La libertà che ci hanno resa!
di Albert Camus
Discorso pronunciato in un meeting a Parigi il 15 marzo 1957, organizzato dalla Solidarietà Internazionale Antifascista (S.I.A.) in occasione dell’anniversario della rivoluzione ungherese.
Il ministro di Stato ungherese Marosan, il cui nome suona come un programma, qualche giorno fa ha dichiarato che non ci sarebbe più controrivoluzione in Ungheria. Per una volta tanto, un ministro di Kádár ha detto la verità. Come potrebbe esserci una controrivoluzione poiché questa è già al potere? Non ci può essere in Ungheria che una rivoluzione.
Non sono di coloro che augurano che il popolo ungherese prenda nuovamente le armi per un’insurrezione destinata ad essere schiacciata sotto gli occhi di una società internazionale che le prodigherà applausi, lagrime virtuose, ma che dopo ciò ritornerà alle sue pantofole, come fanno gli sportivi delle gradinate, la domenica sera, dopo una partita di boxe. Ci sono già troppi morti nello stadio e noi non possiamo essere generosi che del nostro proprio sangue. Il sangue ungherese si è rivelato troppo prezioso all’Europa ed alla libertà perchè noi non ne siamo avari fino alla più piccola goccia. Ma non sono di coloro che pensano che possa esservi un arrangiamento sia pur provvisorio, con un regime di terrore che ha il diritto di chiamarsi socialista come il boia dell’Inquisizione aveva il diritto di chiamarsi cristiano. E, in questo giorno anniversario della libertà io auguro con tutte le mie forze che la resistenza muta del popolo ungherese si conservi, si rinforzi, e ripetuta da tutte le voci che noi possiamo darle, ottenga dall’opinione internazionale unanime il boicottaggio dei suoi oppressori. E se quest’opinione è troppo debole o troppo egoista per rendere giustizia ad un popolo martire, se anche le nostre voci sono troppo deboli, io auguro che la resistenza ungherese si mantenga ancora finché lo Stato controrivoluzionario crolli ovunque all’Est sotto il peso delle sue menzogne e delle sue contraddizioni.
Lo stato
controrivoluzionario
Perché si tratta ben di uno Stato controrivoluzionario. Come si può definire in un altro modo un regime che obbliga il padre a denunciare il figlio, il figlio a chiedere il supremo castigo per il padre; la moglie a testimoniare contro il marito, e che ha posto la delazione all’altezza della virtù? I tank stranieri, la polizia, le giovani di venti anni impiccate, i consigli di operai assassinati ed imprigionati, la campagna di menzogne, i campi, la censura, i giudici arrestati, i criminali che legiferano e la forca ancora e sempre, è questo il socialismo, la grande festa della libertà e della giustizia?
No, noi abbiamo conosciuto, conosciamo questo: sono i riti sanguinosi e monotoni della religione totalitaria! Il socialismo ungherese è, oggi, in prigione o in esilio. Nei palazzi dello Stato, armati fino ai denti, errano i tiranni mediocri dell’assolutismo, impauriti dalla parola stessa di libertà, inferociti da quella di libertà.
Ne è la prova che oggi, 15 marzo, giorno di verità e di libertà invincibile per tutti gli Ungheresi, per Kádár è stato un lungo giorno di paura.
Per dei lunghi anni, tuttavia, questi tiranni, aiutati in Occidente da complici che niente e nessuno obbligava a tanto zelo, hanno diffuso dei torrenti di fumo sulla loro vera azione. Quando qualche cosa ne traspariva, essi o i loro interpreti occidentali ci spiegavano che tutto s’arrangerebbe in una decina di generazioni, che nell’attesa tutti camminavano allegramente verso l’avvenire, che i popoli deportati avevano avuto il torto d’ingombrare un po’ la circolazione sulla strada superba del progresso, che gli uccisi erano completamente d’accordo sulla loro eliminazione, che gli intellettuali si dichiaravano felici del loro grazioso bavaglio perché era dialettico e che, infine, il popolo era contento del suo proprio lavoro, perché se esso faceva, per dei miserabili salari delle ore supplementari, lo faceva nel senso buono della storia.
Ahimè! Lo stesso popolo ha preso la parola ed ha parlato a Berlino, in Cecoslovacchia, a Poznan e in ultimo a Budapest. Ed in questa città, contemporaneamente al popolo, gli intellettuali si sono strappati il bavaglio. Ed entrambi, ad una sola voce, hanno detto che non si camminava in avanti ma che si indietreggiava, che si era ucciso per niente, deportato per niente, asservito per niente e che oramai per essere sicuri di avanzare sulla buona strada era necessario dare a tutti la verità e la libertà. Così, al primo grido dell’insurrezione in Budapest libera, chilometri di falsi ragionamenti e di belle dottrine ingannatrici di scienziati e di povere filosofie, sono stati ridotti in polvere. E la verità nuda, così troppo tempo oltraggiata, è apparsa agli occhi di tutti.
Dei padroni sprezzanti, che ignoravano persino di insultare la classe operaia, ci avevano assicurato che il popolo facilmente faceva a meno della libertà se soltanto gli si dava del pane. E lo stesso popolo rispondeva loro improvvisamente che non aveva neppure il pane, ma anche supponendo che ne avesse avuto, esso vorrebbe ancora qualchecosa di altro.
Perché non è un professore sapiente ma un fabbro di Budapest che scriveva: “Io voglio che mi si consideri come un adulto che vuole e sa pensare. Io voglio poter dire il mio pensiero senza aver niente da temere e voglio che mi si ascolti anche”.
Quanto agli intellettuali, ai quali era stato predicato ed urlato che non vi era altra verità che quella che serviva gli obiettivi della causa, ecco il giuramento che essi prestavano sulla tomba dei loro compagni assassinati per la suddetta causa: “Mai più, neppure sotto la minaccia e la tortura, né per un amore mal compreso della causa, dalle nostre bocche non uscirà altro che la verità”. (Tibor Meray sulla tomba di Rajik).
L’Ungheria
come la Spagna
Dopo questo la causa è chiara: Questo popolo massacrato è nostro.
L’Ungheria sarà, oggi, per noi ciò che fu la Spagna venti anni fa. Le sottili sfumature, gli artifici di parole, e le considerazioni sapienti con le quali si cerca ancora di mascherare la verità, non ci interessano. La concorrenza tra Rákosi e Kádár con la quale vogliono intrattenerci, non ha importanza. Sono tutti e due della stessa razza. Differiscono soltanto per i loro titoli di gloria di caccia e se quelli di Rákosi sono più sanguinanti non lo saranno per molto tempo.
In ogni caso, o che sia l’uccisore o il perseguitato persecutore, non cambia niente alla libertà dell’Ungheria. Mi dispiace a questo proposito di dover ancora fare da Cassandra e di deludere le nuove speranze di certi colleghi infaticabili, ma non c’è evoluzione possibile in una società totalitaria. Il terrore non evolve, se non verso il peggio, la forca non si liberalizza, la ghigliottina non è tollerante. In nessuna parte del mondo si è visto un partito o un uomo che, disponendo del potere assoluto, non ne abbia fatto un uso assoluto. Ciò che definisce la società totalitaria di destra o di sinistra è innanzitutto il partito unico ed il partito unico non ha nessuna ragione di auto-distruggersi. È per questo che la sola società che deve conservare la nostra simpatia sia critica che operante, è quella in cui vige la pluralità dei partiti. Essa sola permette di denunciare l’ingiustizia ed il delitto, quindi di correggerli. Essa sola, oggi, permette di denunciare la tortura, l’ignobile tortura, abominevole tanto in Algeria quanto a Budapest.
Le tare dell’Occidente sono innumerevoli, i suoi delitti ed i suoi errori sono reali. Ma, infine, non dimentichiamo che noi siamo i soli detentori di quel potere di perfezionamento e d’emancipazione che risiede nel libero pensiero. Non dimentichiamo che mentre la società totalitaria, coi suoi stessi principi, obbliga l’amico a denunciare l’amico, la società dell’Occidente, nonostante i suoi errori, produce sempre quella razza d’uomini che conservano l’onore di vivere, voglio dire la razza di coloro che tendono la mano allo stesso nemico per salvarlo dal dolore o dalla morte.
Quando il ministro Chépilov, proveniente da Parigi osa scrivere che “l’arte occidentale è destinata a squartare l’anima umana ed a formare dei massacratori di ogni specie” è tempo di rispondergli che i nostri artisti ed i nostri scrittori, almeno essi, non hanno mai massacrato nessuno e che hanno abbastanza generosità per non accusare la teoria del realismo socialista dei massacri coperti o ordinati da Chépilov e da coloro che gli assomigliano.
La verità è che c’è posto per tutti, tra di noi, anche per il male, ed anche per gli scrittori di Chépilov, ma anche per l’onore, per la via libera del desiderio, per l’avventura dell’intelligenza. Mentre non c’è posto per niente nella cultura staliniana, se non per i sermoni di patronato, la vita grigia e il catechismo della propaganda. A coloro che potevano ancora dubitarne, gli scrittori ungheresi gliel’hanno gridato recentemente, prima di manifestare la loro scelta definitiva perché preferiscono tacere, oggi, piuttosto che mentire per ordine.
La storia non può
giustificare il terrore
Non ci sarà facile essere degni di tanto sacrificio. Ma dobbiamo cercare di esserlo, in un’Europa infine unita, dimenticando le nostre querele, facendo giustizia dei nostri stessi errori, moltiplicando le nostre creazioni e la nostra solidarietà.
A coloro, infine, che hanno voluto umiliarci e farci credere che la storia poteva giustificare il terrore, rispondiamo con la nostra vera fede, quella che noi condividiamo, ora noi lo sappiamo, con gli scrittori ungheresi, polacchi ed anche, sì, con gli scrittori russi, imbavagliati essi pure.
La nostra fede è che c’è, in cammino nel mondo, parallelamente alla forza della costrizione e della morte che oscura la storia, una forza di persuasione e di vita che si chiama cultura e che si fa nello stesso tempo con la creazione libera ed il lavoro libero. Il nostro compito quotidiano, la nostra lunga vocazione è di accrescere con il nostro lavoro questa cultura e non di toglierle qualchecosa, sia pure provvisoriamente. Ma il nostro dovere più fiero è di difendere personalmente, e fino in fondo, contro la forza della costrizione e della morte, da qualunque parte venga, la libertà di questa cultura, cioè la libertà del lavoro e della creazione.
Gli operai e gli intellettuali ungheresi ai quali, oggi, siamo vicini con tanto impotente dolore, hanno compreso questo e ce l’hanno fatto capire meglio. Ecco perché se il loro dolore è il nostro, anche la loro speranza ci appartiene. Nonostante la loro miseria, il loro esilio, le loro catene, ci hanno lasciata un’eredità regale che noi dobbiamo meritare: la libertà, che non hanno scelta, ma che in un sol giorno ci hanno resa!
Ripreso da “Volontà” n. 7, anno X, 1° aprile 1957