna di un ghetto. Per molti anni ne ho
dimenticato l’esistenza, poi, verso il 1974 ho potuto ricostruirne la
storia, che è affascinante e sinistra.
Col nome di Litzmannstadt, in onore di un generale Litzmann
vittorioso sui russi nella prima guerra mondiale, i nazisti avevano
ribattezzato la città polacca di Lòdz. Negli ultimi mesi del 1944 gli
ultimi superstiti del ghetto di Lòdz erano stati deportati ad Auschwitz:
io devo aver trovato sul suolo del Lager quella moneta ormai inutile.
Nel 1939 Lòdz aveva 750.000 abitanti, ed era la più industriale delle
città polacche, la più «moderna» e la più brutta: viveva sull’industria
tessile, come Manchester e Biella, ed era condizionata dalla presenza di
una miriade di stabilimenti grandi e piccoli, per lo più antiquati già allora.
Come in tutte le città di una certa importanza dell’Europa orientale
occupata, i nazisti si affrettarono a costituirvi un ghetto, ripristinandovi,
aggravato dalla loro moderna ferocia, il regime dei ghetti del medioevo e
della controriforma. Il ghetto di Lòdz aperto già nel febbraio 1940, fu il
primo in ordine di tempo, ed il secondo, dopo quello di Varsavia, come
consistenza numerica: giunse a contenere più di 160.000 ebrei, e fu
sciolto solo nell’autunno del 1944. Fu dunque il più longevo dei ghetti
nazisti, e ciò va attribuito a due ragioni: la sua importanza economica e la
conturbante personalità del suo presidente.
Si chiamava Chaim Rumkowski: già piccolo industriale fallito,
dopo vari viaggi ed alterne vicende si era stabilito a Lòdz nel 1917.
Nel 1940 aveva quasi sessant’anni ed era vedovo senza figli; godeva
di una certa stima, ed era noto come direttore di opere pie ebraiche e
come uomo energico, incolto ed autoritario. La carica di Presidente (o
Decano) di un ghetto era intrinsecamente spaventosa, ma era una
carica, costituiva un riconoscimento sociale, sollevava di uno scalino e
conferiva diritti e privilegi, cioè autorità: ora Rumkowski amava
appassionatamente l’autorità. Come sia pervenuto all’investitura, non
è noto: forse si trattò di una beffa nel tristo stile nazista (Rumkowski
era, o sembrava, uno sciocco dall’aria per bene, insomma uno
zimbello ideale); forse intrigò egli stesso per essere scelto, tanto
doveva essere forte in lui la voglia del potere. É provato che i quattro
anni della sua presidenza, o meglio della sua dittatura, furono un
sorprendente groviglio di sogno megalomane, di vitalità barbarica e di
reale capacità diplomatica ed organizzativa. Egli giunse presto a
vedere se stesso in veste di monarca assoluto ma illuminato, e certo fu
sospinto su questa via dai suoi padroni tedeschi, che giocavano bensì
con lui, ma apprezzavano i suoi talenti di buon amministratore e
d’uomo d’ordine. Da loro ottenne l’autorizzazione a battere moneta,
sia metallica (quella mia moneta) sia cartacea, su carta a filigrana che
gli fu fornita ufficialmente. In questa moneta erano pagati gli operai
estenuati del ghetto; potevano spenderla negli spacci per acquistarvi le
loro razioni alimentari, che ammontavano in media a 800 calorie
giornaliere (ricordo, di passata, che ne occorrono almeno 2000 per
sopravvivere in stato di assoluto riposo).
Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere
non solo obbedienza e rispetto, ma anche amore: in questo le dittature
moderne differiscono dalle antiche. Poiché disponeva di un esercito di
eccellenti artisti ed artigiani, pronti ad ogni suo cenno contro un
quarto di pane, fece disegnare e stampare francobolli che recano la sua
effigie, con i capelli e la barba candidi nella luce della Speranza e
della Fede. Ebbe una carrozza trainata da un ronzino scheletrico, e su
questa percorreva le strade del suo minuscolo regno, affollate di
mendicanti e di postulanti. Ebbe un manto regale, e si attorniò di una
corte di adulatori e di sicari; dai suoi poeti-cortigiani fece comporre
inni in cui si celebrava la sua «mano ferma e potente», e la pace e
l’ordine che per virtù sua regnavano nel ghetto; ordinò che ai bambini
delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle epidemie, dalla
denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in lode
«del nostro amato e provvido Presidente». Come tutti gli autocrati, si
affrettò ad organizzare una polizia efficiente, nominalmente per
mantenere l’ordine, di fatto per proteggere la sua persona e per
imporre la sua disciplina: era costituita da seicento guardie armate di
bastone, e da un numero imprecisato di spie. Pronunciò molti discorsi,
di cui alcuni ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile:
aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler, quella della
recitazione ispirata, dello pseudo-colloquio con la folla, della crea-
zione del consenso attraverso il plagio ed il plauso. Forse questa sua
imitazione era deliberata; forse era invece una identificazione
inconscia col modello dell’«eroe necessario» che allora dominava
l’Europa ed era stato cantato da D’Annunzio; ma è più probabile che il
suo atteggiamento scaturisse dalla sua condizione di piccolo tiranno,
impotente verso l’alto ed onnipotente verso il basso. Chi ha trono e
scettro, chi non teme di essere contraddetto né irriso, parla così.
Eppure la sua figura fu più complessa di quanto appaia fin qui.
Rumkowski non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche
misura, oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto
egli stesso di essere un messia, un salvatore del suo popolo, il cui
bene, almeno ad intervalli, egli deve avere pure desiderato. Occorre
beneficare per sentirsi benefici, e sentirsi benefici è gratificante anche
per un satrapo corrotto. Paradossalmente, alla sua identificazione con
gli oppressori si alterna o si affianca un’identificazione con gli
oppressi, poiché l’uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa; e
tanto più confusa diventa, possiamo aggiungere, quanto più è
sottoposta a tensioni: allora sfugge al nostro giudizio, così come
impazzisce una bussola al polo magnetico.
Benché sia stato costantemente disprezzato e deriso dai tedeschi,
è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo
ma come a un Signore. Deve aver preso sul serio la propria autorità:
quando la Gestapo si impadronì senza preavviso dei «suoi»
consiglieri, accorse con coraggio in loro aiuto, esponendosi a beffe e
schiaffi che seppe sopportare con dignità. Anche in altre occasioni,
cercò di mercanteggiare con i tedeschi, che esigevano sempre più tela
da Lòdz e da lui contingenti sempre più alti di bocche inutili (vecchi,
bambini, ammalati) da mandare alle camere a gas di Treblinka e poi di
Auschwitz. La stessa durezza con cui si precipitò a reprimere i moti
d’insubordinazione dei suoi sudditi (esistevano, a Lòdz come in altri
ghetti, nuclei di temeraria resistenza politica, di radice sionista,
bundista o comunista) non proveniva tanto da servilismo verso i
tedeschi, quanto da «lesa maestà», da indignazione per l’oltraggio
inferto alla sua regale persona.
Nel settembre 1944, poiché il fronte russo si stava avvicinando, i
nazisti diedero inizio alla liquidazione del ghetto di Lòdz Decine di
migliaia di uomini e donne furono deportati ad Auschwitz, «anus
mundi», luogo di drenaggio ultimo dell’universo tedesco; esausti
com’erano, furono quasi tutti soppressi immediatamente. Rimasero nel
ghetto un migliaio di uomini, a smobilitare il macchinario delle fabbriche
ed a cancellare le tracce della strage: essi furono liberati dalI’Armata
Rossa poco dopo, ed a loro si debbono le notizie qui riportate.
Sul destino finale di Chaim Rumkowski esistono due versioni,
come se l’ambiguità sotto il cui segno aveva vissuto si fosse protratta
ad avvolgerne la morte. Secondo la prima versione, nel corso della
liquidazione del ghetto egli avrebbe cercato di opporsi alla depor-
tazione di suo fratello, da cui non voleva separarsi; un ufficiale
tedesco gli avrebbe allora proposto di partire volontariamente insieme
con lui, ed egli avrebbe accettato. Un’altra versione afferma invece
che il salvataggio di Rumkowski sarebbe stato tentato da Hans
Biebow, altro personaggio ammantato di doppiezza. Questo losco
industriale tedesco era il funzionario responsabile dell’amministra-
zione del ghetto, e in pari tempo ne era l’appaltatore: il suo era dunque
un incarico delicato, perché le fabbriche tessili di Lòdz lavoravano per
le forze armate. Biebow non era una belva: non gli interessava creare
sofferenze inutili né punire gli ebrei per la loro colpa di essere ebrei,
bensì guadagnare sulle forniture, nei modi leciti e negli altri. Il
tormento del ghetto lo toccava, ma solo per via indiretta; desiderava
che gli operai schiavi lavorassero, e perciò desiderava che non
morissero di fame: il suo senso morale si fermava qui. Di fatto, era il
vero padrone del ghetto, ed era legato a Rumkowski da quel rapporto
committente-fornitore che spesso sfocia in una ruvida amicizia.
Biebow, piccolo sciacallo troppo cinico per prendere sul serio la
demonologia della razza, avrebbe voluto rimandare a oltranza lo
scioglimento del ghetto, che per lui era un ottimo affare, e preservare
dalla deportazione Rumkowski, della cui complicità si fidava: dove si
vede come spesso un realista sia obiettivamente migliore di un teorico.
Ma i teorici delle SS erano di parere contrario, ed erano i più forti.
Erano gründlich, radicali: via il ghetto e via Rumkowski.
Non potendo provvedere diversamente, Biebow, che aveva buone
aderenze, consegnò a Rumkowski una lettera indirizzata al coman-
dante del Lager di destinazione, e gli garantì che essa lo avrebbe
protetto e gli avrebbe assicurato un trattamento di favore. Rumkowski
avrebbe chiesto a Biebow, ed ottenuto, di viaggiare fino ad
Auschwitz, lui e la sua famiglia, col decoro che si addiceva al suo
rango, e cioè in un vagone speciale, agganciato in coda alla tradotta di
vagoni merci stipati di deportati senza privilegi: ma il destino degli
ebrei in mano tedesca era uno solo, fossero vili od eroi, umili o
superbi. Né la lettera né il vagone valsero a salvare dal gas Chaim
Rumkowski, re dei Giudei.
Una storia come questa non è chiusa in sé. É pregna, pone più
domande di quante ne soddisfaccia, riassume in sé l’intera tematica
della zona grigia, e lascia sospesi. Grida e chiama per essere capita,
perché vi si intravede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo.
Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo
comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che
hanno preceduto la sua «carriera» sono significativi: gli uomini che da
un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua
storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica
che dalla costrizione politica fa nascere l’area indefinita
dell’ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli
uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di
potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a
coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di
Hitler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima
che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d’una autorità scellerata e
moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è
ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che (come per
Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di
dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai
sogni infantili di onnipotenza. Se è valida l’interpretazione di un
Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che
l’intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l’ambiente
del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere perfino in
condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà
individuale. Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più
famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione
distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione,
l’aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi.
Tutto questo non esonera Rumkowski dalla sua responsabilità.
Che dall’afflizione di Lòdz un Rumkowski sia emerso, duole e brucia;
se fosse sopravvissuto alla sua tragedia, ed alla tragedia del ghetto che
lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun
tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul
piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il
nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da
cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé,
perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci
vuole una ben solida ossatura morale, e quella di cui disponeva Chaim
Rumkowski, il mercante di Lòdz insieme con tutta la sua generazione,
era fragile: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come
si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in
pari tempo allettato dalla seduzione?
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei
Kapòs e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un
regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che
firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma
acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro
peggiore di me».
In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski,
figura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è difficile dire:
lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari
mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci
aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo
giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità
dell’uomo di recitare una parte non è illimitata.
Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di
minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più
vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la
nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua
febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che «scende
all’inferno con trombe e tamburi», ed i suoi orpelli miserabili sono
l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua
follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive
Isabella in Misura per misura, l’Uomo che,
– ammantato d’autorità precaria,
di ciò ignaro di cui si crede certo,
– della sua essenza, ch’è di vetro —, quale
una scimmia arrabbiata, gioca tali
insulse buffonate sotto il cielo
da far piangere gli angeli.
Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e
dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere
veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo
tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della
morte, e che poco lontano aspetta il treno