Romanzo di una strage: un po’ di chiarezza

In questi giorni, avvicinandosi il cinquantenario di Piazza Fontana, si è di nuovo parlato del film di Marco Tullio Giordana “Romanzo di una strage”.Riportiamo qui le testimonianze Di Mauro Decortes, Saverio Ferrari, Lello Valitutti e Corrado Stajano. Persone con percorsi umani e politici differenti, ma tutte concordi nel dare un giudizio negativo sul film. Non tanto sul piano “artistico”, ma sul piano della ricostruzione e difesa della memoria. Si tratta di articoli/interviste che videro la luce quando uscì il film. Leggerli ( o rileggerli ) è molto utile per capire quel che succede oggi.

 

 

 

 

MAURO DECORTES PONTE DELLA GHISOLFA. «Romanzo di una strage? È a metà tra la fiction e il fumettone, non ha nessun riscontro storico, e in questo modo lede gli anarchici ma anche quella parte della sinistra che era la linfa vitale politica e civile di questo paese. È come se un movimento di lotta fosse stato solo capace di produrre delle bombe … Ma considerando il libro a cui il film di Giordana fa riferimento (Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli, ndr) il risultato era assolutamente prevedibile».

A parlare è Mauro Decortes, editore, militante del Circolo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa a cui appartenevano Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda, che è stato protagonista attivo delle molte campagne per la liberazione di Valpreda e per la verità sulla strage alla Banca dell’agricoltura di Milano.
La risposta critica al libro di Cucchiarelli da parte degli anarchici è stata immediata al momento della pubblicazione (2009), soprattutto sulla tesi della «doppia bomba» che vi è sostenuta, e che implica il coinvolgimento di Valpreda scagionato invece da ogni accusa. Secondo Cucchiarelli avrebbe piazzato lui una prima bomba, poco più di un petardo che doveva scoppiare a banca chiusa, mentre l’altra, la più potente, ha la mano dei fascisti che vogliono addossare l’attentato agli anarchici. Una strage rosso-nera, dunque, quella del 12 dicembre 1969.
È per questo che quando si diffonde, la scorsa primavera, la notizia che Marco Tullio Giordana farà un film dal libro, sono preoccupati.
Le nuove polemiche esplodono invece qualche giorno fa, in risposta a un’intervista dello stesso Giordana comparsa su Repubblica a firma di Curzio Maltese – la corrispondenza tra i compagni anarchici e il regista si può leggere in rete: stragedistato.wordpress.com
«Il problema – continua Decortes – è che non si può mettere sullo stesso piano tutto, risulta offensivo e insultante. Agnelli e un suo operaio non erano la stessa cosa, e così non si equivalgono sfruttati e sfruttatori … ». Non hai l’impressione che nel film ci siano dei «buchi», a cominciare proprio dalla figura di Valpreda? chiedo. Viene subito condannato, perciò è una figura centrale e però rimane ai margini, lo vediamo appena … «Giordana ne fa una caricatura, che è anche infamante a cominciare appunto dall’accusa di avere messo una bomba. Ripeto: non c’è nessun riscontro sui fatti. Se prendiamo la scena dell’interrogatorio di Pinelli, e della sua morte, c’è appena un accenno alla testimonianza di Lello Valitutti, che è il ragazzo davanti alla porta, e che ha sempre negato di avere visto uscire Calabresi. E così a quella di un agente che nel film nemmeno compare».
«Per capire un’operazione del genere si devono tenere presenti le trasformazioni culturali del nostro tempo. E il potere di manipolazione che ne consegue. Perciò uno come Landini viene criminalizzato perché rivendica il diritto a dieci minuti per pisciare di un operaio, mentre Monti parla di diritto per tutti e la sua politica non va certo in quella direzione. In questi giorni, discutendo dell’articolo 18, la parola sfruttamento non è mai menzionata.

ROMANZO DI UNA STRAGE DI MARCO TULLIO GIORDANA

QUANDO MISCHIARE LA REALTÀ CON LA FANTASIA SERVE AL REVISIONISMO STORICO.

SAVERIO FERRARI ( OSSERVATORIO DEMOCRATICO SULLE NUOVE DESTRE )IN UN ARTICOLO DI CRITICA DEL FILM USCITO SU LAVORO &POLITICA IL 30 MAGGIO 2012! ——//—
ROMANZO DI UNA STRAGE
DI MARCO TULLIO GIORDANA

QUANDO MISCHIARE LA REALTÀ CON LA FANTASIA SERVE AL REVISIONISMO STORICO

​L’uscita del film Romanzo di una strage è stata accompagnata da una martellante campagna pubblicitaria oltre che da un diluvio di commenti, interviste e recensioni, come da anni non si vedeva. C’è anche chi ne ha approfittato per esternare le sue ossessioni sulla responsabilità delle estreme, sia di destra sia di sinistra, nella storia italiana, a prescindere dai contenuti dalla pellicola, come Eugenio Scalfari in un lunghissimo articolo su «La Repubblica».
Già un fatto in sé, indicativo di come, più della saggistica o della letteratura a sfondo storico, la cinematografia sia oggi uno degli strumenti più efficaci nella trasmissione della memoria. Più o meno come per la ricostruzione cinematografica dell’assalto alla Diaz, nel luglio 2001 a Genova, uscito a sua volta quasi contemporaneamente.
Tornando al film di Marco Tullio Giordana, ciò che aveva resi scettici riguardo l’intera operazione era stata l’acquisizione dei diritti de Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli per la sceneggiatura del film, un testo uscito un paio di anni fa, pieno falsità, le cui ipotesi, per altro, sono state recentemente archiviate dalla stessa Procura di Milano con il giudizio di «assoluta inverosimiglianza».

I FALSI DI CUCCHIARELLI

​Nel libro in questione, tra le tante menzogne, totalmente prive di fondamento sono alla fine risultate sia l’esistenza, all’interno del Circolo Ponte della Ghisolfa, di un infiltrato fascista che avrebbe operato alla spalle di Pinelli (spingendo gli anarchici a mettere bombe), tale Mauro Meli, in realtà, carte alla mano, giunto a Milano e assunto nelle ferrovie oltre un anno e mezzo dopo la morte dello stesso Pinelli (non si introdusse comunque mai tra le loro fila), sia il ruolo di Claudio Orsi, presunto “sosia” di Valpreda e amico di Franco Freda, indicato come chi avrebbe “raddoppiato” la bomba simbolica degli anarchici, depositando materialmente all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura l’ordigno che avrebbe provocato la strage. Claudio Orsi, come noto, fu subito prosciolto nell’inchiesta condotta dal giudice Gerardo D’Ambrosio, dato che il 12 dicembre 1969, in quelle ore, si trovava a Ferrara, a letto con l’influenza, come confermarono diversi testimoni, tra cui un medico e un maresciallo dei carabinieri. La conclusione è evidente: Paolo Cucchiarelli, nonostante tutte le vanterie circa lo scrupoloso lavoro di documentazione, non si è nemmeno letto gli atti del primo processo. Avrebbe anche evitato le farneticazioni circa un secondo taxi, oltre a quello di Cornelio Rolandi, con un secondo uomo a bordo rassomigliante Pietro Valpreda, dato che, tenuto conto sempre delle indagini iniziali, mezz’ora prima dello scoppio, proveniente da via Cappuccio, in effetti, davanti alla banca giunse un altro taxi, ma per scaricare un’appariscente modella norvegese (la ventitreenne Gunhild Svenning) che doveva riscuotere un assegno di 35 mila lire, il compenso di un servizio fotografico. Lo testimoniò lei stessa, ma anche alcuni impiegati della banca cui non era potuta certo sfuggire una ragazza alta e bionda con attillatissimi pantaloni, un maglione e una sciarpa molto vistosi.

LUCI E OMBRE

​Nel film, tutto ciò non compare. Si rovescia anzi l’idea centrale del libro riguardo la “doppia bomba”, attribuendo la prima ai fascisti e la seconda all’iniziativa dei servizi segreti italiani e della Nato. L’interpretazione è quella di una trama ordita dal gruppo neofascista di Ordine nuovo coperto e protetto dagli apparati statali. Non siamo in questo molto lontani dal vero. Così riguardo la morte di Giuseppe Pinelli, correttamente attribuita ai funzionari di polizia presenti nell’ufficio di Calabresi.
Ma ciò che non funziona in Romanzo di una strage sono molte altre ricostruzioni: quella, in primo luogo, riguardante la figura di Luigi Calabresi, nel film un quasi integerrimo commissario di polizia. “Quasi” perché a conoscenza della responsabilità dei suoi sottoposti nel defenestramento di Giuseppe Pinelli (l’accusa senza molti sottintesi è al brigadiere Vito Panessa), ma silente. La verità storica è che i fascisti mettevano le bombe e il commissario arrestava gli anarchici, accusando pubblicamente poche ore dopo la strage (in Questura davanti a più giornalisti) proprio Pietro Valpreda. Nel film tutto ciò viene accuratamente omesso.
Così dicasi per Aldo Moro, un personaggio centrale nel film, presentato come un “sant’uomo”, non si sa bene per quali ragioni ai vertici della Democrazia cristiana, o per Junio Valerio Borghese, descritto come un golpista che nulla ebbe a che fare con le bombe e le stragi, quasi raggirato da Avanguardia nazionale. Incredibile la scena con la sua sfuriata a Stefano Delle Chiaie .
Pietro Valpreda viene, infine, tratteggiato come un esaltato. Quasi una macchietta, offendendo la memoria di un uomo innocente, fatto passare per un “mostro” sanguinario, quando invece si comportò con grande forza e dignità. Strano destino il suo, nessuno gli chiese mai scusa da vivo, ora viene pure dileggiato da morto.
Ben più in generale non emerge il contesto sociale e politico entro cui si si collocano le vicende narrate. Non vi è mai traccia né dei movimenti di massa di quegli anni (se non per ricordare la manifestazione in cui morì l’agente Antonio Annarumma) né delle sinistre. Non concordo, a questo proposito, con i tanti che ritenendo Romanzo di una strage un’opera di fantasia, la assolvono a prescindere dalle sue distorsioni. Se si fa un film su un avvenimento storico, di quella storia bisogna parlare, rispettandola, tanto più se i fatti, le date e i nomi rimandano a quelli veri. Mischiare la realtà con la fantasia significa solo fare un pessimo servizio alla ricostruzione di quegli avvenimenti.
​Marco Tullio Giordana, un eccellente regista, autore di uno dei capolavori della cinematografia italiana quale I cento passi, ci aveva purtroppo già allarmato con il precedente Sangue pazzo, la storia di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida narrata, anche qui, tra omissioni e indebite assoluzioni. Un modo, il suo, forse più sottile di tanti altri, di veleggiare sull’onda del revisionismo storico

Umanità Nova 22 aprile 2012 Quel film è una porcheria. Intervista a Lello Valitutti di l’incaricato

Dopo l’uscita del pessimo film ‘Romanzo di una strage’ ci è sembrato doveroso dare voce al compagno Lello Valitutti, presente la notte della morte del compagno Pinelli, negli uffici della questura di Milano.

Lello, quale è stata la tua prima impressione dopo aver visto il film “Romanzo di una strage”?

La prima volta l’ho visto in un modo molto emotivo e sospettoso, nel senso che avevo paura che il film potesse contenere delle porcherie esplicite, eclatanti. Alla fine ho tirato un respiro di sollievo, ed ho pensato fosse meno peggio di quello che poteva essere. Dopodiché ho parlato con dei compagni, con calma l’ho rivisto la seconda volta e purtroppo mi sono reso conto che in realtà è una porcheria. Chi vede questo film senza conoscere i fatti ha un’impressione totalmente sbagliata. Innanzitutto per come viene presentata la figura di Pietro Valpreda, ossia in modo caricaturale, che offende profondamente non solo lui, ma tutti quanti noi. Stiamo parlando di una persona che ha avuto il merito raro di prendersi sulle spalle – sia pur involontariamente – tutta la storia futura degli anarchici, e di reggere il peso. Se Pietro fosse caduto in contraddizione di fronte a quelle accuse, noi (i ragazzi di allora) non avremmo avuto alcun futuro politico. Saremmo stati gli amici del mostro, come lo siamo stati i primi giorni, non avremmo avuto nessuno spazio nel futuro e probabilmente gli anarchici sarebbero stati cancellati dalla storia italiana. Pietro ha avuto la grandissima capacità di rispondere con calma a lunghissimi ed estenuanti interrogatori senza arrendersi e senza crollare, difendendo la sua innocenza. E’ stato un compagno formidabile, a cui tutti noi dobbiamo essere grati.

Parliamo delle scene dell’omicidio di Pino Pinelli. Ti chiedo un confronto tra quello che ricordi e ciò che si vede nel film.

Nel film, prima della morte di Pino, Calabresi esce dall’ufficio per recarsi in un’altra stanza non meglio identificata, in cui è da solo. Io che conosco i fatti, sbagliandomi, ho pensato inizialmente: “sta dicendo che Calabresi è un bugiardo!”, perché in realtà Calabresi ha testimoniato che lui al momento della morte di Pinelli era nell’ufficio di Allegra. Successivamente ho capito che non era certo questa l’intenzione del regista.

Cosa ricordi degli spostamenti di Calabresi in quegli attimi?

Io non vedevo la porta dell’ufficio di Calabresi, ma vedevo perfettamente l’ufficio di Allegra, ed ho testimoniato che Calabresi non c’è andato Per questo la mia testimonianza non è accusatoria in se stessa, ma lo diventa fortemente in virtù di quella dello stesso Calabresi.

Quanto sei rimasto in quella stanza?

Alcune ore, ed era sera tarda. È anche legittimo che qualcuno insinui il dubbio che io possa essermi addormentato. Ma io ho specificato chiaramente che circa un quarto d’ora prima della morte di Pinelli avevo sentito dei rumori provenire dall’ufficio di Calabresi; rumori che avevo descritto come di una rissa, di un trambusto, che chiaramente mi avevano allarmato. Quindi a quel punto non solo ero sveglio, ma molto attento a ciò che accadeva.

 

Come ricordi Calabresi, anche alla luce del taglio che Giordana ha dato al suo personaggio nel film?

E molto importante ricordare che Calabresi ce l’aveva con gli anarchici da molto prima di Piazza Fontana, dalle bombe della fiera campionaria di Milano dell’aprile precedente, a quelle sui treni in estate. Lui era lo sbirro che lavorava sugli anarchici, ed era convinto che fossero dei bombaroli. A causa sua molti compagni sono stati in prigione parecchio tempo anche se poi assolti; a causa sua Pietro se n’era andato da Milano, perché non ne poteva più di aver rotte le scatole da lui, e a causa sua Pino veniva continuamente perseguitato.

In primo luogo, direi che era un emerito incapace, perché di fronte a bombe di chiara matrice fascista, ha continuato a prendersela con gli anarchici solo perche noi costituivamo il suo “ambito di lavoro”. In secondo luogo, lui ha trattenuto Pinelli in questura oltre i limiti consentiti per legge senza avvisare il giudice, ed era il responsabile oggettivo della sua custodia. In terzo luogo, ha calunniato pubblicamente Pinelli durante la prima conferenza stampa, dicendo che era in qualche modo colpevole. In quarto luogo, durante il processo Calabresi-Lotta Continua, quando il giudice volendo vederci più chiaro chiese di riesumare il corpo di Pino, lui fece ricusare lo stesso dal suo avvocato.

Si offendeva perché lo chiamavano assassino o “commissario finestra”, ma è lui che ha impedito che si andasse avanti verso la verità.

Tutto questo è oggettivo. Questo era Calabresi.

Nel film il rapporto tra Calabresi e Pinelli è ambiguo. Puoi chiarirci quale fosse realmente?

Il Pino diceva che era un poliziotto falso e pericoloso, perché contrariamente ai suoi colleghi, che erano “animaleschi”, lui era capace di alternare momenti di finta confidenza e fiducia a momenti di durezza, Come tale tutti lo abbiamo conosciuto.

Ora vorrei chiederti un ricordo di Pino Pinelli.

Io ero un ragazzo e lui una persona adulta, e la differenza di età ovviamente pesava, ma tra i componenti della vecchia guardia anarchica a Milano, lui più di tutti ha avuto la sensibilità umana di capire che c’erano i giovani, e che era giusto che partecipassero. Per me questo è stato un merito grandissimo. Era un atteggiamento raro a quei tempi. E’ stato un ottimo compagno per noi giovani, tutti gli volevamo bene.

Nel film Pinelli caccia Valpreda dal Ponte della Ghisolfa. Come andò realmente?

Chi ha vissuto quegli anni sa che gli scazzi tra compagni erano all’ordine del giorno. Succedeva di discutere, anche animatamente, di tante cose, e quella fu una discussione come tante. Io ho avuto modo di parlarne successivamente con Pietro e lui era affezionatissimo a Pino e ne ha sempre conservato un grande ricordo, fatto di affetto e di stima. E sono sicuro che se fosse qui, Pino direbbe le stesse cose di lui.

Uno dei grossi errori di questo film, è riportare quell’episodio completamente decontestualizzato.

Per concludere, vorrei chiederti una riflessione su questo film in relazione all’importanza che la memoria storica ha per le lotte di oggi.

Secondo me dobbiamo chiederci: perche adesso? Perché proprio in questo momento storico tirano fuori queste menzogne? Secondo me questo prepara una repressione contro gli anarchici. Non ritengo sufficiente come spiegazione la volontà di “beatificare” Calabresi.

E’ un film che insinua ancora il dubbio infame che gli anarchici c’entrino in un modo o nell’altro, e per questo è pericoloso, perché crea confusione.

Nella storia del movimento anarchico la violenza – condivisa o meno – è sempre stata rivolta esclusivamente contro il potere, mai contro il popolo, perché noi non abbiamo nessun potere da affermare, abbiamo solo un potere da distruggere per affermare la volontà della gente.

L’incaricato

Tratto da

Umanità Nova 22 aprile 2012 Quel film è una porcheria. Intervista a Lello Valitutti di l’incaricato

 

CORRADO STAJANO[Questo articolo è apparso sul «Corriere della Sera» il 28.03.2012].

Furono anni torbidi, furono anche anni fervidi. La strage di piazza Fontana, per Milano e per l’intero Paese, fu una ferita profonda. Ma la città seppe resistere rivelando il meglio di se stessa. Basta guardare ancora una volta le immagini dei funerali delle vittime, in piazza del Duomo, tre giorni dopo la bomba nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura che aveva lo scopo di distruggere le fondamenta della Repubblica e della Costituzione. La piazza, quella mattina, era color del piombo fuso, la copriva una cappa di nebbia rotta soltanto dalla fioca luce dei lampioni che rischiaravano un poco la marea di donne e di uomini sgomenti di dolore. Dalle fabbriche di Sesto San Giovanni arrivarono a migliaia le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Magneti Marelli, della Falck che fecero da servizio d’ordine. La borghesia consapevole e la classe operaia formarono allora, con la serietà dei momenti gravi, un corpo unico nella città affratellata. Il possibile golpe, si può dire, fallì quel giorno.

Non deve esser stato facile per Marco Tullio Giordana, il regista dei Cento passi e della Meglio gioventù, rappresentare, quasi mezzo secolo dopo, con il suo Romanzo di una strage, quel che avvenne in quei giorni e in quegli anni, la macelleria dei corpi, il sangue, le trame eversive, le collusioni e i tradimenti di chi aveva il dovere di tutelare la Repubblica e complottò invece per abbatterla e dar vita a uno Stato autoritario.

12 dicembre 1969, la strage. 15 dicembre 1969, l’arresto di Pietro Valpreda e la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, la diciottesima vittima. Il commissario Luigi Calabresi è nel film il vero protagonista, un eroe, è stato detto, l’uomo che aveva capito la verità. Nel 1972 sarà la vittima innocente dello spirito di violenza, ma quella notte in Questura, davanti a cinque giornalisti, il suo comportamento non fu diverso da quello dei suoi superiori.

La stanza del questore Guida sembrava più un morbido salotto che un ufficio di polizia. Esordì così, Guida, che nel 1942 era stato direttore del confino politico fascista di Ventotene: “Gravemente indiziato di concorso in strage, Pinelli aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l’interrogatorio per andare a riferire. Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo e si slanciò nel vuoto. Il suicidio è una evidente autoaccusa”.

Un giornalista chiese chi era Pinelli. Rispose Calabresi: “Sembrava un uomo incapace di ricorrere alla violenza, un uomo tranquillo, ma i suoi rapporti, le sue implicazioni politiche dovevano rivelare il contrario”. Chiese un altro giornalista qual era stata l’ultima domanda a Pinelli, quali le ultime cose dette e se esistevano i verbali. Nessuno rispose, senza mostrare imbarazzo. Il giornalista ripetè la domanda, Guida disse allora che l’interrogatorio non comprometteva altre persone. “Era stato convalidato dalla magistratura il fermo che durava da 72 ore?” domandò un altro giornalista. Il questore rispose impudentemente di sì, poi parlò d’altro. Uno dei cinque giornalisti chiese a Calabresi come mai non era sceso in cortile a vedere Pinelli. Di nuovo silenzio.

A colpire, in quella notte difficile da dimenticare, era la percezione che quegli uomini dello Stato non mostrassero neppure un moto di amarezza e di dolore per la morte di un uomo entrato da libero cittadino in Questura e uscito morto. Erano responsabili della sua vita: cinque uomini, in una piccola stanza, non riuscirono a impedirgli di buttarsi dalla finestra lasciata aperta?

Calabresi è stato giudicato innocente dalle inchieste della magistratura. Ma esiste soltanto la responsabilità penale? Si avvertiva quella notte una sottile euforia: la pratica Pinelli era chiusa e con quella morte poteva chiudersi anche la pratica più grossa, la strage.

La città, la società, nel film di Giordana, sono assenti, come le atmosfere di allora. Non c’è traccia del conflitto tra innocentisti e colpevolisti, profondo, e neppure dei tentativi appassionati dell’altra Italia alla ricerca della verità, diversa da quella ufficiale. Ci sono molti buchi nel racconto. Non si sa quasi nulla di Pietro Valpreda, il predestinato capro espiatorio della tragedia. Non sono sufficienti, poi, quei ritagli del giornale e poche scritte sui muri per rendere l’ossessiva campagna denigratoria di Lotta Continua contro Calabresi accusato di essere l’assassino di Pinelli.

Il film gioca di continuo, pericolosamente, tra realismo e finzione. E’ “liberamente tratto” dal librone di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, ambiguo, con fonti non verificabili.

Moro, il ministro degli Esteri di allora, impeccabilmente interpretato da Fabrizio Gifuni, ha una parte sovrabbondante, un jolly utile per raccontare ciò che serve, ma chi visse il dramma della strategia della tensione non fu mai a conoscenza di quella scelta così progressista di Moro, del suo misterioso dossier che svelava il carattere golpista e neofascista della strage, mostrato a Saragat.

Nel film, Federico Umberto D’Amato, a capo degli Affari Riservati, offre a Calabresi di diventare il suo braccio destro al Viminale e fa assurde rivelazioni che ancora una volta stravolgono quel che si sa dagli atti dei processi, dalle inchieste, non poche, di quegli anni. Un altro scoop, poi: furono due i taxi e due le bombe scoppiate in quel tragico buco della banca. Una rossa, gentile, solo per spaventare un po’, portata da Valpreda; e una nera, per uccidere e dare avvio allo stato di emergenza, portata da Sottosanti, il sosia. La fonte? Cucchiarelli, a pag.641 del suo libro. Di nuovo i doppi estremismi, le piste rosse e quelle nere .

Un gran garbuglio reso ancor più fosco mezzo secolo dopo, tra mister X, legionari e spioni, trafficanti di armi e di esplosivi, la Grecia dei colonnelli, gli infiltrati ovunque, i partiti, tutti, informati e silenti, gli uomini dello Stato dal doppio o triplo gioco.

I ragazzi che non sanno cosa sia successo nel pomeriggio di tanti anni fa in quella banca di Milano, vicina all’Arcivescovado, non avranno da questo film lumi per capire.

Giustizia non è stata fatta. Lo Stato non ha avuto la forza e il coraggio di processare se stesso. Dopo 11 processi di condanna, 4 giudizi in Cassazione, apposizioni del segreto politico-militare, la serranda della legge è calata il 3 maggio 2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati a pagare le spese di giudizio.

La verità storica e politica, ad ogni modo, è chiara. Sono ben documentati, con le responsabilità della destra neofascista veneta, le complicità e i depistaggi dei servizi di sicurezza e soprattutto dell’Ufficio Affari Riservati .

Peccato, bisogna dirlo con amarezza, che in questo smisurato film un po’ asettico non si ritrovino né la passione né le emozioni di quegli anni infuocati.

Lettera aperta alle realtà anarchiche e libertarie – Catena musicale per Pinelli? No, grazie!

(se siete atterrati qui perchè Marco Campione ha scritto il suo articolo sul sussidiario .net, su fatti che non sa o non capisce, allora qui trovate la risposta: link)

Il circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa non parteciperà alla catena musicale per Pinelli indetta per il 14 dicembre di quest’anno.
Non parteciperà perché non ci sono le condizioni politiche minime per una adesione.
In una fase iniziale abbiamo provato ad aggiungere contenuti in questa iniziativa che appare sempre di più come un contenitore vuoto, cui hanno aderito senza suscitare imbarazzo, ad esempio, soggetti vicini a Forza Italia (Fondazione Gaber) o che non disdegnano rapporti con l’estrema destra (Manlio Milani), – ma non siete antifascisti? e avete a che fare con questa gente? – ma non è stato possibile. Una gestione verticistica (e stiamo usando un eufemismo) ha bloccato qualsiasi critica o proposta di modifica all’appello che convocava l’iniziativa, allontanando chi se ne faceva promotore e anche chi esprimeva attenzione per proposte alternative.
Abbiamo l’impressione che la “catena” non aiuti affatto a preservare e difendere la memoria della strage di Piazza Fontana e della strategia della tensione: è centrata tutta sul ricordo di Pinelli (che era uno dei fondatori del circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa), c’è un tardivo accenno a Valpreda, ma è completamente assente il contesto nel quale la strage e l’assassinio di Pinelli sono maturati.
Non un cenno ai movimenti degli studenti e degli operai, non una parola sull’autunno caldo, sulle possibilità di trasformazione sociale che con la strage il potere tentò di bloccare. Pinelli diventa così una icona muta, un santino.
Non va bene.
Nell’appello si legge che la strage di Piazza Fontana è “una ferita scavata sul volto della nostra storia, un trauma della nostra democrazia, da questo condizionata nello sviluppo e nel suo pieno compimento fino ai nostri giorni” quando in realtà il pieno compimento del regime democratico è proprio la strage di Piazza Fontana.
E nelle regole da osservare nel gruppo facebook che sostiene la “catena” troviamo “Siamo qui per ricordare Pinelli per organizzare una grande performance poetica per ricordare Pinelli e le vittime di Piazza Fontana. Sarà manifestazione politica ma non partitica, libera, aperta e pacifica.”, sempre nelle regole “Chi non si riconosce in questo progetto trovera’ altrove i mezzi per i suoi scopi. Qui si esercita la democrazia, il rispetto delle differenze e le armi più pericolose: la memoria e la riflessione”. Esercitano la democrazia all’interno del gruppo, ma i capi si sono autoproclamati tali…

Domandiamo:
Questa iniziativa renderà un favore allo stato dandogli la possibilità di assolversi ancora una volta, è quindi possibile per degli anarchici, siano essi individualità o gruppi organizzati aderire ad una mobilitazione così politicamente poco caratterizzata, con una impostazione che rasenta il populismo, senza perdere la propria identità e farsi strumento di una riscrittura della storia e della memoria, della rimozione del conflitto dall’immaginario quotidiano?
Per noi la risposta è no. Ma altri hanno risposto diversamente. Ci riferiamo in particolare ad A-Rivista Anarchica, vorremmo conoscere le ragioni di questa decisione. Chiediamo alla redazione della rivista di esprimerle pubblicamente. Questo invito è rivolto anche a chiunque ritenga di esprimersi.
Da 50 anni il Ponte ha difeso la figura di Pinelli, ma come anarchici non pretendiamo di avere il copyright. Ci sentiamo però in dovere di contrastare iniziative come quelle della catena musicale, perchè irrispettosa della memoria e ci chiediamo se per gestirla l’unico titolo valido sia essere le figlie di Giuseppe Pinelli.

P.S.
Il 25 aprile 2019 abbiamo iniziato, proprio in Piazza Fontana una serie di iniziative, sulla strage di stato, Valpreda, Pinelli, le lotte dei lavoratori e l’antifascismo, l’ultima è di pochi giorni fa al Ponte. Quelle iniziative proseguiranno e si intensificheranno in dicembre: per il giorno 15 contiamo di realizzarne una grande al Leoncavallo per ricordare l’assassinio di Pinelli, ma ci faremo sentire anche in altri giorni di dicembre. Rimanete in contatto!

IL SOLDATO CONTRORIVOLUZIONARIO

A quasi 50 anni da Piazza Fontana continua la pubblicazione di documenti per non farci rubare la memoria. La lettura di questo documento è molto utile per la comprensione del clima politico negli anni della strategia della tensione

RIPORTIAMO QUI UNO STRALCIO DELL’INTERVENTO DI EDGARDO BELTAMETTI (ORDINE
NUOVO) AL CONVEGNO SULLA GUERRA RIVOLUZIONARIA ALL’ISTITUTO “POLLIO”
E UN BRANO TRATTO DAL LIBRO “LE MANI ROSSE SULLE FORZE ARMATE” SCRITTO DA RAUTI E GIANNETTINI

IL SOLDATO CONTRORIVOLUZIONARIO

Forse in questo confronto far la personalità del soldato del mondo libero e l’agente della g.r. (guerra rivoluzionaria, ndr) il quale ha rinunciato alla sua personalità per abbassarsi al livello di cieco strumento, sta la realtà della risposta alla g.r. e alla sua concreta possibilità di una risposta vittoriosa. Il soldato che ha compreso questa realtà, non si distingue per l’uniforme che porta, ma per la maggiore fermezza delle sue convinzioni interiori; saprà, se necessario, diventare un soldato della clandestinità di cui conosce le regole rigorose; saprà fare di sé stesso un’arma quando proiettato nella dimensione della g.r., conservi intatti i valori dello spirito. Infatti, il soldato non difende soltanto il territorio, ma difende un’idea, la libertà i valori dello spirito, in una parola: l’uomo.
Di conseguenza la funzione militare non è più soltanto quella di organizzare un apparato per la difesa fisica dello Stato, ma assume anche il compito della condotta di una guerra contro un nemico che ha per obbiettivo la conquista e il controllo della popolazione.
Ovviamente bisogna trovare altre basi alla organizzazione militare. Non sto qui ad insistere su questo problema ed esso si affaccerà più avanti, ma è evidente che si verifica una sovrapposizione delle due nozioni del soldato e del cittadino, anche questo permanentemente mobilitato almeno sul piano morale. Dirò soltanto che l’occidente ha potenzialmente nel suo arsenale un uomo spiritualmente più ricco, il quale può avere ragione del nemico che ha degradato l’individuo ad un frammento della massa. Si tratta però di mobilitarlo, nel senso più nobile della parola, per farne il protagonista della vittoria e della pace. Rimarrebbe ora anche da vedere come l’occidente può preparare l’elemento umano per affrontare la g.r. senza tradire le proprie convinzioni. Non ho la presunzione di rispondere ora a questo fondamentale interrogativo. Mi limito a porre il problema, che è morale e tecnico, ed affidarlo all’attenzione vostra, sicuro che nel corso dei lavori di questo Convegno esso sarà considerato, sì da porre le fondamenta per un più approfondito esame.
D’altra parte mi sembra che questo problema, a causa della sua importanza, meriterebbe una trattazione a parte ed io faccio voti affinché esso sia l’oggetto di un prossimo convegno. Consentitemi tuttavia di fare alcune considerazioni generali.
Si tratta prima di tutto di convincersi che si è in stato di guerra e, se le finalità sono diverse, i mezzi di lotta debbono comunque essere scelti sulla base della realtà che ci propone la guerra rivoluzionaria. Quindi stabiliamo subito che non vi è alcuna differenza morale nel colpire il nemico con quelle armi che si dimostrino efficaci. La lotta ravvicinata ci impone i metodi che le sono propri: combattere la sua ideologia con i nostri temi ideologici; disarmare il nemico psicologicamente per minarne il suo orgoglio; se occorre eliminarlo con azione isolata con lo stesso criterio che si userebbe sul campo di battaglia. Una delle caratteristiche della g.r. ed ovviamente della risposta ad essa, ci consente spesso di scegliere il nemico da abbattere ed è naturale che è più redditizio eliminare un capo che un gruppo di gregari, anche se l’azione in sé ha più l’apparenza di un attentato sleale che di una battaglia leale.
Ciò premesso, la cosa più importante è educare il soldato a questo tipo di guerra. Ed allora bisogna distinguere due momenti: l’educazione morale e l’addestramento tecnico. L’educazione morale si ottiene indicando chiaramente gli obbiettivi, sottolineando la differenza che passa fra i nostri e quelli degli avversari. In realtà questo aspetto dell’educazione dipende molto dal clima in cui si vive; vale a dire che tale educazione appartiene in primo luogo all’insegnamento pubblico, scaturisce dall’impegno con cui tutta la società nazionale è sollecitata a mantenersi unita, legata alla sua storia ed alle sue tradizioni. In altre parole è questa opera di governo o, per lo meno, un’azione che può essere svolta dalle istituzioni che sono le più sensibili custodi dei valori fondamentali, in prima fila le Forze Armate.
Una carica morale di livello elevato è la premessa per un addestramento che sia efficace ed una garanzia che l’addestramento tecnico non abbia fine a sé stesso. Tant’è vero che l’addestramento tecnico non è che la continuazione dell’educazione morale. Questa non soltanto conferisce al soldato l’entusiasmo necessario per accettare di essere educato al rischio ed alle fatiche, ma lo garantisce di saper valutare e controbattere l’aggressione della propaganda aggirante, dell’insidia ideologica, dell’agguato psicologico.
Guardando il problema da questo doppio punto di vista, che è il modo corretto per porcelo, è evidente che il soldato di oggi, ed intendo quello della guerra non ortodossa, dev’essere un soldato d’élite, un’individuo preparato anche culturalmente, dai riflessi pronti sia per sottrarsi al nemico che gli tiene il fucile puntato sulla schiena, sia per comprendere all’istante dove si cela l’insidia morale. Il soldato della guerra non ortodossa, se vuole raggiungere la coscienza del pericolo, deve essere convinto della propria giusta causa e deve essere ideologicamente preparato per comprendere il valore politico del suo dovere. Perciò egli deve essere informato degli scopi strategici e tattici che si vogliono raggiungere onde avere sempre coscienza delle sue azioni e delle iniziative. Egli deve essere e sentirsi un protagonista cosciente e non uno strumento cieco di guerra. Ed in ciò sta l’essenziale della differenza che passa tra il soldato della libertà e l’agente della g.r.

Noi diciamo che è un’illusione, una patetica ma pericolosa illusione, porre l’accento sulla apoliticità delle Forze Armate e sul fatto che esse si trovano ad addestrare uomini in tempo di pace.
Anzitutto, si confonde l’apoliticità con l’apartiticità. Questa è giusta e doverosa, mentre l’apoliticità non esiste: noi non stiamo parlando delle Forze Armate di un qualsiasi paesucolo del Centro America, he si ponesse a vegetare nel limbo del neutralismo assoluto; stiamo parlando delle Forze Armate dell’Italia, che è un Paese occidentale, il quale ha determinati obblighi verso l’Occidente e doveri ancora più precisi in materia di lotta la comunismo internazionale.
Intendiamoci: si può anche non pensarla così. In Italia ci sono quasi dodici milioni di comunisti, socialisti, radicali, e progressisti generici – di marxisti, insomma – i quali non la pensano affatto così. E fanno di tutto per trasformare il nostro in un paese neutrale prima e poi addirittura impegnato nell’altro campo; in un paese che andrebbe a raggiungere il vasto ammasso dei terzaforzisti, per poi cadere nell’orbita sovietica.
Ma finché non imboccheremo la strada del terzo mondo e del relativo sottosviluppo, noi siamo un Paese occidentale e non possiamo non prendere atto che viviamo in un’epoca nella quale tende anche a scomparire il vecchio confine tra guerra e pace.
Abbiamo visto anche che per i comunisti ed i loro soci, non conta neppure più quello che si chiamava il “confine della Patria”. Essi parlano apertamente di guerra ideologica, prevedendo ed ipotizzando il rifiuto massiccio di obbedienza in caso di mobilitazione, predisponendo in varia guisa il conflitto civile di domani.
Ed anche questo gioca un ruolo determinante nella progressiva riduzione del confine tra guerra e pace.
Prendiamo atto della realtà così com’è, per quanto spiacevole essa sia: oggi siamo in tempi di guerra fredda, di costante aggressione ideologica, di sotterranea e fanatica erosione delle coscienze.
E vogliamo o non vogliamo difenderci dal comunismo internazionale, il quale attacca l’Occidente dovunque è possibile, aizzando senza tregua contro di noi i popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, ma aggiunge a questa lotta un’altra azione, più insidiosa e sottile, che si svolge al di qua delle frontiere territoriali?
Vogliamo o non vogliamo difendere l’Europa, difendere l’Occidente, difendere i valori spirituali e culturali che esso ha elaborato e che sostanziano la nostra civiltà? O dobbiamo sul serio rassegnarci al grigiore collettivista che ha reso drammatica la vita nell’Oriente europeo, per poi scivolare sul pantano inconcludente di quel sovietismo che non riesce a risolvere i problemi elementari dell’esistenza del popolo russo?
Siamo in tempi di scelte fondamentali e ad esse non si può sfuggire, perché è la realtà stessa e proporcele e ad imporle.
Siamo in tempi di guerra rivoluzionaria, ecco tutto, e l’Esercito, e tutte le Forze Armate non possono non tenerne conto.
Sull’esempio di quanto hanno fatto e stanno facendo le forze Armate di tutti i paesi, in base alle responsabilità che ci derivano dalle Alleanze in atto, nel quadro della più ampia e leale solidarietà con il mondo occidentale.
Su questi temi si è dunque sviluppata, per la durata di mesi, in perfetta concomitanza, la polemica all’interno delle Forze Armate e la campagna scandalistica delle sinistre contro il Capo di Stato Maggiore Difesa, quando il 20 giugno il Capo di Stato Maggiore Esercito dava nuove disposizioni, con le quali faceva completamente marcia indietro su ciò che aveva deciso con le disposizioni del 21 aprile e del 2 maggio. Non staremo a dire del presumibile stupore dei quadri e dei reparti dipendenti, mentre sarebbe interessante rivelare le ragioni di questo improvviso cambiamento di rotta.
Parlando qui appresso della questione politica, potremo orientarci anche a questo proposito.