Adesso è il turno del piddino

Fontana, 2009
Courtesy Zerocalcare, illustrazione per poster in occasione dell’anniversario della strage di Piazza Fontana

L’anima di Giuseppe Pinelli consegnata alla memoria condivisa

Diventa sempre più chiaro, se ancora vi fossero dubbi, il disegno di riscrizione della storia che anima la Catena musicale per Pinelli. Basti leggere ciò che scrive Marco Campione, già collaboratore per i governi Renzi e Gentiloni. Articolo che non linkeremo per non dare visibilità all’ennesima propaganda di riappacificazione.

Nel tentativo di fare “una riflessione su come nel nostro paese si faccia ancora fatica ad avere una memoria condivisa sugli anni di piombo, sulla strategia della tensione, su molti episodi degli anni Settanta”, Campione attacca gli anarchici del Ponte della Ghisolfa, colpevoli di non aver aderito alla Catena organizzata dalle figlie e dalla moglie di Pinelli e di ragionare “esattamente come coloro che in quegli anni dicevano che siccome gli anarchici mettevano bombe, certamente la bomba della banca era una bomba anarchica”. Quindi, Campione assolve gli anarchici da ogni responsabilità della strage di Piazza Fontana, ma lancia comunque nell’etere un assioma (e le parole, una volta scritte, rimangono): “gli anarchici mettevano bombe”. Scorretto e fuorviante, così come scorretto e fuorviante è il voler accostare e accomunare anni di piombo e strategia della tensione.
Per Campione, gli anarchici del Ponte si sarebbero macchiati di una colpa grave: aver preso le distanze da un’iniziativa che vede tra i suoi aderenti Manlio Milani. Ecco cosa scrive: “Nel 2011 Manlio Milani decide di partecipare ad un convegno di Casa Pound a Roncadelle, perché se presiedi un’associazione di famigliari delle vittime di una strage e ti invitano a parlare di quella strage tu ci vai, anche se a farlo è Casa Pound”.
No!
Scegliere di non partecipare ad un incontro con l’estrema destra è non solo un diritto, ma anche un dovere. Per gli anarchici (ma penso dovrebbe esserlo per chiunque si dichiari antifascista) è inammissibile accettare un confronto con Casa Pound, perché ciò significa sdoganare il fascismo, attribuendogli quella legittimità culturale che si riconosce ad un interlocutore.
Continua Campione: “La cosa che mi inquieta è che a distanza di così tanti anni ci possa essere qualcuno che non capisca come una memoria condivisa su quegli anni non può che passare da atti come quello di Milani, come la scelta delle figlie di Pinelli di ricordare il padre in modo non canonico… Mi sono convinto che la mancanza di una memoria condivisa è parte delle cause che hanno portato a non avere una verità giudiziaria o di averla con molto colpevole ritardo… Se non c’è memoria condivisa non può esserci verità. Hanno ragione i promotori della catena musicale: la nostra memoria può rendere migliore la nostra democrazia”.
L’inquietudine di Campione, quindi, deriva dal fatto che ci siano persone come gli anarchici del Ponte che non accettano l’idea di memoria condivisa perché ritengono non vi possa essere verità nella memoria condivisa; che non accettano che vittime e carnefici vengano posti sullo stesso piano; che non accettano un confronto coi carnefici semplicemente perché un carnefice non può essere portatore di alcuna ragione o verità, semplicemente perché da un carnefice li separa una distanza abissale.
Spettacolare poi è l’acrobazia “culturale” con la quale si cerca di addossare le colpe della mancata verità giudiziaria, non allo Stato, unico detentore in democrazia della forza e della giustizia, ma a chi, come il ponte, non accetta passivamente la stretta di mano con chi ha tentato di ucciderti e difatto continua a farlo.
Dimentica Campione che se oggi si può parlare di una verità diversa da quella giudiziaria è proprio grazie a chi non ha mai stretto quella mano, compagni, ma anche giornalisti, realtà e individualità democratiche, che caparbiamente ha portato avanti inchieste e hanno svelato il disegno eversivo.

Bisogna leggere fino in fondo l’articolo di Marco Campione, in primis dovrebbero farlo quei compagni che hanno aderito alla catena musicale senza alcuno spirito critico, perché ognuno è responsabile delle azioni che compie, anche di quelle che compie magari in buona fede, e perché non è sufficiente cantare a squarciagola o suonare uno strumento in piazza per autoassolversi dalla responsabilità di partecipare passivamente ad un’operazione “culturale” pericolosa.
Prosegue Campione: “Oggi ci separano dalla strage del 12 dicembre più o meno gli stessi anni che ci separavano dalla Resistenza quando io mi stavo diplomando e mi rendo conto che sul terrorismo e la strategia della tensione si dicono le stesse cose… siamo ancora qui a ripetere gli stessi errori, la stessa incomunicabilità. Oggi la Resistenza, le ragioni del conflitto bellico e della sua fine, non sono più oggetto di scontro, ma non perché siano stati consegnati alla memoria condivisa, bensì perché sono stati rimossi… Anche l’ultima polemica… mi riferisco a quella sulla risoluzione del Parlamento europeo: solo in Italia, solo ‘da sinistra’ (avete forse letto dichiarazioni indignate degli eredi del Msi o di Forza Nuova per essere stati accostati allo stalinismo?) si sono levate le proteste. Anche qui nessuna memoria condivisa… Temo che lo stesso rischio lo corriamo per i cosiddetti anni di piombo. Passeremo da non condividere una memoria ad archiviare come se nulla fosse successo… Perché nessuno accetta di leggere un barlume di verità nella verità dell’altro… Si preferisce nessuna verità ad una verità che non corrisponda alla lettura ideologica che ne abbiamo dato in gioventù… Il cattivo del film cambia (i fascisti, lo Stato) ma l’incomunicabilità è la stessa. Pure adesso che la guerra è finita”.
Difronte a queste parole deliranti, ma allo stesso tempo lucide perché si vede in filigrana il progetto di omologazione del pensiero che le sottende, mi sento orgogliosa di far parte di quel gruppo di anarchici del Ponte della Ghisolfa che, al contrario di ciò che sostiene Campione, non archiviando proprio nulla, perché gli anarchici (alcuni, non tutti, ormai è il caso di dirlo) non dimenticano, non accettano di vedere un barlume di verità nella verità dei carnefici di turno e soprattutto non ritengono che la guerra sia finita finché esisteranno sfruttamento e ingiustizie sociali.
La conclusione dell’articolo poi è semplicemente surreale, se si pensa che l’accusa è rivolta ad un circolo all’interno del quale militano compagni che da più di quarant’anni portano avanti caparbiamente la campagna in difesa della verità sulla strage di Stato, l’assassinio di Pinelli e l’innocenza di Valpreda: “Piuttosto che mettere da parte la propria ansia di distinguersi, di accreditarsi come unici portatori del Verbo, della Memoria (in questo caso di Pino Pinelli) si preferisce starsene chiusi nel proprio circolo (reale) o bolla (virtuale) anche a costo di aspettare che semplicemente non se ne parli più. Così moriremo felici del fatto che nessuno ci ha mai contraddetti. E chi se ne frega se non ci sarà alcun patrimonio condiviso sul quale i nostri figli potranno costruire il loro futuro”.
Mi piace pensare che Pino Pinelli, l’anarchico Pinelli, non si rispecchierebbe affatto in queste parole. Mi piace pensare che se potesse non canterebbe a squarciagola le lodi della memoria condivisa. Qualcuno è responsabile di averne svenduto idee e valori.

Spiace molto constatare come le figlie di Giuseppe Pinelli ci tengano a rilanciare dai loro social lo scritto di Campione, sdoganando di fatto colpevolmente la tesi della riappacificazione.