Immagina, c’è la guerra e nessuno ci va. Il video

Immagina, c’è la guerra e nessuno ci va.
E se … possibili pratiche di pace in Siria-Rojava, Ucraina, Gaza, Cisgiordania e non solo.


Un’analisi delle dinamiche in corso che mira ad evidenziare quali attori e quali pratiche sarebbero possibili per uscire dalla logica della violenza e della guerra.
Ne parliamo con Fabrizio Eva, geografo politico.
Se non avete potuto partecipare all’incontro di domenica 26 gennaio alle 17.
presso il Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa potete vedere il video registrato seguendo il link qui sotto

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Gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado.

 

Gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado.
Italiani brava gente?


Si parlerà di questo nel giorno della memoria?

Leggete la storia del campo di concentramento fascista di Giado, in Libia, dove vennero internati appartenenti alla comunità ebraica locale.

( Da ricordare che gli ebrei si possono dividere in due grandi gruppi: Askenaziti quelli provenienti dall’est Europa e Sefarditi quelli che si sono stabiliti in nord Africa, provenienti dalla Spagna ).

Nella foto il generale Bastico, organizzatore dei rastrellamenti.

Gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado.

Nel febbraio del 1942 Mussolini dispose che tutti gli ebrei della Cirenaica fossero riuniti in un campo di concentramento della Tripolitania. Tre settimane dopo furono compiuti i primi rastrellamenti della comunità ebraica della Cirenaica sotto la guida del generale Bastico. Così sorse il campo di concentramento di Giado.

La testimonianza del deportato Ofek è sconvolgente: “Ogni due settimane, l’oppressore appendeva nella piazza di Bengasi un elenco delle famiglie che si dovevano preparare per poi recarsi nelle scuole da dove si sarebbe partiti. Ci caricarono sui camion, quelli solitamente usati per il trasporto delle merci. E il viaggio sarebbe durato cinque giorni…. In tutto 2600 famiglie furono portate via. Arrivammo al campo di Giado la vigilia di Pesach, la Pasqua ebraica… Soldati italiani e arabi vigilavano sul reticolato e chiunque si avvicinava rischiava di venire colpito dai fucili dei guardiani. Ci davano 120 grammi di pane al giorno. Le altre cose da mangiare venivano distribuite i domenica per l’intera settimana: cinque grammi di riso al giorno, tre grammi d’olio, tre grammi di conserva di pomodoro, cinque grammi di zucchero e cinque grammi di caffè… Ci costringevano a lavorare per dodici ore di seguito, senza pausa, senza interruzione, senza riposo… Era una tortura quotidiana… Organizzammo una delegazione di ebrei per andare dal comandante, il maggiore, e domandare razioni più consistenti. Ci rise dietro… Fu soltanto dopo molti pianti e alcuni discorsi convincenti degli anziani della nostra comunità che il comandante, crudele, consentì agli arabi della zona di venderci verdura, datteri e frumento… Ovviamente non avevamo soldi con noi…. DOpo una giornata di lavoro, comletamente esausti. Lavoravamo per il villaggio arabo, le nostre donne cucivano abiti per loro e in cambio ottenevamo qualcosa dai loro orti…”.

A Giado, a centottanta chilometri a sud di Tripoli, presso il crinale di Gebel Nefusa, gli ebrei raccoglievano pietre e le trasportavano da un lato all’altro del campo. Un lavoro inutile, senza senso, che serviva soltato a farli stancare e a annientarli psicologicamente.La follia nazista era arrivata anche lì. Nel 1942 circa 2000 ebrei furono rastrellati in tutta la Libia e inviati in questa località.

Moshe Saban lo ricorda così: “Era terribile. E’ così che ci siamo ammalati, tutte quelle infezioni e il tifo. Ricordo di essermi tolta la maglietta e di aver visto le cimici… grandi la metà di una zanzara che strisciavano sul mio corpo. La sera, verso le 19 quando cominciava a scendere il buio, eravamo costretti a addormentarci. L’ufficiale entrava con una frusta e guai a chi continuava a parlare o faceva altri rumori… Andava da una baracca all’altra per controllare chi aveva la febbre e portava i malati in ospedale. Chi lasciava la famiglia e andava in ospedale sapeva che non sarebbe più tornato”. Il lavoro era logorante e snervante. Yehuda Chachmon ricorda che erano impegnati “a scavare buche profonde e a etrare la terra rocciosa. Il giorno dopo portavano un altro gruppo e li costringevano a riempire le stesse buche con la stessa roba. Tracciavano una linea intorno al luogo dove stavamo lavorando e chi osava passare oltre quella linea veniva ucciso…”.

L’orrore irruppe nella vita del campo all’apprestarsi degli inglesi con un ordine raccapricciante: tutti gli ebrei maschi dovevano essere radunati e uccisi, mentre i 480 malati dell’infermeria del campo dovevano essere condotti nello scantinato per essere bruciati. Miracolosamente quest’ordine fu revocato. Gli inglesi trovarono a Giado gente malata ovunque, con addosso solo stracci, distesa per terra, nelle baracche, in condizioni igieniche inesistenti, privi di letti, colta dal tifo e affamata. Vi persero la vita più di 560 tra uomini, donne e bambini di origine ebraica, dati che fanno di Giado il lager italiano con il maggior numero di vittime.

Fonte

Non siamo pedine, siamo le persone che si sono ribellate al regime

Non siamo pedine, siamo le persone che si sono  ribellate al regime
Di Jwana Aziz


Questo articolo della scrittrice siriana Jwana Aziz riflette sulla  caduta del regime di Bashar al-Assad. Jwana esamina le condizioni che  hanno precipitato la rivolta del 2011, gli anni di guerra civile e le  difficoltà che ora attendono il popolo siriano, tenendo aperta anche la  possibilità di un futuro veramente liberato. —- Jwana è la figlia di  Omar Aziz (Abu Kamel), un intellettuale e anarchico siriano che ha  teorizzato e organizzato consigli democratici locali a Damasco durante  la rivolta. Nel 2012 il padre Aziz è stato arrestato dalle forze di  sicurezza siriane e nel 2013 è morto per le pessime condizioni in una  prigione del regime.
Introduzione
Mentre mi siedo a scrivere, ripenso all’ultima volta che ho visto mio  padre. In piedi davanti a me, dietro le sbarre di ferro, era fragile e  magro, eppure mi ha sorriso. Porto quel sorriso nella mia memoria. Mia  madre e io eravamo dalla parte opposta, unite al resto delle famiglie  che facevano visita ai loro cari. La divisione doveva essere chiara.  Loro, i prigionieri, hanno fatto un torto allo Stato e ne avrebbero  dovuto sopportare le conseguenze. Noi, d’altra parte, non possiamo  andarcene e girovagare liberi.
Oggi, io e i siriani di tutto il mondo, ci troviamo in mezzo a una  valanga di emozioni, cavalcando correnti di gioia, dolore, speranza e  paura, ognuna delle quali mi trascina in una direzione diversa. La  caduta del regime siriano era il nostro sogno collettivo, un desiderio a  cui aspiravamo e, dall’8 dicembre 2024, si è realizzato.
Per comprendere efficacemente la sua discesa, è importante capire prima  come è salito al potere. Quando Hafez Al-Assad prese per la prima volta  il potere in Siria nel 1970, la dinastia era stata progettata per  regnare con il pugno di ferro. Durante i primi tre decenni, Hafez  implementò un sistema basato sul clientelismo capitalista e sulla  corruzione, supportato da una pesante sorveglianza e da uno stato di  polizia militarizzato. Questa combinazione si è rivelata letale per  qualsiasi dissenso espresso contro di lui e la sua famiglia.
Consolidamento dei beni
Assad ha sfruttato la sua posizione al potere per monopolizzare il  controllo su tutti i settori critici, assicurando che lo Stato, sotto il  suo governo, dominasse quasi ogni aspetto della vita pubblica e privata.  Ciò includeva telecomunicazioni, immobiliare, istruzione, assistenza  sanitaria e persino istituzioni matrimoniali. Gli anni ’70 hanno visto  un drammatico ampliamento del settore pubblico, rendendo lo Stato il  principale datore di lavoro per i siriani. Entro il 2010, si stima che  1,4 milioni di siriani fossero nel libro paga del governo. Questa  strategia ha offuscato i confini tra la famiglia Assad e lo Stato  siriano, rendendoli praticamente indistinguibili.
Clientelismo
Il regime di Assad ha assicurato la lealtà coltivando una rete di élite  legate alla famiglia attraverso incentivi economici e sociali. Le  posizioni di potere sono state assegnate in base alla fedeltà, spesso  favorendo i membri della setta di Assad, gli alawiti, insieme a stretti  alleati. Questo radicato sistema di favoritismo ha assicurato la lealtà  di figure chiave nei settori militare, politico e commerciale,  consolidando ulteriormente il potere di Assad. La natura pervasiva della  loro presenza è stata sottolineata dalle innumerevoli statue erette in  onore di Assad e dei suoi compari, a simboleggiare il loro dominio  onnipresente sulla Siria.
Violenza di massa, prigionia di massa
Forse l’arma più potente nell’arsenale di Assad era la volontà del  regime di usare una violenza implacabile contro il suo stesso popolo.  Questa strategia ha raggiunto il suo apice più infame con il massacro di  Hama del 1982. In risposta a una rivolta della Fratellanza Musulmana, il  regime ha scatenato una brutale campagna militare. Conosciuto come “uno  dei momenti più bui nella storia moderna del mondo arabo”, il regime ha  ucciso circa 10.000-40.000 persone e distrutto gran parte della città.  Questo evento ha inviato un messaggio chiaro al resto di noi: qualsiasi  sfida al governo di Assad sarebbe stata affrontata con una forza  schiacciante e indiscriminata.
La guerra civile siriana, iniziata nel 2011 sotto il figlio di Hafez,  Bashar al-Assad, ha ulteriormente intensificato questa violenza su scala  industriale. Il regime ha utilizzato bombardamenti a tappeto, bombe a  barile e attacchi chimici per schiacciare le aree controllate  dall’opposizione, causando la morte di oltre mezzo milione di persone e  lo sfollamento di milioni di persone. Decine di migliaia di persone sono  state arrestate, torturate o fatte sparire.
In nessun luogo la capacità del regime di Assad di usare la violenza è  più evidente che nelle sue prigioni. Tra le più famigerate ci sono  Tadmor (a Palmira) e Sednaya, conosciuta come “Il mattatoio umano”.  Sednaya era divisa in sezioni: il “Palazzo rosso”, un sito di  sistematiche torture ed esecuzioni, e il “Palazzo bianco”, che ospitava  i prigionieri in attesa del loro destino.
Un rapporto del 2017 di Amnesty International, basato sulle  testimonianze di ex guardie, ha rivelato che dopo la guerra civile  siriana, l’Edificio Bianco è stato sgomberato dai prigionieri per far  posto a coloro che erano detenuti per aver partecipato alle proteste  contro il regime di Bashar al-Assad. Le stime suggeriscono che circa  157.634 siriani siano stati arrestati tra marzo 2011 e agosto 2024. Tra  loro c’erano 5.274 bambini e 10.221 donne. Sotto il White Building c’era  una “stanza delle esecuzioni”, dove i detenuti del Red Building venivano  trasportati per essere impiccati. Solo tra il 2011 e il 2015, si stima  che siano state impiccate lì 13.000 persone.
Un manifesto con la scritta “Libertà per Omar Aziz” in una  manifestazione per il prigioniero palestinese Samer Issawi il 6 febbraio  2013, nella Gerusalemme occupata[per gentile concessione di Budour Hassan].
Sappiamo da tempo degli orrori di queste prigioni. Nell’agosto 2013, un  disertore militare con nome in codice Cesare, che di recente si è  rivelato essere Osama Othman, ha fatto uscire di nascosto 53.275  fotografie, che documentano la morte di almeno 6.786 detenuti. Queste  immagini hanno offerto uno sguardo implacabile sulla brutalità del  regime di Assad. Oggi, il velo è stato ulteriormente sollevato,  confermando realtà ancora più crude.
I resoconti descrivono atrocità inimmaginabili di stupro, mutilazione,  profanazione di corpi, fame e privazione di bisogni primari come cibo,  acqua, sonno e medicine. Le tecniche di tortura, alcune ispirate alle  pratiche coloniali francesi e tedesche, includevano la sedia tedesca,  dove le vittime venivano piegate all’indietro fino a quando la loro  spina dorsale non si spezzava. Il tappeto volante, una tavola di legno  progettata per unire ginocchia e petto, causava un insopportabile dolore  alla schiena. La scala, dove i detenuti venivano legati e ripetutamente  spinti giù, spezzava loro la schiena a ogni caduta. E infine, la pressa  di ferro veniva utilizzata per smaltire i corpi in massa.
Sapere che queste atrocità sono durate per anni è straziante. I siriani  oggi stanno ancora cercando risposte sui loro cari scomparsi, come Wafa  Moustafa, che sta ancora cercando suo padre, o piangono la morte  confermata di familiari e amici. Questa settimana, i siriani sono scesi  in piazza per piangere la perdita dell’attivista Mazen al-Hamada, la cui  morte è stata confermata in un ospedale militare. Mazen, simbolo di  resistenza e gentilezza, ha un posto eterno nei nostri cuori insieme a  innumerevoli altri che hanno dedicato la loro vita per la nostra libertà  oggi: Razan Zaytouneh, Samira Khalil, Ghayath Matar e tutti gli uomini,  le donne e i bambini coraggiosi che si sono sacrificati per il futuro  della Siria.
In una recente inchiesta, Fadel Abdulghany, il capo della Syrian Network  for Human Rights, scopre prove che suggeriscono che il regime è complice  dell’incenerimento di corpi su scala industriale. “Dove sono i corpi?”  chiede. Ieri, circa 50 sacchi di resti umani sono stati scoperti in un  terreno arido vicino a Damasco, una delle tante presunte fosse comuni.  Facendo eco all’appello di Abdulghany, sottolineo l’urgente necessità di  sapere dove sono stati sepolti i corpi, così i siriani possono  seppellire le loro famiglie e iniziare a incidere il loro futuro.
Eppure, in mezzo a questa oscurità, c’è gioia e determinazione. Video  recenti catturano il rilascio di prigionieri, tra cui bambini piccoli,  uomini adulti che hanno perso la memoria a causa di condizioni orribili  e donne che hanno partorito in prigionia bambini generati da uomini che  non conoscono. Nonostante le inquietanti realtà, oggi è un giorno di  speranza: le famiglie si stanno riunendo e i cari separati da tempo si  stanno riabbracciando. Lo smantellamento della prigione di Sednaya segna  un giorno importante da ricordare.
Centinaia di persone si riuniscono dentro e fuori la prigione di Sednaya  dopo la caduta del regime di Assad.
Siamo in piedi sulla scia della sua caduta, le statue sono state  rovesciate, i suoi ritratti sono andati in frantumi. I compari si sono  dispersi, il mukhabarat (sicurezza segreta) dissipato. Una famiglia che  ha accumulato ricchezze e depredato il 90% della sua gente fino alla  povertà ora trova la sua casa aperta, dove le persone normali entrano e  prendono ciò che vogliono: dolce ironia, o forse una giusta punizione.
Ma la nostra celebrazione sarà breve.
Cosa verrà dopo?
Il vuoto lasciato dal regime viene sfruttato da fazioni nazionaliste  come Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), un’organizzazione autoritaria con  un’ideologia fondamentalista islamica, e l’Esercito nazionale siriano  (SNA), un rappresentante della Turchia. Sia HTS che SNA sono visti come  minacce per una Siria democratica. E sebbene gli Stati Uniti e Israele  non abbiano istigato l’offensiva che ha posto fine al regime, Israele si  oppone alla liberazione della Siria a causa dei potenziali rischi che  pone per il controllo israeliano della Palestina e per la stabilità  regionale.
È imperativo, in questo momento, rifiutare tutte le forme di  nazionalismo arabo e le entità coloniali radicate nella pulizia etnica e  nell’espansione dei coloni, siano esse guidate da Israele, dagli Stati  Uniti, dalla Turchia o da altri. Dobbiamo proteggere e garantire di non  perpetuare la sistematica cancellazione di gruppi etnici tra cui assiri,  curdi, nubiani e armeni.
Ora tocca ai siriani smantellare le strutture gerarchiche e ricostruire  la democrazia attraverso il “potere dal basso”. Il lavoro di mio padre e  quello dei suoi compagni dimostrano la capacità di autogoverno della  classe operaia attraverso i consigli locali. Hanno prosperato senza lo  Stato, organizzando istruzione, ospedali e servizi, tutti gestiti dal  popolo e radicati nelle loro comunità. I siriani si stanno già unendo  per ripristinare le infrastrutture trascurate dal regime. Le iniziative  per pulire e ripristinare gli spazi pubblici sono una testimonianza  della nostra resilienza e determinazione.
Purtroppo, ancora una volta, il mondo resta inattivo, esitante  nell’offrire il supporto che meritiamo. Oggi, come in passato, il  discorso cerca di limitare le realtà della Siria e le possibilità di  cambiamento. Siamo inquadrati come soggetti passivi, calunniati con  teorie cospirative ed etichettati come pedine in un gioco geopolitico  più ampio.
Ma non siamo pedine. Siamo le persone che si sono ribellate a un regime  che sapevamo ci avrebbe uccisi.
Mentre uscivo dalla prigione il giorno in cui ho visto mio padre, ero in  piedi su suolo siriano, presumibilmente libero, eppure mi sentivo  tutt’altro. La sensazione di essere osservati e monitorati e la presenza  soffocante della paura erano fin troppo familiari. La morsa del regime  era ovunque, nelle strade, nei negozi, sulle strade e negli occhi della  gente. La Siria, come terra, sembrava una grande prigione.
Se c’è un messaggio che potrei condividere con il mondo, è questo: a  meno che tu e la tua comunità non possiate determinare il vostro stile  di vita, state vivendo in una qualche forma di prigione. Un sistema  carcerario che cerca di controllare e limitare il nostro potenziale e la  nostra immaginazione. Se una delle dittature più brutali del XXI secolo  è potuta crollare nel giro di pochi giorni, allora può farlo anche il  sistema capitalista che domina e sfrutta le nostre vite. Dobbiamo essere  in grado di sognare quel mondo, come mio padre sognava la Siria.
Jwana Aziz è una scrittrice siriana il cui lavoro ha esplorato i  movimenti sociali femministi e la liberazione dei prigionieri politici  nella regione MENA. I suoi scritti si concentrano su temi di resistenza  popolare, movimenti di base e abolizione. Ispirata dall’eredità del suo  defunto padre, Jwana riflette sul viaggio della Siria attraverso i suoi  momenti più bui e sulla resilienza del suo popolo
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