La zona grigia – In queste pagine appare chiarissimo come il potere sia in grado di corrompere chiunque e spezzare la solidarietà tra le vittime contro i carnefici.

Altra lettura in vista del giorno della memoria.
Il secondo capitolo de “I sommersi e i salvati” ( la zona grigia ) di Primo Levi.
In queste pagine appare chiarissimo come il potere sia in grado di corrompere chiunque e spezzare la solidarietà tra le vittime contro i carnefici.

Chi si riconosce nell’anarchismo sa che l’unico modo per evitare il ripetersi di nuovi stermini è lo sradicamento di qualunque forma di potere, statale o religioso che sia.
Date uno stato alle vittime e subito diventeranno carnefici.

Nella foto di Cartier Bresson una ex progioniera di un lager riconosce la sua aguzzina,

La zona grigia

Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere»
coincide con «semplificare»: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili
strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.
Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che
risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra «noi» e «loro », che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea
che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo dell’enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o
meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava
mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
La zona grigia della «protekcja» e della collaborazione nasce da
radici molteplici. In primo luogo, l’area del potere, quanto più è
ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli
ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com’era a mantenere il suo ordine all’interno dell’Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo mano d’opera, ma anche forze d’ordine, delegati ed amministratori del potere tedesco ormai impegnato altrove fino all’esaurimento. Entro quest’area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso,
Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di
Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici
impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il
combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Mai collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici,
sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire
ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di
legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità, e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70.
In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione
agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è
diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere gli ordini e l’ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia
grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano
accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.
Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni
prigionieri a collaborare in varia misura con l’autorità dei Lager,
occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è sempre difficile da valutare. É un giudizio che vorremmo affidare
soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di
verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione.
Lo sapeva bene il Manzoni: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi». La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura.
Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a
cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato
minimo, e su cui la costrizione è stata massima. Intorno a noi,
prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango.
Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie
notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio
la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di
pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In
generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario
come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si
adattavano a svolgere queste ed altre funzioni « terziarie»: innocue,
talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma
tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a
difendere con energia il loro «posto di lavoro» contro chi, dal basso o
dall’alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava
disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva

alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era
sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e
protervi, ma non venivano sentiti come nemici.
Il giudizio si fa più delicato e più vario per coloro che occupavano
posizioni di comando: i capi (Kapòs: il termine tedesco deriva
direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai
prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata
dall’omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo
valore differenziale) delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli
scritturali, fino al mondo (a quel tempo da me neppure sospettato) dei
prigionieri che svolgevano attività diverse, talvolta delicatissime, presso
gli uffici amministrativi del campo, la Sezione Politica (di fatto, una
sezione della Gestapo), il Servizio del Lavoro, le celle di punizione.
Alcuni fra questi, grazie alla loro abilità o alla fortuna, hanno avuto
accesso alle notizie più segrete dei rispettivi Lager, e, come Hermann
Langbein ad Auschwitz, Eugen Kogon a Buchenwald, e Hans Marsalek
a Mauthausen, ne sono poi diventati gli storici. Non si sa se ammirare di
più il loro coraggio personale o la loro astuzia, che ha concesso loro di
aiutare concretamente i loro compagni in molti modi, studiando
attentamente i singoli ufficiali delle SS con cui erano a contatto, ed in-
tuendo quali fra questi potessero essere corrotti, quali dissuasi dalle
decisioni più crudeli, quali ricattati, quali ingannati, quali spaventati
dalla prospettiva di un redde rationem a guerra finita. Alcuni fra loro,
ad esempio i tre nominati, erano anche membri di organizzazioni
segrete di difesa, e perciò il potere di cui disponevano grazie alla loro
carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in
quanto «resistenti» e in quanto detentori di segreti.
I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo
apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori
mimetizzati. Non così la maggior parte degli altri detentori di posizioni
di comando, che si sono rivelati esemplari umani da mediocri a pessimi.
Piuttosto che logorare, il potere corrompe; tanto più intensamente
corrompeva il loro potere, che era di natura peculiare.
Il potere esiste in tutte le varietà dell’organizzazione sociale
umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall’alto o

riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà
corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa
misura di dominio dell’uomo sull’uomo sia inscritta nel nostro
patrimonio genetico di animali gregari. Non è dimostrato che il potere
sia intrinsecamente nocivo alla collettività. Ma il potere di cui
disponevano i funzionari di cui si parla, anche di basso grado, come i
Kapòs delle squadre di lavoro, era sostanzialmente illimitato; o per
meglio dire, alla loro violenza era imposto un limite inferiore, nel
senso che essi venivano puniti o destituiti se non si mostravano
abbastanza duri, ma nessun limite superiore. In altri termini, erano
liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di
punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo
alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse
ucciso a botte da un Kapò, senza che questo avesse da temere alcuna
sanzione. Solo più tardi, quando il bisogno di mano d’opera si era
fatto più acuto, vennero introdotte alcune limitazioni: i maltrattamenti
che i Kapòs potevano infliggere ai prigionieri non dovevano ridurne
permanentemente la capacità lavorativa; ma ormai il mal uso era
invalso, e non sempre la norma venne rispettata.
Si riproduceva così, all’interno dei Lager, in scala più piccola ma
con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato
totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall’alto, ed in cui un
controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo «quasi» è
importante: non è mai esistito uno Stato che fosse realmente «tota-
litario» sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un
correttivo all’arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo
Reich né nell’Unione Sovietica di Stalin: nell’uno e nell’altra hanno
fatto da freno, in maggiore o minor misura, l’opinione pubblica, la
magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e
giustizia che dieci o vent’anni di tirannide non bastano a sradicare.
Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei
piccoli satrapi era assoluto. É comprensibile come un potere di tale
ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è
avido: come vi aspirassero anche individui dagli istinti moderati,

attratti dai molti vantaggi materiali della carica; e come questi ultimi
venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.
Chi diventava Kapò? Occorre ancora una volta distinguere. In
primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli
individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso
erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore:
rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva
un’eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da
cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati;
più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che
veniva loro offerta l’unico modo di sfuggire alla «soluzione finale». Ma
molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo
cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro
la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai
sottoposti sofferenza ed umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche
questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il
macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della
capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia
disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in
questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo
cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli
oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio
di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette
cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un
terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e
sconvolto. La regista Liliana Cavani, a cui era stato chiesto di esprimere
in breve il senso di un suo film bello e falso, ha dichiarato: «Siamo tutti
vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e
Dostoevskij l’hanno compreso bene»; ha detto anche di credere «che in
ogni ambiente, in ogni rapporto, ci sia una dinamica vittima-carnefice più
o meno chiaramente espressa e generalmente vissuta a livello non
cosciente».
Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne
intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa

poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che
vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini
sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in
servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o
un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è
un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità.
So che in Lager, e più in generale sul palcoscenico umano, capita tut-
to, e che perciò l’esempio singolo dimostra poco. Detto chiaramente
tutto questo, e riaffermato che confondere i due ruoli significa voler
mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia, restano da fare
alcune considerazioni.
Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige,
ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende
ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (tanto
più rilevante quanto maggiore era la loro libertà di scelta) di colpa, ed
oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema.
Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più
spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o
avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbio disagio, od
anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad
arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i
cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi: i prigionieri
dei Lager, centinaia di migliaia di persone di tutte le classi sociali, di
quasi tutti i paesi d’Europa, rappresentavano un campione medio, non
selezionato, di umanità: anche se non si volesse tener conto
dell’ambiente infernale in cui erano stati bruscamente precipitati, è
illogico pretendere da loro, ed è retorico e falso sostenere che abbiano
sempre e tutti seguito, il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai
filosofi stoici. In realtà, nella enorme maggioranza dei casi, il loro
comportamento è stato ferreamente obbligato: nel giro di poche
settimane o mesi, le privazioni a cui erano sottoposti li hanno condotti
ad una condizione di pura sopravvivenza, di lotta quotidiana contro la
fame, il freddo, la stanchezza, le percosse, in cui lo spazio per le scelte
(in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla; fra questi, pochissimi
hanno sopravvissuto alla prova, grazie alla somma di molti eventi

improbabili: sono insomma stati salvati dalla fortuna, e non ha molto
senso cercare fra i loro destini qualcosa di comune, al di fuori forse
della buona salute iniziale.
Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonder-
kommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a
parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto
(ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo
perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente
vaga, «Squadra Speciale», veniva indicato dalle SS il gruppo di
prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava
mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli
del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle
camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle
mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le
scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e
sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le
ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei
periodi, da 700 a 1.000 effettivi.
Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi,
da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun
uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad
Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in
funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un
artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra
successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori.
L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno
dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento a cui
accennerò più oltre. I superstiti delle Squadre Speciali sono dunque
stati pochissimi, sfuggiti alla morte per qualche imprevedibile gioco
del destino. Nessuno di loro, dopo la liberazione, ha parlato volentieri,
e nessuno parla volentieri della loro spaventosa condizione. Le notizie
che possediamo su queste Squadre provengono dalle scarne depo-
sizioni di questi superstiti; dalle ammissioni dei loro «committenti»

processati davanti a vari tribunali; da cenni contenuti in deposizioni di
«civili» tedeschi o polacchi che ebbero casualmente occasione di
venire a contatto con le squadre; e finalmente, da fogli di diario che
vennero scritti febbrilmente a futura memoria, e sepolti con estrema
cura nei dintorni dei crematori di Auschwitz, da alcuni dei loro
componenti. Tutte queste fonti concordano tra loro, eppure ci riesce
difficile, quasi impossibile, costruirci una rappresentazione di come
questi uomini vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi,
accettassero la loro condizione.
In un primo tempo, essi venivano scelti dalle SS fra i prigionieri
già immatricolati nei Lager, ed è stato testimoniato che la scelta
avveniva non soltanto in base alla robustezza fisica, ma anche
studiando a fondo le fisionomie. In qualche raro caso, l’arruolamento
avvenne per punizione. Più tardi, si preferì prelevare i candidati di-
rettamente sulla banchina ferroviaria, all’arrivo dei singoli convogli:
gli «psicologi » delle SS si erano accorti che il reclutamento era più
facile se si attingeva da quella gente disperata e disorientata, snervata
dal viaggio, priva di resistenze, nel momento cruciale dello sbarco dal
treno, quando veramente ogni nuovo giunto si sentiva alla soglia del
buio e del terrore di uno spazio non terrestre.
Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei.
Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo
principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la
popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei
per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a
questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a
mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-
razza, sotto-uomini, sì piegano ad ogni umiliazione, perfino a
distruggere se stessi. D’altra parte, è attestato che non tutte le SS
accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare
alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva
servire (e probabilmente servì ad alleggerire qualche coscienza.
Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a
qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali
fecero parte anche prigionieri non ebrei,
proprio dalla Squadra Speciale fu organizzato, nell’ottobre 1944,
l’unico disperato tentativo di rivolta nella storia dei Lager di
Auschwitz, a cui già si è accennato.
Le notizie che di questa impresa sono pervenute fino a noi non
sono né complete né concordi; si sa che i rivoltosi (gli addetti a due
dei cinque crematori di AuschwitzBirkenau), male armati e privi di
contatti con i partigiani polacchi fuori del Lager e con l’organizza-
zione clandestina di difesa entro il Lager, fecero esplodere il
crematorio n. 3 e diedero battaglia alle SS. Il combattimento finì
molto presto; alcuni degli insorti riuscirono a tagliare il filo spinato ed
a fuggire all’esterno, ma furono catturati poco dopo. Nessuno di loro è
sopravvissuto; circa 450 furono immediatamente uccisi dalle SS; di
queste, tre furono uccise e dodici ferite.
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono
dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche
settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in
nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria
mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi
ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha
conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a
compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale:
immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto,
tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e
dall’umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i
propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né
trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o
cento per vagone merci; di viaggiare verso l’ignoto, alla cieca, per
giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un
inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli
viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. É
questo, mi pare, il vero Befehlnotstand, lo «stato di costrizione
conseguente a un ordine»: non quello sistematicamente ed
impudentemente invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi
(ma sulle loro orme) dai criminali di guerra di molti altri paesi. Il
primo è un autaut rigido, l’obbedienza immediata o la morte; il secon-
do è un fatto interno al centro di potere, ed avrebbe potuto essere
risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche manovra, con qualche
ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o, nel peggiore dei
casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.
L’esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di
rappresentarlo Vercors, nel suo racconto Les armes de la nuit (Albin
Michel, Paris 1953) in cui si parla della «morte dell’anima», e che
riletto oggi mi appare intollerabilmente infetto di estetismo e di
libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte dell’anima si tratta; ora,
nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima
sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano
possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può
essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di
valutarla. Anche senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali,
accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che
l’interlocutore dica: «Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno».
L’affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un
altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano
pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni
estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio.
Perciò chiedo che la storia dei «corvi del crematorio» venga meditata
con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.
La stessa «impotentia judicandi» ci paralizza davanti al caso
Rumkowski. La storia di Chaim Rumkowski non è propriamente una
storia di Lager, benché nel Lager si concluda: è una storia di ghetto, ma
così eloquente sul tema fondamentale dell’ambiguità umana provocata
fatalmente dall’oppressione, che mi pare si attagli fin troppo bene al
nostro discorso. La ripeto qui, anche se già l’ho narrata altrove.
Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa
moneta in lega leggera, che conservo tuttora. È graffiata e corrosa;
reca su una faccia la stella ebraica (lo «Scudo di Davide»), la data
1943 e la parola getto, che alla tedesca si legge ghetto; sull’altra
faccia, le scritte QUITTUNG UBER 10 MARK e DER ALTESTE

DER JUDEN IN LITZMANNSTADT, e cioè rispettivamente
Quietanza su 10 marchi e Il decano degli ebrei in Litzmannstadt: era
insomma una moneta interna di un ghetto. Per molti anni ne ho
dimenticato l’esistenza, poi, verso il 1974 ho potuto ricostruirne la
storia, che è affascinante e sinistra.
Col nome di Litzmannstadt, in onore di un generale Litzmann
vittorioso sui russi nella prima guerra mondiale, i nazisti avevano
ribattezzato la città polacca di Lòdz. Negli ultimi mesi del 1944 gli
ultimi superstiti del ghetto di Lòdz erano stati deportati ad Auschwitz:
io devo aver trovato sul suolo del Lager quella moneta ormai inutile.
Nel 1939 Lòdz aveva 750.000 abitanti, ed era la più industriale delle
città polacche, la più «moderna» e la più brutta: viveva sull’industria
tessile, come Manchester e Biella, ed era condizionata dalla presenza di
una miriade di stabilimenti grandi e piccoli, per lo più antiquati già allora.
Come in tutte le città di una certa importanza dell’Europa orientale
occupata, i nazisti si affrettarono a costituirvi un ghetto, ripristinandovi,
aggravato dalla loro moderna ferocia, il regime dei ghetti del medioevo e
della controriforma. Il ghetto di Lòdz aperto già nel febbraio 1940, fu il
primo in ordine di tempo, ed il secondo, dopo quello di Varsavia, come
consistenza numerica: giunse a contenere più di 160.000 ebrei, e fu
sciolto solo nell’autunno del 1944. Fu dunque il più longevo dei ghetti
nazisti, e ciò va attribuito a due ragioni: la sua importanza economica e la
conturbante personalità del suo presidente.
Si chiamava Chaim Rumkowski: già piccolo industriale fallito,
dopo vari viaggi ed alterne vicende si era stabilito a Lòdz nel 1917.
Nel 1940 aveva quasi sessant’anni ed era vedovo senza figli; godeva
di una certa stima, ed era noto come direttore di opere pie ebraiche e
come uomo energico, incolto ed autoritario. La carica di Presidente (o
Decano) di un ghetto era intrinsecamente spaventosa, ma era una
carica, costituiva un riconoscimento sociale, sollevava di uno scalino e
conferiva diritti e privilegi, cioè autorità: ora Rumkowski amava
appassionatamente l’autorità. Come sia pervenuto all’investitura, non
è noto: forse si trattò di una beffa nel tristo stile nazista (Rumkowski
era, o sembrava, uno sciocco dall’aria per bene, insomma uno
zimbello ideale); forse intrigò egli stesso per essere scelto, tanto
doveva essere forte in lui la voglia del potere. É provato che i quattro
anni della sua presidenza, o meglio della sua dittatura, furono un
sorprendente groviglio di sogno megalomane, di vitalità barbarica e di
reale capacità diplomatica ed organizzativa. Egli giunse presto a
vedere se stesso in veste di monarca assoluto ma illuminato, e certo fu
sospinto su questa via dai suoi padroni tedeschi, che giocavano bensì
con lui, ma apprezzavano i suoi talenti di buon amministratore e
d’uomo d’ordine. Da loro ottenne l’autorizzazione a battere moneta,
sia metallica (quella mia moneta) sia cartacea, su carta a filigrana che
gli fu fornita ufficialmente. In questa moneta erano pagati gli operai
estenuati del ghetto; potevano spenderla negli spacci per acquistarvi le
loro razioni alimentari, che ammontavano in media a 800 calorie
giornaliere (ricordo, di passata, che ne occorrono almeno 2000 per
sopravvivere in stato di assoluto riposo).
Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere
non solo obbedienza e rispetto, ma anche amore: in questo le dittature
moderne differiscono dalle antiche. Poiché disponeva di un esercito di
eccellenti artisti ed artigiani, pronti ad ogni suo cenno contro un
quarto di pane, fece disegnare e stampare francobolli che recano la sua
effigie, con i capelli e la barba candidi nella luce della Speranza e
della Fede. Ebbe una carrozza trainata da un ronzino scheletrico, e su
questa percorreva le strade del suo minuscolo regno, affollate di
mendicanti e di postulanti. Ebbe un manto regale, e si attorniò di una
corte di adulatori e di sicari; dai suoi poeti-cortigiani fece comporre
inni in cui si celebrava la sua «mano ferma e potente», e la pace e
l’ordine che per virtù sua regnavano nel ghetto; ordinò che ai bambini
delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle epidemie, dalla
denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in lode
«del nostro amato e provvido Presidente». Come tutti gli autocrati, si
affrettò ad organizzare una polizia efficiente, nominalmente per
mantenere l’ordine, di fatto per proteggere la sua persona e per
imporre la sua disciplina: era costituita da seicento guardie armate di
bastone, e da un numero imprecisato di spie. Pronunciò molti discorsi,
di cui alcuni ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile:
aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler, quella della
recitazione ispirata, dello pseudo-colloquio con la folla, della crea-
zione del consenso attraverso il plagio ed il plauso. Forse questa sua
imitazione era deliberata; forse era invece una identificazione
inconscia col modello dell’«eroe necessario» che allora dominava
l’Europa ed era stato cantato da D’Annunzio; ma è più probabile che il
suo atteggiamento scaturisse dalla sua condizione di piccolo tiranno,
impotente verso l’alto ed onnipotente verso il basso. Chi ha trono e
scettro, chi non teme di essere contraddetto né irriso, parla così.
Eppure la sua figura fu più complessa di quanto appaia fin qui.
Rumkowski non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche
misura, oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto
egli stesso di essere un messia, un salvatore del suo popolo, il cui
bene, almeno ad intervalli, egli deve avere pure desiderato. Occorre
beneficare per sentirsi benefici, e sentirsi benefici è gratificante anche
per un satrapo corrotto. Paradossalmente, alla sua identificazione con
gli oppressori si alterna o si affianca un’identificazione con gli
oppressi, poiché l’uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa; e
tanto più confusa diventa, possiamo aggiungere, quanto più è
sottoposta a tensioni: allora sfugge al nostro giudizio, così come
impazzisce una bussola al polo magnetico.
Benché sia stato costantemente disprezzato e deriso dai tedeschi,
è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo
ma come a un Signore. Deve aver preso sul serio la propria autorità:
quando la Gestapo si impadronì senza preavviso dei «suoi»
consiglieri, accorse con coraggio in loro aiuto, esponendosi a beffe e
schiaffi che seppe sopportare con dignità. Anche in altre occasioni,
cercò di mercanteggiare con i tedeschi, che esigevano sempre più tela
da Lòdz e da lui contingenti sempre più alti di bocche inutili (vecchi,
bambini, ammalati) da mandare alle camere a gas di Treblinka e poi di
Auschwitz. La stessa durezza con cui si precipitò a reprimere i moti
d’insubordinazione dei suoi sudditi (esistevano, a Lòdz come in altri
ghetti, nuclei di temeraria resistenza politica, di radice sionista,
bundista o comunista) non proveniva tanto da servilismo verso i
tedeschi, quanto da «lesa maestà», da indignazione per l’oltraggio
inferto alla sua regale persona.

Nel settembre 1944, poiché il fronte russo si stava avvicinando, i
nazisti diedero inizio alla liquidazione del ghetto di Lòdz Decine di
migliaia di uomini e donne furono deportati ad Auschwitz, «anus
mundi», luogo di drenaggio ultimo dell’universo tedesco; esausti
com’erano, furono quasi tutti soppressi immediatamente. Rimasero nel
ghetto un migliaio di uomini, a smobilitare il macchinario delle fabbriche
ed a cancellare le tracce della strage: essi furono liberati dalI’Armata
Rossa poco dopo, ed a loro si debbono le notizie qui riportate.
Sul destino finale di Chaim Rumkowski esistono due versioni,
come se l’ambiguità sotto il cui segno aveva vissuto si fosse protratta
ad avvolgerne la morte. Secondo la prima versione, nel corso della
liquidazione del ghetto egli avrebbe cercato di opporsi alla depor-
tazione di suo fratello, da cui non voleva separarsi; un ufficiale
tedesco gli avrebbe allora proposto di partire volontariamente insieme
con lui, ed egli avrebbe accettato. Un’altra versione afferma invece
che il salvataggio di Rumkowski sarebbe stato tentato da Hans
Biebow, altro personaggio ammantato di doppiezza. Questo losco
industriale tedesco era il funzionario responsabile dell’amministra-
zione del ghetto, e in pari tempo ne era l’appaltatore: il suo era dunque
un incarico delicato, perché le fabbriche tessili di Lòdz lavoravano per
le forze armate. Biebow non era una belva: non gli interessava creare
sofferenze inutili né punire gli ebrei per la loro colpa di essere ebrei,
bensì guadagnare sulle forniture, nei modi leciti e negli altri. Il
tormento del ghetto lo toccava, ma solo per via indiretta; desiderava
che gli operai schiavi lavorassero, e perciò desiderava che non
morissero di fame: il suo senso morale si fermava qui. Di fatto, era il
vero padrone del ghetto, ed era legato a Rumkowski da quel rapporto
committente-fornitore che spesso sfocia in una ruvida amicizia.
Biebow, piccolo sciacallo troppo cinico per prendere sul serio la
demonologia della razza, avrebbe voluto rimandare a oltranza lo
scioglimento del ghetto, che per lui era un ottimo affare, e preservare
dalla deportazione Rumkowski, della cui complicità si fidava: dove si
vede come spesso un realista sia obiettivamente migliore di un teorico.
Ma i teorici delle SS erano di parere contrario, ed erano i più forti.
Erano gründlich, radicali: via il ghetto e via Rumkowski.

Non potendo provvedere diversamente, Biebow, che aveva buone
aderenze, consegnò a Rumkowski una lettera indirizzata al coman-
dante del Lager di destinazione, e gli garantì che essa lo avrebbe
protetto e gli avrebbe assicurato un trattamento di favore. Rumkowski
avrebbe chiesto a Biebow, ed ottenuto, di viaggiare fino ad
Auschwitz, lui e la sua famiglia, col decoro che si addiceva al suo
rango, e cioè in un vagone speciale, agganciato in coda alla tradotta di
vagoni merci stipati di deportati senza privilegi: ma il destino degli
ebrei in mano tedesca era uno solo, fossero vili od eroi, umili o
superbi. Né la lettera né il vagone valsero a salvare dal gas Chaim
Rumkowski, re dei Giudei.
Una storia come questa non è chiusa in sé. É pregna, pone più
domande di quante ne soddisfaccia, riassume in sé l’intera tematica
della zona grigia, e lascia sospesi. Grida e chiama per essere capita,
perché vi si intravede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo.
Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo
comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che
hanno preceduto la sua «carriera» sono significativi: gli uomini che da
un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua
storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica
che dalla costrizione politica fa nascere l’area indefinita
dell’ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli
uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di
potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a
coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di
Hitler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima
che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d’una autorità scellerata e
moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è
ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che (come per
Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di
dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai
sogni infantili di onnipotenza. Se è valida l’interpretazione di un
Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che

l’intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l’ambiente
del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere perfino in
condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà
individuale. Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più
famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione
distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione,
l’aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi.
Tutto questo non esonera Rumkowski dalla sua responsabilità.
Che dall’afflizione di Lòdz un Rumkowski sia emerso, duole e brucia;
se fosse sopravvissuto alla sua tragedia, ed alla tragedia del ghetto che
lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun
tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul
piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il
nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da
cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé,
perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci
vuole una ben solida ossatura morale, e quella di cui disponeva Chaim
Rumkowski, il mercante di Lòdz insieme con tutta la sua generazione,
era fragile: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come
si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in
pari tempo allettato dalla seduzione?
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei
Kapòs e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un
regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che
firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma
acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro
peggiore di me».
In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski,
figura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è difficile dire:
lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari
mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci
aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo
giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità
dell’uomo di recitare una parte non è illimitata.

Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di
minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più
vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la
nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua
febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che «scende
all’inferno con trombe e tamburi», ed i suoi orpelli miserabili sono
l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua
follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive
Isabella in Misura per misura, l’Uomo che,
– ammantato d’autorità precaria,
di ciò ignaro di cui si crede certo,
– della sua essenza, ch’è di vetro —, quale
una scimmia arrabbiata, gioca tali
insulse buffonate sotto il cielo
da far piangere gli angeli.
Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e
dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere
veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo
tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della
morte, e che poco lontano aspetta il treno

STORIA DI DIECI GIORNI – PRIMO LEVI AUSCHWITZ

Questo è l’ultimo capitolo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
Catturato dai fascisti perché partigiano e spedito ad Auschwitz perché ebreo.
Sono gli ultimi dieci giorni prima dell’ arrivo dei soldati sovietici. I nazisti abbandonarono il lager portandosi dietro i prigionieri in grado di camminare e lasciando i malati in balia di loro stessi.

Non è tanto lungo. Lo si finisce ben prima del giorno della memoria.

STORIA DI DIECI GIORNI

Già da molti mesi ormai si sentiva a intervalli il rombo dei cannoni russi, quando, l’11 gennaio 1945, mi ammalai di scarlattina e fui nuovamente ricoverato in Ka-Be. «Infektionsabteilung»: vale a dire una cameretta, per verità assai pulita, con dieci cuccette su due piani; un armadio; tre sgabelli, e la seggetta col secchio per i bisogni corporali. Il tutto in tre metri per cinque.
Sulle cuccette superiori era disagevole salire, non c’era scala; perciò quando un malato si aggravava veniva trasferito alle cuccette inferiori.
Quando io entrai, fui il tredicesimo: degli altri dodici, quattro avevano la scarlattina, due francesi «politici» e due ragazzi ebrei ungheresi; c’erano poi tre difterici, due tifosi, e uno affetto da una ributtante risipola tacciale. I due rimanenti avevano più di una malattia ed erano incredibilmente deperiti.
Avevo febbre alta. Ebbi la fortuna di avere una cuccetta tutta per me; mi coricai con sollievo, sapevo di avere diritto a quaranta giorni di isolamento e quindi di riposo, e mi ritenevo abbastanza ben conservato da non dover temere le conseguenze della scarlattina da una parte, e le selezioni dall’altra.
Grazie alla mia ormai lunga esperienza delle cose del campo, ero riuscito a portare con me le mie cose personali: una cintura di fili elettrici intrecciati; il cucchiaio-coltello; un ago con tre gugliate; cinque bottoni; e infine, diciotto pietrine per acciarino che avevo rubato in Laboratorio. Da ognuna di queste, assottigliandola pazientemente col coltello, si potevano ricavare tre pietrine più piccole, del calibro adatto a un normale accendisigaro. Erano state valutate sei o sette razioni di pane.
Passai quattro giorni tranquilli. Fuori nevicava e faceva molto freddo, ma la baracca era riscaldata. Ricevevo forti dosi di sulfamidico, soffrivo di una nausea intensa e stentavo a mangiare; non avevo voglia di attaccare discorso.
I due francesi con la scarlattina erano simpatici. Erano due provinciali dei Vosgi, entrati in campo da pochi giorni con un grosso trasporto di civili rastrellati dai tedeschi in ritirata dalla Lorena. Il più anziano si chiamava Arthur, era contadino, piccolo e magro. L’altro, suo compagno di cuccetta, si chiamava Charles, era maestro di scuola e aveva trentadue anni; invece della camicia gli era toccata una canottiera estiva comicamente corta.
Il quinto giorno venne il barbiere. Era un greco di Salonicco; parlava solo il bello spagnolo della sua gente, ma capiva qualche parola di tutte le lingue che si parlavano in campo. Si chiamava Askenazi, ed era in campo da quasi tre anni; non so come avesse potuto ottenere la carica di «Frisör» del Ka-Be: infatti non parlava tedesco né polacco e non era eccessivamente brutale. Prima che entrasse, lo avevo sentito parlare a lungo concitatamente nel corridoio col medico, che era suo compatriota. Mi parve che avesse una espressione insolita, ma poiché la mimica dei levantini non corrisponde alla nostra, non comprendevo se fosse spaventato, o lieto, o emozionato. Mi conosceva, o almeno sapeva che io ero italiano.
Quando fu il mio turno, scesi laboriosamente dalla cuccetta. Gli chiesi in italiano se c’era qualcosa di nuovo: egli interruppe rasatura, strizzò gli occhi in modo solenne e allusivo, indicò la finestra col mento, poi fece colla mano un gesto ampio verso ponente:
– Morgen, alle Kamarad weg.
Mi guardò un momento cogli occhi spalancati, come in attesa del mio stupore, poi aggiunse: – Todos todos, e riprese il lavoro. Sapeva delle mie pietrine, perciò mi rase con una certa delicatezza.
La notizia non provocò in me alcuna emozione diretta. Da molti mesi non conoscevo più il dolore, la gioia, il timore, se non in quel modo staccato e lontano che è caratteristico del Lager, e che si potrebbe chiamare condizionale: se avessi ora -pensavo – la mia sensibilità di prima, questo sarebbe un momento estremamente emozionante.
Avevo le idee perfettamente chiare; da molto tempo Alberto ed io avevamo previsto i pericoli che avrebbero accompagnato il momento della evacuazione del campo e della liberazione. Del resto la notizia portata da Askenazi non era che la conferma di una che circolava già da vari giorni: che i russi erano a Censtochowa, cento chilometri a nord; che erano a Zakopane, cento chilometri a sud; che in Buna i tedeschi già preparavano le mine di sabotaggio.
Guardai uno per uno i visi dei miei compagni di camera: era chiaro che non metteva conto di parlarne con nessuno di loro. Mi avrebbero risposto: «Ebbene?» e tutto sarebbe finito li. I francesi erano diversi, erano ancora freschi.
– Sapete? – dissi loro: – Domani si evacua il campo.
Mi coprirono di domande: – Verso dove? A piedi?… e anche i malati? Quelli che non possono camminare? – Sapevano che ero un vecchio prigioniero e che capivo il tedesco: ne concludevano che sapessi sull’argomento molto più di quanto non volessi ammettere.
Non sapevo altro: lo dissi, ma quelli continuarono colle domande. Che seccatura. Ma già, erano in Lager da qualche settimana, non avevano ancora imparato che in Lager non si fanno domande.

Nel pomeriggio venne il medico greco. Disse che, anche fra i malati, tutti quelli che potevano camminare sarebbero stati forniti di scarpe e di abiti, e sarebbero partiti il giorno dopo, con i sani, per una marcia di venti chilometri. Gli altri sarebbero rimasti in Ka-Be, con personale di assistenza scelto fra i malati meno gravi.
Il medico era insolitamente ilare, sembrava ubriaco. Lo conoscevo, era un uomo colto, intelligente, egoista e calcolatore. Disse ancora che tutti indistintamente avrebbero ricevuto tripla razione di pane, al che i malati si rallegrarono visibilmente. Gli facemmo qualche domanda su che cosa sarebbe stato di noi. Rispose che probabilmente i tedeschi ci avrebbero abbandonati al nostro destino: no, non credeva che ci avrebbero uccisi. Non metteva molto impegno a nascondere che pensava il contrario, la sua stessa allegria era significativa.
Era già equipaggiato per la marcia; appena fu uscito, i due ragazzi ungheresi presero a parlare concitatamente fra di loro. Erano in avanzata convalescenza, ma molto deperiti. Si capiva che avevano paura di restare coi malati, deliberavano di partire coi sani. Non si trattava di un ragionamento: è probabile che anche io, se non mi fossi sentito così debole, avrei seguito l’istinto del gregge; il terrore è eminentemente contagioso, e l’individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga.
Fuori della baracca si sentiva il campo in insolita agitazione. Uno dei due ungheresi si alzò, uscì e tornò dopo mezz’ora carico di stracci immondi. Doveva averli sottratti al magazzino degli effetti da passare alla disinfezione. Lui e il suo compagno si vestirono febbrilmente, indossando stracci su stracci. Si vedeva che avevano fretta di mettersi davanti al fatto compiuto, prima che la paura stessa li facesse recedere. Era insensato pensare di fare anche solo un’ora di cammino deboli come erano, e per di più nella neve, e con quelle scarpe rotte trovate all’ultimo momento. Tentai di spiegarlo, ma mi guardarono senza rispondere. Avevano gli occhi come le bestie impaurite.
Solo per un attimo mi passò per il capo che potevano anche aver ragione loro. Uscirono maldestri dalla finestra, li vidi, fagotti informi, barcollare fuori nella notte. Non sono tornati; ho saputo molto più tardi che, non potendo proseguire, furono abbattuti dalle SS poche ore dopo l’inizio della marcia.
Anche per me ci voleva un paio di scarpe: era chiaro. Pure ci volle forse un’ora perché riuscissi a vincere la nausea, la febbre e l’inerzia. Ne trovai un paio nel corridoio (i sani avevano saccheggiato il deposito delle scarpe dei ricoverati, e si erano prese le migliori: le più scadenti, sfondate e spaiate, giacevano in tutti i canti). Proprio là incontrai Kosman, un alsaziano. Era, da civile corrispondente della «Reuter» a Clermont-Ferrand: anche lui eccitato ed euforico. Disse: – Se dovessi tu ritornare prima di me, scrivi al sindaco di Metz che io sto per rientrare.
Kosman aveva notoriamente conoscenze fra i Prominenti, perciò il suo ottimismo mi parve buon indizio e lo utilizzai per giustificare davanti a me stesso la mia inerzia. Nascosi le scarpe e ritornai a letto.
A tarda notte venne ancora il medico greco, con un sacco sulle spalle e un passamontagna. Gettò sulla mia cuccetta un romanzo francese: – Tieni, leggi, italiano. Me lo renderai quando ci rivedremo. – Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati.
E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo «i due italiani» e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati. Aveva trovato grosse scarpe di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che trovano subito tutto ciò di cui hanno bisogno.
Anche lui era allegro e fiducioso, come tutti quelli che partivano. Era comprensibile: stava per accadere qualcosa di grande e di nuovo: si sentiva finalmente intorno una forza che non era quella della Germania, si sentiva materialmente scricchiolare tutto quel nostro mondo maledetto. O almeno, questo sentivano i sani, che, per quanto stanchi e affamati, avevano modo di muoversi; ma è indiscutibile che chi è troppo debole, o nudo, o scalzo, pensa e sente in un altro modo, e ciò che dominava le nostre menti era la sensazione paralizzante di essere totalmente inermi e in mano alla sorte.
Tutti i sani (tranne qualche ben consigliato che all’ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta di infermeria) partirono nella notte sul 18 gennaio 1945. Dovevano essere circa ventimila, provenienti da vari campi. Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà forse un giorno la loro storia.
Noi restammo dunque nei nostri giacigli, soli con le nostre malattie, e con la nostra inerzia più forte della paura.
Nell’intero Ka-Be eravamo forse ottocento. Nella nostra camera eravamo rimasti undici, ciascuno in una cuccetta, tranne Charles e Arthur che dormivano insieme. Spento il ritmo della grande macchina del Lager, incominciarono per noi i dieci giorni fuori del mondo e del tempo.

18 gennaio. Nella notte dell’evacuazione le cucine del campo avevano ancora funzionato, e il mattino seguente fu fatta nel l’infermeria l’ultima distribuzione di zuppa. L’impianto centrale di riscaldamento era stato abbandonato; nelle baracche ristagnava ancora un po’ di calore, ma a ogni ora che passava, la temperatura si andava abbassando, e si comprendeva che in breve avremmo sofferto il freddo. Fuori ci dovevano essere almeno 20° sotto lo zero; la maggior parte dei malati non aveva che la camicia, e alcuni nemmeno quella.
Nessuno sapeva quale fosse la nostra condizione. Alcune SS erano rimaste, alcune torrette di guardia erano ancora occupate.
Verso mezzogiorno un maresciallo delle SS fece il giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca scegliendolo fra i non-ebrei rimasti, e dispose che fosse immediatamente fatto un elenco dei malati, distinti in ebrei e non-ebrei. La cosa pareva chiara. Nessuno si stupì che i tedeschi conservassero fino all’ultimo il loro amore nazionale per le classificazioni, e, nessun ebreo pensò seriamente di vivere fino al giorno successivo.
I due francesi non avevano capito ed erano spaventati. Tradussi loro di malavoglia il discorso della SS; trovavo irritante che avessero paura: non avevano ancora un mese di Lager, non avevano quasi ancora fame, non erano neppure ebrei, e avevano paura.
Fu fatta ancora una distribuzione di pane. Passai il pomeriggio a leggere il libro lasciato dal medico: era molto interessante e lo ricordo con bizzarra precisione. Feci anche una visita al reparto accanto, in cerca di coperte: di là molti malati erano stati messi in uscita, le loro coperte erano rimaste libere. Ne presi con me alcune abbastanza calde.
Quando seppe che venivano dal Reparto Dissenteria Arthur arricciò il naso: – Y-avait point besoin de le dire -; infatti erano macchiate. Io pensavo che in ogni modo, dato ciò che ci aspettava, sarebbe stato meglio dormire ben coperti.
Fu presto notte, ma la luce elettrica funzionava ancora. Vedemmo con tranquillo spavento che all’angolo della baracca stava una SS armata. Non avevo voglia di parlare, e non provavo timore se non nel modo esterno e condizionale che ho detto. Continuai a leggere fino a tarda ora.
Non vi erano orologi, ma dovevano essere le ventitre quando tutte le luci si spensero, anche quelle dei riflettori sulle torrette di guardia. Si vedevano lontano i fasci dei fotoelettrici. Fiorì in cielo un grappolo di luci intense, che si mantennero immobili illuminando crudamente il terreno. Si sentiva il rombo degli apparecchi.
Poi cominciò il bombardamento. Non era cosa nuova, scesi a terra, infilai i piedi nudi nelle scarpe e attesi.
Sembrava lontano, forse su Auschwitz.
Ma ecco un’esplosione vicina, e, prima di poter formulare un pensiero, una seconda e una terza da sfondare le orecchie. Si sentirono vetri rovinare, la baracca oscillò, cadde a terra il cucchiaio che tenevo infisso in una commessura della parete di legno.
Poi parve finito. Cagnolati, un giovane contadino, egli pure dei Vosgi, non doveva aver mai visto una incursione: era uscito nudo dal letto, si era appiattato in un angolo e urlava.
Dopo pochi minuti fu evidente che il campo era stato colpito. Due baracche bruciavano con violenza, altre due erano state polverizzate, ma erano tutte baracche vuote. Arrivarono decine di malati, nudi e miserabili, da una baracca minacciata dal fuoco: chiedevano ricovero. Impossibile accoglierli. Insistettero, supplicando e minacciando in molte lingue: dovemmo barricare la porta. Si trascinarono altrove, illuminati dalle fiamme, scalzi nella neve in fusione. A molti pendevano dietro i bendaggi disfatti. Per la nostra baracca non pareva ci fosse pericolo, a meno che il vento non girasse.

I tedeschi non c’erano più. Le torrette erano vuote.

Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi.
Non si poteva dormire; un vetro era rotto e faceva molto freddo. Pensavo che avremmo dovuto cercare una stufa da installare, e procurarci carbone, legna e viveri. Sapevo che tutto questo era necessario, ma senza l’appoggio di qualcuno non avrei mai avuto l’energia di metterlo in atto. Ne parlai coi due francesi.

19 gennaio. I francesi furono d’accordo. Ci alzammo all’alba, noi tre. Mi sentivo malato e inerme, avevo freddo e paura.
Gli altri malati ci guardarono con curiosità rispettosa: non sapevamo che ai malati non era permesso uscire dal Ka-Be? E se i tedeschi non erano ancora tutti partiti? Ma non dissero nulla, erano contenti che ci fosse qualcuno per fare la prova.
I francesi non avevano alcuna idea della topografia del Lager, ma Charles era coraggioso e robusto, e Arthur era sagace e aveva un buon senso pratico di contadino. Uscimmo nel vento di una gelida giornata di nebbia, malamente avvolti in coperte.
Quello che vedemmo non assomiglia a nessuno spettacolo che io abbia mai visto né sentito descrivere.
Il Lager, appena morto, appariva già decomposto. Niente più acqua ed elettricità: finestre e porte sfondate sbattevano nel vento, stridevano le lamiere sconnesse dei tetti, e le ceneri dell’incendio volavano alto e lontano. All’opera delle bombe si aggiungeva l’opera degli uomini: cenciosi, cadenti, scheletrici, i malati in grado di muoversi si trascinavano per ogni dove, come una invasione di vermi, sul terreno indurito dal gelo. Avevano rovistato tutte le baracche vuote in cerca di alimenti e di legna; avevano violato con furia insensata le camere degli odiati Blockälteste, grottescamente adorne, precluse fino al giorno prima ai comuni Häftlinge; non più padroni dei propri visceri, avevano insozzato dovunque, inquinando la preziosa neve, unica sorgente d’acqua ormai per l’intero campo.
Attorno alle rovine fumanti delle baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne l’ultimo calore. Altri avevano trovato patate da qualche parte, e le arrostivano sulle braci dell’incendio, guardandosi intorno con occhi feroci. Pochi avevano avuto la forza di accendersi un vero fuoco, e vi facevano fondere la neve in recipienti di fortuna.
Ci dirigemmo alle cucine più in fretta che potemmo, ma le patate erano già quasi finite. Ne riempimmo due sacchi, e li lasciammo in custodia ad Arthur. Tra le macerie del Prominenzblock, Charles ed io trovammo finalmente quanto cercavamo: una pesante stufa di ghisa, con tubi ancora utilizzabili: Charles accorse con una carriola e caricammo; poi lasciò a me l’incarico di portarla in baracca e corse ai sacchi. Là trovò Arthur svenuto per il freddo; Charles si caricò entrambi i sacchi e li portò al sicuro, poi si occupò dell’amico.
Intanto io, reggendomi a stento, cercavo di manovrare del mio meglio la pesante carriola. Si udì un fremito di motore, ed ecco, una SS in motocicletta entrò nel campo. Come sempre, quando vedevamo i loro visi duri, mi sentii sommergere di terrore e di odio. Era troppo tardi per scomparire, e non volevo abbandonare la stufa. Il regolamento del Lager prescriveva di mettersi sull’attenti e di scoprirsi il capo. Io non avevo cappello ed ero impacciato dalla coperta. Mi allontanai qualche passo dalla carriola e feci una specie di goffo inchino. Il tedesco passò oltre senza vedermi, svoltò attorno a una baracca e se ne andò. Seppi più tardi quale pericolo avevo corso.
Raggiunsi finalmente la soglia della nostra baracca, e sbarcai la stufa nelle mani di Charles. Ero senza fiato per lo sforzo, vedevo danzare grandi macchie nere.
Si trattava di metterla in opera. Avevamo tutti e tre le mani paralizzate, e il metallo gelido si incollava alla pelle delle dita, ma era urgente che la stufa funzionasse, per scaldarci e per bollire le patate. Avevamo trovato legna e carbone, e anche brace proveniente dalle baracche bruciate.
Quando fu riparata la finestra sfondata, e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitre anni, tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata.
Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: «mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino», e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto.
Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini.
Arthur si era ripreso abbastanza bene, ma da allora evitò sempre di esporsi al freddo; si assunse la manutenzione della stufa, la cottura delle patate, la pulizia della camera e l’assistenza ai malati. Charles ed io ci dividemmo i vari servizi all’esterno. C’era ancora un’ora di luce: una sortita ci fruttò mezzo litro di spirito e un barattolo di lievito di birra, buttato nella neve da chissà chi; facemmo una distribuzione di patate bollite e di un cucchiaio a testa di lievito. Pensavo vagamente che potesse giovare contro l’avitaminosi.
Venne l’oscurità; di tutto il campo la nostra era l’unica camera munita di stufa, del che eravamo assai fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta, ma la statura imponente di Charles li teneva a bada. Nessuno, né noi né loro, pensava che la promiscuità inevitabile coi nostri malati rendeva pericolosissimo il soggiorno nella nostra camera, e che ammalarsi di difterite in quelle condizioni era più sicuramente mortale che saltare da un terzo piano.
Io stesso, che ne ero conscio, non mi soffermavo troppo su questa idea: da troppo tempo mi ero abituato a pensare alla morte per malattia come ad un evento possibile, e in tal caso ineluttabile, e comunque al di fuori di ogni possibile nostro intervento. E neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un’altra camera, in un’altra baracca con minor pericolo di contagio; qui era la stufa, opera nostra, che diffondeva un meraviglioso tepore; e qui avevo un letto; e infine, ormai, un legame ci univa, noi, gli undici malati della Infektionsabteilung.
Si sentiva di rado un fragore vicino e lontano di artiglieria, e a intervalli, un crepitio di fucili automatici. Nell’oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace, Charles, Arthur ed io sedevamo fumando sigarette di erbe aromatiche trovate in cucina, e parlando di molte cose passate e future. In mezzo alla sterminata pianura piena di gelo e di guerra, nella cameretta buia pullulante di germi, ci sentivamo in pace con noi e col mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione.

20 gennaio. Giunse l’alba, ed ero io di turno per l’accensione della stufa. Oltre alla debolezza generale, le articolazioni dolenti mi ricordavano a ogni momento che la mia scarlattina era lungi dall’essere scomparsa. Il pensiero di dovermi tuffare nell’aria gelida in cerca di fuoco per le altre baracche mi faceva tremare di ribrezzo.
Mi rammentai delle pietrine; cosparsi di spirito un foglietto di carta, e con pazienza da una pietrina vi raschiai sopra un mucchietto di polvere nera, poi presi a raschiare più forte la pietrina col coltello. Ed ecco: dopo qualche scintilla il mucchietto deflagrò, e dalla carta si levò la fiammella pallida dell’alcool.
Arthur discese entusiasta dal letto e fece scaldare tre patate a testa fra quelle bollite il giorno avanti; dopo di che, affamati e pieni di brividi, Charles ed io partimmo nuovamente in perlustrazione per il campo in sfacelo.
Ci restavano viveri (e cioè patate) per due giorni soltanto; per l’acqua eravamo ridotti a fondere la neve, operazione penosa per la mancanza di grandi recipienti, da cui si otteneva un liquido nerastro e torbido che era necessario filtrare.
Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe, occhi incavati, membra scheletrite e giallastre fra i cenci. Malfermi sulle gambe, entravano e uscivano dalle baracche deserte, asportandone gli oggetti più vari: scuri, secchi, mestoli, chiodi; tutto poteva servire, e i più lungimiranti già meditavano fruttuosi mercati con i polacchi della campagna circostante.
Nella cucina, due si accapigliavano per le ultime decine di patate putride. Si erano afferrati per gli stracci e si percuotevano con curiosi gesti lenti e incerti, vituperandosi in yiddisch fra le labbra gelate.
Nel cortile del magazzino stavano due grandi mucchi di cavoli e di rape (le grosse rape insipide, base della nostra alimentazione). Erano così gelati che non si potevano staccare se non col piccone. Charles ed io ci avvicendammo, tendendo tutte le nostre per ogni colpo, e ne estraemmo una cinquantina di chili. Vi fu anche altro: Charles trovò un pacco di sale e («une fameuse trouvaille!») un bidone d’acqua di forse mezzo ettolitro, allo stato di ghiaccio massiccio.
Caricammo ogni cosa su di un carrettino (servivano prima per distribuire il rancio alle baracche: ve n’era un gran numero abbandonati ovunque), e rientrammo spingendolo faticosamente sulla neve.
Per quel giorno ci accontentammo ancora di patate bollite e fette di rapa arrostite sulla stufa, ma per l’indomani Arthur ci promise importanti innovazioni.
Nel pomeriggio andai all’ex ambulatorio, in cerca di qualcosa di utile. Ero stato preceduto: tutto era stato manomesso da saccheggiatori inesperti. Non più una bottiglia intera, sul pavimento uno strato di stracci, sterco e materiale di medicazione, un cadavere nudo e contorto. Ma ecco qualcosa che ai miei predecessori era sfuggito: una batteria da autocarro. Toccai i poli col coltello: una piccola scintilla. Era carica.
A sera la nostra camera aveva la luce.

Stando a letto, vedevo dalla finestra un lungo tratto di strada: vi passava a ondate, già da tre giorni, la Wehrmacht in fuga. Autoblinde, carri «tigre» mimetizzati in bianco, tedeschi a cavallo, tedeschi in bicicletta, tedeschi a piedi, armati e disarmati. Si udiva nella notte il fracasso dei cingoli molto prima che i carri fossero visibili.
Chiedeva Charles: – Ça roule encore?
– Ça roule toujours.
Sembrava non dovesse mai finire.

21 gennaio. Invece finì. Coll’alba del 21 la pianura ci apparve deserta e rigida, bianca a perdita d’occhio sotto il volo dei corvi, mortalmente triste.
Avrei quasi preferito vedere ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi, appiattati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arrestato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto.
Ma già Charles aveva acceso la stufa, l’uomo Charles alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro:
– Vas-y, Primo, descends-toi de là-haut; il y a Jules à attraper par les oreilles…
«Jules» era il secchio della latrina, che ogni mattina bisognava afferrare per i manici, portare all’esterno e rovesciare nel pozzo nero: era questa la prima bisogna della giornata, e se si pensa che non era possibile lavarsi le mani, e che tre dei nostri erano ammalati di tifo, si comprende che non era un lavoro gradevole.
Dovevamo inaugurare i cavoli e le rape. Mentre io andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve da sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano star seduti, perché collaborassero nella mondatura. Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all’appello.
Anche Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent’anni; pareva in buone condizioni, ma di giorno in giorno la sua voce andava assumendo un sinistro timbro nasale, a ricordarci che la differite raramente perdona.
Alcalai era un vetraio ebreo di Tolosa; era molto tranquillo e assennato, soffriva di risipola al viso.
Schenck era un commerciante slovacco, ebreo: convalescente di tifo, aveva un formidabile appetito. Così pure Towarowski, ebreo franco-polacco, sciocco e ciarliero, ma utile alla nostra comunità per il suo comunicativo ottimismo.
Mentre dunque i malati lavoravano di coltello, ciascuno seduto sulla sua cuccetta, Charles ed io ci dedicammo alla ricerca di una sede possibile per le operazioni di cucina.
Una indescrivibile sporcizia aveva invaso ogni reparto del campo. Colmate tutte le latrine, della cui manutenzione naturalmente nessuno più si curava, i dissenterici (erano più di un centinaio) avevano insozzato ogni angolo del Ka-Be, riempito tutti i secchi, tutti i bidoni già destinati al rancio, tutte le gamelle. Non si poteva muovere un passo senza sorvegliare il piede; al buio era impossibile spostarsi. Pur soffrendo per il freddo, che si manteneva acuto, pensavamo con raccapriccio a quello che sarebbe accaduto se fosse sopraggiunto il disgelo: le infezioni avrebbero dilagato senza riparo, il fetore si sarebbe fatto soffocante, e inoltre, sciolta la neve, saremmo rimasti definitivamente senz’acqua.
Dopo una lunga ricerca, trovammo infine, in un locale già adibito a lavatoio, pochi palmi di pavimento non eccessivamente imbrattato. Vi accendemmo un fuoco vivo, poi, per risparmiare tempo e complicazioni, ci disinfettammo le mani frizionandole con cloramina mista a neve.
La notizia che una zuppa era in cottura si sparse rapidamente fra la folla dei semivivi; si formò sulla porta un assembramento di visi famelici. Charles, il mestolo levato, tenne loro un vigoroso breve discorso che, pur essendo in francese, non abbisognava di traduzione.
I più si dispersero, ma uno si fece avanti: era un parigino, sarto di classe (diceva lui), ammalato di polmoni. In cambio di un litro di zuppa si sarebbe messo a nostra disposizione per tagliarci abiti dalle numerose coperte rimaste in campo.
Maxime si dimostrò veramente abile. Il giorno dopo Charles ed io possedevamo giacca, brache e guantoni di ruvido tessuto a colori vistosi.
A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere profondamente inquieti, tendevamo l’orecchio agli scoppi di misteriose artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell’orizzonte, e ai sibili dei proiettili sui nostri capi.
Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa, e che, per quanto dipendeva da noi, alcune cose era necessario fare, altre necessario evitare. Che ognuno conservasse attentamente la sua propria gamella e il cucchiaio; che nessuno offrisse ad altri la zuppa che eventualmente gli fosse avanzata; nessuno scendesse dal letto se non per andare alla latrina; chi avesse bisogno di un qualsiasi servizio, non si rivolgesse ad altri che a noi tre; Arthur particolarmente era incaricato di vigilare sulla disciplina e sull’igiene, e doveva ricordare che era meglio lasciare gamelle e cucchiai sporchi, piuttosto che lavarli col pericolo di scambiare quelli di un difterico con quelli di un tifoso.
Ebbi l’impressione che i malati fossero ormai troppo indifferenti a ogni cosa per curarsi di quanto avevo detto; ma avevo molta fiducia nella diligenza di Arthur.

22 gennaio. Se è coraggioso chi affronta a cuor leggero un grave pericolo, Charles ed io quel mattino fummo coraggiosi. Estendemmo le nostre esplorazioni al campo delle SS, subito fuori del reticolato elettrico.
Le guardie del campo dovevano essere partite con molta fretta. Trovammo sui tavoli piatti pieni per metà di minestra ormai congelata, che divorammo con intenso godimento; boccali ancor colmi di birra trasformata in ghiaccio giallastro, una scacchiera con una partita incominciata. Nelle camerate, una quantità di roba preziosa.
Ci caricammo una bottiglia di vodka, medicinali vari, giornali e riviste e quattro ottime coperte imbottite, una delle quali è oggi nella mia casa di Torino. Lieti e incoscienti, riportammo nella cameretta il frutto della sortita, affidandolo all’amministrazione di Arthur. Solo a sera si seppe quanto era successo forse mezz’ora più tardi.
Alcune SS, forse disperse, ma armate, penetrarono nel campo abbandonato. Trovarono che diciotto francesi si erano stabiliti nel refettorio della SS-Waffe. Li uccisero tutti metodicamente, con un colpo alla nuca, allineando poi i corpi contorti sulla neve della strada; indi se ne andarono. I diciotto cadaveri restarono esposti fino all’arrivo dei russi; nessuno ebbe la forza di dar loro sepoltura.
D’altronde, in tutte le baracche v’erano ormai letti occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno si curava più di rimuovere. La terra era troppo gelata perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea, ma già fin dai primi giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpemente visibile dalla nostra finestra.
Solo una parete di legno ci separava dal reparto dei dissenterici. Qui molti erano i moribondi, molti i morti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati. Nessuno aveva più forza di uscire dalle coperte per cercare cibo, e chi prima lo aveva fatto non era ritornato a soccorrere i compagni. In uno stesso letto, avvinghiati per resistere meglio al freddo, proprio accanto alla parete divisoria, stavano due italiani: li sentivo spesso parlare, ma poiché io invece non parlavo che francese, per molto tempo non si accorsero della mia presenza. Udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunziato all’italiana da Charles, e da allora non smisero di gemere e di implorare.
Naturalmente avrei voluto aiutarli, avendone i mezzi e la forza; se non altro per far smettere l’ossessione delle loro grida. A sera, quando tutti i lavori furono finiti, vincendo la fatica e il ribrezzo, mi trascinai a tentoni per il corridoio lercio e buio, fino al loro reparto, con una gamella d’acqua e gli avanzi della nostra zuppa del giorno. Il risultato fu che da allora, attraverso la sottile parete, l’intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inflessioni di tutte le lingue d’Europa, accompagnato da preghiere incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi riparo. Mi sentivo prossimo a piangere, li avrei maledetti.
La notte riservò brutte sorprese.
Lakmaker, della cuccetta sotto la mia, era uno sciagurato rottame umano. Era (od era stato) un ebreo olandese di diciassette anni, alto, magro e mite. Era in letto da tre mesi, non so come fosse sfuggito alle selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la scarlattina; intanto gli si era palesato un grave vizio cardiaco ed era brutto di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno di noi era in grado di comprenderlo.
Forse causa di tutto fu la minestra di cavoli e rape, di cui Lakmaker aveva voluto due razioni. A metà notte gemette, poi si buttò dal letto. Cercava di raggiungere la latrina, ma era troppo debole e cadde a terra, piangendo e gridando forte.
Charles accese la luce (l’accumulatore si dimostrò provvidenziale) e potemmo constatare la gravità dell’incidente. Il letto del ragazzo e il pavimento erano imbrattati. L’odore nel piccolo ambiente diventava rapidamente insopportabile. Non avevamo che una minima scorta d’acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione; né si poteva certo lasciarlo tutta la notte sul pavimento a gemere e tremare di freddo in mezzo alla lordura.
Charles discese dal letto e si rivestì in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulì alla meglio con paglia estratta dal saccone, e lo ripose di peso nel letto rifatto, nell’unica posizione in cui il disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera; stemperò un po’ di cloramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche se stesso.
Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva.

23 gennaio. Le nostre patate erano finite. Circolava da giorni per le baracche la voce che un enorme silo di patate fosse situato da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo.
Qualche pioniere ignorato deve aver fatto pazienti ricerche, o qualcuno doveva sapere con precisione il luogo: di fatto, il mattino del 23 un tratto di filo spinato era stato abbattuto, e una doppia processione di miserabili usciva ed entrava dall’apertura.
Charles ed io partimmo, nel vento della pianura livida. Fummo oltre la barriera abbattuta.
– Dis donc, Primo, on est dehors!
Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati fra me e la mia casa.
A forse quattrocento metri dal campo, giacevano le patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate, e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa dal gelo. Nessuno sarebbe più morto di fame.
Ma l’estrazione non era lavoro da nulla. A causa del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo. Con duro lavoro di piccone si riusciva a perforare la crosta e a mettere a nudo il deposito; ma i più preferivano introdursi nei fori abbandonati da altri, spingendosi molto profondi e passando le patate ai compagni che stavano all’esterno.
Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell’atto dell’affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle patate. Chi venne dopo spostò il cadavere di un metro, e riprese il lavoro attraverso l’apertura resasi libera.
Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine.
Ma non ne poté godere Sertelet, il cui male progrediva. Oltre a parlare con timbro sempre più nasale, quel giorno non riuscì più inghiottire a dovere alcun alimento: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone minacciava di soffocarlo.
Andai a cercare un medico ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udì parlare di difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire.
Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazioni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene.

24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno.
Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte.
Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati grado di muoversi, o non avevano avuto l’energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano.
Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando che avanzassero le tre razioni di «rabiot pour les travailleurs» e un po’ di fondo «pour les italiens d’à côté».
Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni più gravi e più deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine.
Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori. Mi udì, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l’altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome.
Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo. Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di meraviglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite.
A sera, nella baracca 14 si cantava.
Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico. Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall’atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 assorbivano l’intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina.
Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell’Elektromagazin; ricordo l’espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguì:
– Che te ne vuoi fare?
Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere «buoni prigionieri», gente adatta, che se la sa sempre cavare; – Ich verstehe verschiedene Sachen… – (Me ne intendo di varie cose…)

25 gennaio. Fu la volta di Sómogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l’olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprì bocca quel giorno e disse con voce ferma:
– Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò più.
Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro.
Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola.
Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo.
Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell’artiglieria.
Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite.
Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, così anche dell’attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere.
A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell’armistizio in Italia, dell’inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell’uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne.
Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sómogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.

26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti.
È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce.
Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo.
Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi.
La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sómogyi.
In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto. «L’pauv’ vieux» taceva: aveva finito. Con l’ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo.
– La mort l’a chassé de son lit, – definì Arthur.
Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non c i restava che riaddormentarci.

27 gennaio. L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sómogyi.
Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E inoltre, «… rien de si dégoûtant que les débordements», dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno.
I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sómogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia.
Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto.
Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sómogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet,
Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest’ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell’infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno.

Avigliana-Torino, dicembre 1945 – gennaio 1947

Immagina, c’è la guerra e nessuno ci va.

Immagina, c’è la guerra e nessuno ci va.

E se … possibili pratiche di pace in Siria-Rojava, Ucraina, Gaza, Cisgiordania e non solo.

Un’analisi delle dinamiche in corso che mira ad evidenziare quali attori e quali pratiche sarebbero possibili per uscire dalla logica della violenza e della guerra.
Ne parliamo con Fabrizio Eva, geografo politico.
Domenica 26 gennaio alle 17.
Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa Viale Monza 255 Milano

Se proprio non riuscite a venire ci sarà la diretta facebook su Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa