L’arringa per la difesa di Gaetano Bresci nel processo per il regicidio

La sera di domenica 29 luglio 1900, l’anarchico Gaetano Bresci uccise il re d’Italia Umberto I sparandogli con una rivoltella. Dopo il rifiuto di Filippo Turati, Bresci fu difeso al processo dall’avvocato Francesco Merlino. Abbiamo recuperato sulla rivista “Il Pensiero” (25 dicembre 1903) l’arringa difensiva pronunciata da Merlino: uno straordinario documento storico, che vi riportiamo qui di seguito in versione integrale.


UNA DIFESA IN CORTE D’ASSISE

(Processo contro GAETANO BRESCI, Milano, 29 agosto 1900)

Avv. Merlino. — Signor Presidente, prima di cominciare, io sono costretto di pregarla di voler far prendere nota nel verbale, che il Rappresentante il P. M., nella sua requisitoria, ha affermato che il Bresci ebbe un complice, ed ha parlato di un telegramma e di atti i quali si riferiscono precisamente al processo contro i complici del Bresci. Siccome questa circostanza può avere un’influenza sulla sorte del gravame che noi interporremo contro una precedente ordinanza di questa Corte; adempio ad un compito della difesa chiedendo che si prenda nota di essa nel verbale.

Presidente. — Sarà fatto

Avv. Merlino. — Cittadini giurati. Il cortese saluto che il Rappresentante del P. M, ha voluto indirizzare non solo al mio collega quale rappresentante del Foro Milanese, ma anche a me, mi dispensa dal dire troppe parole per spiegarvi la mia presenza a questo banco.

Io non vengo qui a portare le mie convinzioni politiche: vengo ad adempiere ad un sacro dovere qual è quello della difesa. Purtroppo, in certe circostanze, si è corrivi agli eccessi ed alle esagerazioni. Ed uno degli eccessi, una delle esagerazioni, che si sono fatte strada in questa circostanza, è che si dovesse fare a meno di tutte le formalità solite di un giudizio, che si dovesse trasandare alle esigenze della legge, che quasi non occorresse un difensore, non occorresse dibattimento, che il giudizio e la condanna dovessero seguire ratte come il fulmine al delitto. (Movimenti del pubblico).

Ora questa esagerazione è, lasciatemelo dire, indegna di uomini seri e di un popolo civile. (Nuovi movimenti nel pubblico).

Noi dobbiamo serbare in tutte le circostanze, anche nelle più gravi, la nostra calma e la nostra dignità, e dobbiamo dare al mondo civile la prova che noi sappiamo rispettare i diritti della giustizia, che sappiamo assolvere il compito nostro, senza lasciarci sopraffare da sentimenti di odio o di vendetta, da nessuna passione, che possa velare la nostra mente e fuorviare il nostro giudizio.

Purtroppo l’intromissione di passioni estranee nella causa presente si è rivelata, anche nella requisitoria che or ora avete udita.

Imperocchè il Procuratore Generale ha creduto di dovervi dire che la vostra indulgenza sarebbe una nota stridente nel plebiscito italiano di dolore. Egli ha creduto di dover alludere ad altri precedenti simili processi, e qua e là ha dato a di vedere una certa preoccupazione d’indole politica. Voi dovete scacciare queste preoccupazioni dagli animi vostri: voi dovete amministrare giustizia con calma e serenità. E quella stessa moderazione che a noi ci veniva raccomandata dal banco dell’accusa, io oso raccomandarla a voi.

Imperocchè non crediate che coi verdetti eccessivi, colle condanne atroci si reprima il delitto. Noi abbiamo la prova del contrario, appunto nei fatti precedenti all’attuale, ai quali ha alluso il P. M. No! I gravi delitti non trovano un freno nella repressione. Certi gravi delitti, come l’attuale, rispondono a gravi problemi sociali. (Movimenti nel pubblico).

E questi problemi sociali devono essere studiati e risoluti con amore, con coscienza da tutti i buoni cittadini. No, non è la pena grave che cada sopra costui che possa trattenere altri disposti a sagrificare la propria esistenza, per un’idea anche errata che sia nella loro mente, dal compiere i loro propositi; ed è una pericolosa illusione il credere come noi facciamo, che colpendo severamente un reato, noi ne impediamo altri. Pericolosa illusione perché essa ci distoglie dall’avvisare ai veri rimedii dei mali sociali che ci travagliano e che nel delitto si velano.

Il P. M. ha detto che egli non sarebbe entrato nella discussione delle teorie anarchiche; ciò non dimeno egli ha fatto delle affermazioni che io non posso lasciar passare, per le conseguenze che egli ne ha tratte, e che anche voi potreste trarne nei riguardi del vostro verdetto.

Egli ha detto che il delitto di oggi è delitto dell’anarchia, che il cammino dell’anarchia è tracciato da atroci misfatti, che colui il quale fu il capo, l’ispiratore, il maestro dell’anarchismo aveva un solo scopo: la distruzione; che il partito anarchico si può paragonare alla sètta degli ascisci, capitanata dal Vecchio della Montagna; che Paterson è addirittura la cittadella degli anarchici; che ivi si tengono pubbliche conferenze ove discutesi il fatto individuale, che vi si pubblica un giornale intitolato l’Aurora e che in questo giornale si fa apertamente l’apologia del regicidio.

Ora, tutte queste affermazioni non sono confortate di prova alcuna e non rispondono al vero. Il regicidio non è, non può essere un principio anarchico. Ammazzare un uomo, sia un re, sia un capo di governo, sia un avversario qualsiasi, non può risolvere nessun problema sociale.

Il regicidio, prima, e molto prima che fosse praticato dagli anarchici, e notate bene, da alcuni anarchici soltanto (or ora vi dirò le ragioni per cui questi anarchici ricorrono a questo mezzo di lotta), il regicidio, prima ancora che dagli anarchici, è stato praticato da tutti gli altri partiti politici.

Voi conoscete la storia meglio di me, e non ho bisogno di ricordarvi che al regicidio hanno ricorso i monarchici contro i capi di governo repubblicano, i repubblicani contro i capi di governo monarchico, i cattolici contro i protestanti, i protestanti contro i cattolici: al regicidio hanno ricorso le sètte le quali intendevo, a un qualsiasi fine politico; il regicidio è stato in certe circostanze considerato, bene o male, come un atto di buona guerra. Esso non è un’invenzione degli anarchici, è un’idea che ricorre alla mente di uomini che lottano contro un dato ordine sociale, che si illudono di poter colpire quest’ordine sociale in colui che esteriormente lo rappresenta.

Io non voglio allungare questa discussione, leggendovi per intiero un discorso di un deputato italiano pronunciato in pieno Parlamento Subalpino nel 1858, all’indomani del tentato regicidio contro Napoleone III da parte di Felice Orsini. Quel deputato era il Brofferio. Egli pronunciò quel suo discorso (che è una vera apologia del regicidio) fra gli applausi di un buon numero dei sui colleghi.

E citò tutti coloro i quali nella storia hanno fatto l’apologia del regicidio. E sapete chi citò? Citò, gente di tutte le condizioni sociali, scrittori politici, poeti, perfino padri della chiesa: citò la Bibbia, dove Giuditta è glorificata per aver ucciso Oloferne, citò Cicerone. Ed infine a queste citazioni si trova nel discorso la dichiarazione fatta dal Brofferio della propria opinione intorno al regicidio, la quale è questa: «Ben più seria querela — dice Brofferio — muoverei all’on. Della Margherita. Voi udiste, o signori, le sue parole sopra Felice Orsini. Felice Orsini ha potuto trovare a Parigi un francese che con nobili accenti ha evocato, prima di morire, sopra il suo capo, le simpatie dell’Europa. Felice Orsini aveva attentato alla vita di Napoleone III e Brofferio dice che il suo difensore Jules Fàvre, con nobili accenti, aveva chiamato sul suo capo le simpatie dell’Europa, «E si doveva — aggiunge il Brofferio — in un Parlamento italiano, trovare un italiano che ai piedi del patibolo lo chiamasse malfattore!» Brofferio negava che Felice Orsini fosse un malfattore.

E dopo ciò, verrete voi a dirmi che sono gli anarchici che hanno inventato il regicidio?

È vero, alcuni anarchici hanno attentata alla vita dell’uno o dell’altro capo di Stato. E noi continuamente ci poniamo questo problema: «Come è che costoro sono anarchici, ma più particolarmente anarchici italiani, ed ancor più particolarmente anarchici italiani emigrati dal loro paese? I principii anarchici sono gli stessi, siano essi professati da inglesi, tedeschi, francesi o da italiani: ciò non di meno noi vediamo questa grande differenza: gli anarchici degli altri paesi non ricorrono al regicidio: vi ricorrono i soli italiani.

Qui è necessario che noi discorriamo delle cagioni di questi fatti, perché da esse noi potremo trarre gli elementi per un giudizio più equo, meno esagerato, anche nei riguardi dell’attuale accusato.

Per taluni la spiegazione è semplice. Gli anarchici italiani sono sanguinarii più degli anarchici appartenenti alle altre nazioni, per la stessa ragione per la quale in Italia si commette un maggior numero di omicidii che non negli altri paesi.

Questa spiegazione non mi persuade. È vero che nel nostro paese si commettono, disgraziatamente, più omicidi che non negli altri paesi; ma sono omicidi di impeto, passionali, mentre quelli premeditati, i grandi delitti, i grandi assassinii sono forse più frequenti in altri paesi che non da noi; certamente più in Francia che non in Italia.

Ora noi siamo precisamente nel caso di un omicidio non passionale, ma premeditato, nel caso, se mi è permessa l’espressione, del grande delitto.

Una seconda spiegazione che da taluno si dà, è stata anche accennata dall’attuale accusato: il disagio economico dei nostri operai, disagio che li inasprisce, li eccita e li induce ad atti di ribellione.

Ora io mi permetto di non convenire neppure in questo. Non ascrivo sia le cause di questo reato il disagio economico degli operai, per la semplice ragione che operai i quali versino in tristissime condizioni ve ne sono pur troppi in altri paesi; operai emigranti più poveri degli Italiani sono gli Ungheresi, gli Scandinavi, i Cinesi, gli Irlandesi, che pure si incontrano nei paesi di grande immigrazione come gli Stati Uniti. Non si spiegherebbe come fra tutti questi operai di diversi paesi, i quali si trovano tutti in grande disagio economico, semplicemente agli italiani venga in mente di ricorrere a questo mezzo per reagire contro le proprie tristi condizioni economiche.

Queste ragioni quindi non spiegano il fatto, ed il problema sussiste.

Ve ne sono altre, le quali ci danno la chiave dello enigma, ed a me corre il debito di dirle.

Avanti tutto, per parlare particolarmente del regicidio, dobbiamo tenere in considerazione due fattori: lo storico ed il politico. Il fattore storico è questo: in Italia sopravvivono ancora le tradizioni dei diversi governi assoluti, quindi la tendenza nella popolazione, in generale, di personificare il governo dello Stato nel Re: noi italiani non abbiamo ancora l’educazione politica degli altri popoli: non comprendiamo quanto sia complicato l’ingranaggio sociale: abbiamo bisogno di semplificare la nostra concezione dello Stato e lo Stato lo vediamo nel capo di esso. Quindi se altri hanno bisogno di un soccorso, crede opportuno di rivolgersi alla munificenza reale; se altri riceve un torto, ragiona e dice che alla fine dei conti l’autore primo e principale di questo torto deve essere il capo dello Stato.

E questo convincimento, che ci viene dalla tradizione, è pur troppo confortato da una propaganda che giorno per giorno si va facendo per il ritorno ad aboliti regimi di governo: la propaganda assolutista… (Movimenti nell’uditorio) …di cui si fa eco una certa stampa, e che non incontra da parte dell’autorità giudiziaria, nessuna repressione. Nei giornali voi leggete spesso volte frasi di questo genere: Quanto sarebbe bene che il Re mandasse a casa i deputati e governasse lui solo!

Quale altro effetto possono produrre nella mente delle persone non molto istruite queste affermazioni se non quello di confermarlo nel pregiudizio che il Re, volendo, possa egli solo provvedere a tutte le faccende del bel paese d’Italia, regolandole tutte secondo un principio ideale di equità e di giustizia che valga a rimuovere ogni ragione di lamento?

È la propaganda assolutista quella che ha contribuito a rafforzare la persuasione che il Re debba rispondere di tutti i mali che soffrono le popolazioni. (Movimenti nell’uditorio)

A questo bisogna aggiungere un altro fatto importantissimo, e voi vedrete e direte nel vostro verdetto se effettivamente l’errore che è nella mente di colui (accennando all’accusato) sia imputabile soltanto a lui o lo sia anche ad altri, e direi quasi all’universalità dei cittadini d’Italia. (Agitazione nell’uditorio).

E questo altro fatto è che noi effettivamente abbiamo attraversato un periodo acuto della nostra vita politica. Vi è stato un momento in cui, come diceva l’imputato, pareva che le nostre libertà fossero in pericolo; pareva che la gran legge dello Stato fosse solo in salvezza del Governo: fu proclamato che per una ragione suprema di necessità e di difesa della propria esistenza, il governo avesse il diritto di manomettere le leggi, di violarne lo Statuto, di creare tribunali straordinarii, di mettere stati d’assedio e fare tutto quello che venisse in mente al presidente del Consiglio dei ministri. (L’agitazione nel pubblico va crescendo).

Noi siamo usciti fuori dal terreno delle libertà, abbiamo ricorso alle violenze; sì! il Governo ricorse alla violenza; e non dovete meravigliarvi se l’esempio della violenza, venendo dall’alto, provocasse una reazione dal basso della società, se c’è stato chi ha creduto ad un’altra necessità, a quella cioè di opporre alla violenza del Governo la violenza privata. (Segni mal repressi di disapprovazione nel pubblico).

Procuratore generale. — Mi pare che questo…

Avv. Merlino. — Questo è il fattore politico della delinquenza anarchica in Italia. Ma un’altra ragione più speciale, deve essere addotta in difesa dell’accusato: il trattamento che è stato fatto agli anarchici nel nostro paese. Perché, notatelo bene, o signori giurati, per quanto si vogliano dipingere a foschi colori i principii degli anarchici, ciò non pertanto in Inghilterra ognuno è libero di esporre le sue teorie, di tenere quelle conferenze cui accennava il P. M., e la polizia non interviene, ed in Inghilterra non accadono attentati anarchici, come da noi.

Da noi, invece, si è stabilito in principio, che l’anarchico non ha il diritto né di pubblicare giornali, né di parlare in pubblico, né di esporre in modo alcuno le proprie convinzioni, né di costituirsi in associazione coi suoi compagni di fede. Gli anarchici non hanno il diritto di esistere come partito, e come individui sono perseguitati quali belve feroci dalla polizia, che crede… (viva agitazione nel pubblico)

Presidente, — Avvocato, veda di mantenersi strettamente nei limiti della causa (approvazioni vivissime dal pubblico — tentativi di applausi)

Avv. Merlino (concitato), — Io faccio appello alla civiltà…

Presidente. — Avverto il pubblico che non sono permessi segni di approvazione o di disapprovazione, e che, rinnovandosi, farò sgombrare immediatamente la sala, e si procederà a porto chiuse.

Avv. Merlino. — Signor presidente, io credo di essere precisamente nei limiti della causa, quando rispondo alle argomentazioni del rappresentante l’accusa. Il P.M. ha parlato di una cittadella di anarchici, Paterson: io posso spiegarvi coi documenti alla mano, come essa si sia formata. In Italia, e propriamente ad Ancona, si pubblicava un giornale intitolato L’Agitazione, e direttore o redattore capo ne era un uomo che voi tutti conoscete di nome e di cui si è fatto anche parola in questo processo: Errico Malatesta. Ebbene, in questo giornale — e ne ho qui i numeri, che posso passare al rappresentante l’accusa (anche perché il problema è gravissimo e merita di essere studiato sotto molti riguardi, non solo in quelli del processo attuale) — in questo giornale il Malatesta diceva espressamente: noi anarchici non domandiamo che di poter fare la nostra propaganda nei limiti che ci sono consentiti dalla legge: di poterci costituire in associazione e di poter partecipare ai tentativi che fanno le classi operaie per il miglioramento delle loro condizioni economiche e di essere rispettati come tutti gli altri partiti politici nell’esercizio delle pubbliche libertà.

Sapete come si rispose alla propaganda strettamente pacifica del Malatesta e dei suoi compagni in Ancona? Si rispose con un processo per associazione a delinquere; e quando i magistrati di Ancona, in prima istanza, e poi in di appello, assolvettero gl’imputati dichiarando tra altre cose che risultava luminosamente provata la loro alte moralità, il Governo non si peritò di mandarli a prendere e confinarli nelle isole!

Il Malatesta dovette arrischiare la vita per riacquistare la sua, libertà, e si recò prima a Londra, poi a Paterson. lo sono convinto che egli non ha fatto l’apologia del regicidio; ma nello stesso tempo credo bene che egli, non avrà cantato le lodi del governo italiano. Ecco come si spiega la cittadella degli anarchici.

Presidente, — La prego nuovamente, avvocato: venga alla causa.

Avv. Merlino, — Questa è la causa.

Presidente, — No, non è la causa.

Avv. Merlino, — Con le sue persecuzioni, la polizia spinge alcuni di questi anarchici, i più impulsivi, a reagire; li caccia dal proprio paese; toglie ad essi i mezzi di lottare nel campo politico e legale e crea loro un ambiente.

Presidente. — Io non posso lasciarla continuare di questo passo: venga alla parte legale della causa e veda di stringere e possibilmente di conchiudere.

Avv. Merlino, — La parte legale della causa è precisamente questa. L’ambiente artificiale a cui ha accennato il P. M. nel quale questa gente è costretta a vivere…

Pubblico Ministero, — Io non ho parlato di questo! Ho detto: la difesa potrà dire che l’ambiente di Paterson abbia potuto contribuire a demoralizzare l’accusato…

Avv. Merlino. — La mia tesi difensiva è legalissima ed è questa: noi tutti ormai conosciamo che il delitto collettivo va misurato ad una stregua diversa del delitto individuale. Si è parlato molto del delitto della folla e ci sono non solo autori, ma anche sentenze di magistrati, le quali ritengono che il delitto commesso in una folla abbia in questo stesso fatto un’attenuante. Ma, se io vi dimostro che effettivamente vi è un ambiente artificiale, nel quale questi anarchici si trovano insieme, stretti da una comune persecuzione, e vi si esaltano a vicenda e qualcuno di essi viene a propositi di questo genere, io dico: voi non potete essere severi con costui, perché se riandate le cause del suo delitto, la causa, la causa prima la rinverrete nell’azione di coloro che, avversando le sue idee, gli hanno negato il diritto che deve essere riconosciuto ad ogni cittadino di professare i principii, che crede giusti, di lottare per l’attuazione pacifica dei proprii ideali. (Rumori nel pubblico).

Presidente, — Avvocato non si fermi davvantaggio su queste argomentazioni: la prego un’altra volta di venire alla conclusione.

Avv. Merlino, — Signor presidente, io credo di dovervi insistere.

Presidente. — Ella non ha il diritto di insistere. Ella non può venir qui ad accusare: non può venir qui a far della propaganda.

Avv. Merlino. — Io sono nella causa, io non faccio propaganda. Ella vede che non ho discussi i principii.

Presidente — Se non sarà propaganda sarà apologia. Ella su certe argomentazioni si ferma un po’ troppo e con troppa passione; quindi veda di trattare la causa nei limiti strettamente necessari alla difesa dell’accusato. (Approvazioni vivissime e mal represse da parte del pubblico)

Avv. Merlino, — La troppa passione è segno della profondità della mia convinzione.

Presidente, — E sia; ma si tenga strettamente alla causa.

Avv. Merlino, — Del resto mi permetto di osservare che questa tesi fu anche sostenuta dinanzi alla Corte d’assise di Napoli dall’illustre avv. Tarantini, in un processo perfettamente identico.

Procuratore generale. — Il Tarantini sostenne proprio il contrario,

Avv. Merlino. — Precisamente ; ciò nondimeno io ho ragione di invocare il suo esempio… E spiego subito questa apparente contraddizione. Anche l’illustre avvocato napoletano sostenne che dal fatto bisognasse rimontare alla causa; se non che rinveniva la causa del regicidio nella troppa libertà e nella troppa istruzione, ed io la ritengo invece nella poca o nessuna libertà lasciata ad alcuni cittadini e ad alcuni partiti. Dunque, se era nei limiti della causa l’avv. Tarantini, mi pare di esservi anch’io.

Presidente, — Al contrario.

Avv. Merlino. — Signor Presidente, signori Giurati: che cosa è il delitto politico? È l’insorgere che un individuo o pochi individui fanno contro il regime di cose esistente. Ed io sono il primo a riconoscere (in ciò discorde dall’opinione di ben noti autori), che il delitto politico abbia in sé un vero contenuto morale; perché non si ha il diritto di insorgere contro la volontà della maggioranza della nazione è di imporle un mutamento di regime colla violenza. Questo deve essere riconosciuto in qualunque regime politico, anche domani, se ne avessimo un altro, puta caso), il socialista. È necessario che coloro i quali hanno opinioni contrarie al vigente ordinamento dello Stato facciano valere le loro opinioni per mezzo della propaganda pacifica, finché quelle opinioni guadagnino il consenso universale e si impongano. Questo però importa, che si consenta una tale propaganda. Per impedire il delitto politico non vi è che un solo metodo: libertà per tutte le opinioni.

Quando negate libertà a certe opinioni, quando voi maggioranza commettete abusi ed ingiustizie, allora necessariamente, inducete la minoranza ad uscire anch’essa dal terreno della legalità, e violare in voi quella libertà che voi violate in essa.

Presidente. — Signor Avvocato: qui non vi sono abusi né violenze di sorta. Veda, per carità, di attenersi alla causa, di stringere gli argomenti, di abbandonare certe sue teorie: le potrà spiegare in altra sede. Qui deve trattare legalmente la causa, lasciando da parte certe teorie elastiche.

Avv., Merlino (concitato). — Lei, signor Presidente, non ha interrotto il P. M. quando anch’egli ha accennato a teorie.

Presidente, — Il P.M. non ha mai esorbitato.

Procuratore generale. — Io ho parlato di fatti, non di teorie.

Avv., Morlino, — E di fatti sto parlando anch’io.

Procuratore generale. — Lei mi viene a ragionare del delitto politico, e mi viene a confondere il delitto politico con l’assassinio del Re!

Avv. Morlino, — Precisamente, si tratta di un assassinio politico.

Procuratore generale. — Uccidere un uomo è sempre un assassinio. (Benissimo! Approvazioni vivissime da porte del pubblico — Rumori mal repressi).

Presidente. — Facciamo silenzio — La prego un’altra volta, avvocato, di stringere e di conchiudere. Ella ha parlato abbastanza su questa questione. Venga nella parte legale, se crede, e poi conchiuda; altrimenti io sarò obbligato a richiamarla un’altra volta nell’ordine e di ricorrere ad altri provvedimenti che lei conosce.

Avv. Merlino (eccitatissimo) — Prima che il Presidente venga a questo provvedimento, desidero che sia inserita a verbale la mia tesi.

Procuratore generale. — Crede che non sia morale, secondo lui, ma ha sostenuto la giustificazione del delitto politico!! Lo chiedo anch’io che lo si inserisca a verbale.

Presidente, — S’inserisca a verbale che l’avv. Merlino tratta lungamente di teoriche intese a giustificare il delitto politico, e che il Presidente lo richiama all’ordine per la seconda e per la terza volta.

Avv. Merlino. — Prego anche s’ inserisca: L’avv. Merlino chiede e fa istanza perché sia inserito a verbale che egli sostiene questa tesi: che tra le cause del delitto attribuito al Bresci vi sono cause di indole generale e che queste cause d’indole generale debbono essere tenute in considerazione nel misurare la responsabilità da attribuirsi al Bresci medesimo.

Presidente, — Si dia atto all’avv. Merlino di questa sua dichiarazione, e poi basta.

Avv. Merlino. — Come voi vedete, mi è impossibile di svolgere il concetto che io avevo tentato di tar penetrare nelle vostre menti, vale a dire che voi dovete in questa causa tener conto di tutti i fattori i quali hanno potuto determinare il Bresci a commettere il regicidio; pur essendo la mia tesi perfettamente legale, mi è vietato di svolgerla, perché necessariamente alcune mie frasi hanno urtato le convinzioni del P. M.

Non mi rimane, dunque, che a conchiudere. Noi dobbiamo distinguere due cose perfettamente diverse; la vendetta dalla giustizia.

La vendetta è una semplice ritorsione dell’ingiuria, la giustizia è una riaffermazione del diritto mediante l’esame calmo, freddo, rigoroso e minuto di tutte le responsabilità.

Ora in questa causa viene continuamente in conflitto il sentimento della vendetta col sentimento della giustizia. Forse questo accade in tutte le cause, ma un po’ più in questa — l’idea corre alla necessità di vendicare in modo esemplare il delitto.

Ma voi dovete preservarvi da questa influenza, voi dovete essere compenetrati del vostro dovere di rendere puramente e semplicemente giustizia.

Se si dovesse fare vendetta, oh! allora certamente non ci sarebbe stato bisogno della solennità di questo dibattimento.

Se si dovesse fare vendetta oh! allora sarebbe giustificato che oltre al Bresci si siano colpiti anche il fratello, il cognato, gli amici, i correligionarii, gli abitanti del suo paese nativo, che si siano fatti arresti in massa per l’Italia (Rumori vivissimi — Agitazione crescente nel pubblico), e si fabbrichino processi per associazione di malfattori contro persone innocenti…

Presidente (vivamente). — Ma questo non si fa in Italia.

Avv. Merlino. — Questa è vendetta. Ma voi dovete fare giustizia in questo senso: che voi dovete assegnare a costui la sua vera responsabilità, egli è colpevole, sì; ha commesso un delitto, non lo nego, e deve farne l’espiazione. Ma dati i suoi precedenti, date le cause che brevemente vi ho esposte, date tutte le influenze che hanno agito sull’animo di lui, gli negherete voi quello che tante volte avete concesso anche ai parricidi, anche ad accusati che non avevano i suoi buoni precedenti, non erano stati trascinati da una erronea idea politica, anche ad individui a delinquere nati, ad nomini perversi i quali, se avessero potuto avere ancora un’ora di libertà avrebbero commesso altri atroci delitti?

Di qui non si esce: o voi applicate a costui i principii del diritto comune, della giustizia ordinaria e non dovete fare sì che gli sia inflitta la massima delle pene, non inferiore a quella tale pena di morte, della cui abolizione di mena vanto, anzi molto più barbara e crudele, perché è un’agonia perpetua.

Se, invece, il vostro verdetto sarà quale lo chiede il P.M., non farete giustizia, farete vendetta, farete cosa non degna di un popolo civile (Movimenti diversi – Rumori nel pubblico.)

SAVERIO MERLINO.

N.B. – Il lettore tenga presente che il pubblico era composto di soli funzionari dello Stato e di guardie di pubblica sicurezza; così è spiegabilissimo il suo contegno verso il difensore.

Fonte

 

123 anni fa Gaetano Bresci uccideva Umberto primo, re d’Italia

123 anni fa Gaetano Bresci uccideva Umberto primo, re d’Italia

Nelle righe che seguono un famoso articolo di Errico Malatesta su quel fatto.

La tragedia di Monza

Un altro fatto di sangue è venuto ad addolorare gli animi sensibili … ed a ricordare ai potenti che non è senza pericoli il mettersi al di sopra del popolo e calpestare il grande precetto dell’uguaglianza e della solidarietà umana.
Gaetano Bresci, operaio ed anarchico, ha ucciso Umberto re. Due uomini: uno morto immaturamente, l’altro condannato ad una vita di tormenti, che è mille volte peggiore della morte! Due famiglie immerse nel dolore!
Di chi la colpa?
Quando noi facciamo la critica delle istituzioni vigenti e ricordiamo i dolori ineffabili e le morti innumeri che esse producono, noi non manchiamo mai di avvertire che esse istituzioni sono dannose non solo alla grande massa proletaria che per causa loro è immersa nella miseria, nell’ignoranza ed in tutti i mali che dalla miseria e dall’ignoranza derivano, ma anche alla stessa minoranza privilegiata che soffre, fisicamente e moralmente, dell’ambiente viziato che essa crea, e sta in continua paura che l’ira popolare le faccia pagare caro i suoi privilegi.
Quando auguriamo la rivoluzione redentrice, noi parliamo sempre del bene di tutti quanti gli uomini senza distinzione; ed intendiamo che, quali che siano le rivalità di interessi e di partito che oggi li dividono, tutti debbano dimenticare gli odi ed i rancori, e diventare fratelli nel comune lavoro per il benessere di tutti.
Ed ogni volta che i capitalisti ed i governi commettono un atto eccezionalmente malvagio, ogni volta che degli innocenti sono torturati, ogni volta che la ferocia dei potenti si sfoga in opere di sangue, noi deploriamo il fatto, non solo per i dolori che direttamente produce e per il senso di giustizia e di pietà in noi offeso, ma anche per gli strascichi di odii che esso lascia, per il senso di vendetta che esso mette nell’animo degli oppressi.
Ma i nostri ammonimenti restano inascoltati; sono anzi pretesto a persecuzioni.
E poi, quando l’ira accumulata dai lunghi tormenti scoppia in tempesta, quando un uomo ridotto alla disperazione, o un generoso commosso dai dolori dei suoi fratelli ed impaziente di attendere una giustizia tarda a venire, alza il braccio vendicatore e colpisce dove crede che sia la causa del male, allora i colpevoli, i responsabili … siam noi.
È sempre l’agnello che ha la colpa!
Si sognano complotti assurdi, ci si addita come un pericolo sociale, si finge di crederci – e forse da alcuni ci si crede davvero – dei mostri assetati di sangue, dei delinquenti per i quali non vi dovrebbe esser scelta che la galera e il manicomio criminale …
D’altronde è naturale che sia così. In un paese in cui vivono liberi, potenti, onorati, i Crispi, i Rudinì, i Pelloux e tutti i massacratori e gli affamatori del popolo, non ci può esser posto per noi, che contro i massacri e contro la fame protestiamo e ci ribelliamo!
Ma lasciamo da parte l’incorreggibile gente di polizia; lasciamo da parte gli interessati che mentono sapendo di mentire; lasciamo da parte i vili che si scagliano addosso a noi per evitare i colpi che potrebbero cadere anche su di loro, e ragioniamo un poco colla gente di buona fede e di buon senso.

Prima di tutto riduciamo le cose alle loro giuste proporzioni.
Un re è stato ucciso; e poiché un re è pur sempre un uomo, il fatto è da deplorarsi. Una regina è stata vedovata; e poiché una regina è anch’essa una donna, noi simpatizziamo col suo dolore.
Ma perché tanto chiasso per la morte di un uomo e per le lacrime di una donna quando si accetta come una cosa naturale il fatto che ogni giorno tanti uomini cadono uccisi, e tante donne piangono, a cause delle guerre, degli accidenti sul lavoro, delle rivolte represse a fucilate, e dei mille delitti prodotti dalla miseria, dallo spirito di vendetta, dal fanatismo e dall’alcoolismo?
Perché tanto sfoggio di sentimentalismo a proposito di una disgrazia particolare, quando migliaia e milioni di esseri umani muoiono di fame e di malaria fra l’indifferenza di coloro che avrebbero i mezzi di rimediarvi? Forse perché questa volta le vittime non sono dei volgari lavoratori, non un onest’uomo ed una onesta donna qualunque, ma un re ed una regina?… Veramente, noi troviamo il caso più interessante, ed il nostro dolore è più sentito, più vivo, più vero, quando si tratta di un minatore schiacciato da una frana mentre lavora, e di una vedova che resta a morir di fame coi suoi figlioletti!
Nullameno anche quelle dei reali sono sofferenze umane e vanno deplorate. Ma sterile resta il lamento se non se ne indagano le cause e non si cerca di eliminarle.

Chi è che provoca la violenza? Chi è che la rende necessaria, fatale?
Tutto il sistema sociale vigente è basato sulla forza brutale messa a servizio di una piccola minoranza che sfrutta ed opprime la grande massa; tutta l’educazione che si da ai ragazzi si riassume in una continua apoteosi della forza brutale; tutto l’ambiente in cui viviamo è un continuo esempio di violenza, una continua suggestione alla violenza.
Il soldato, cioè l’omicida professionale, è onorato, e sopra di tutti è onorato il re, la cui caratteristica storica è quella di essere a capo dei soldati.
Colla forza brutale si costringe il lavoratore a farsi derubare del prodotto del suo lavoro; colla forza brutale si strappa l’indipendenza alle nazionalità deboli.
L’imperatore di Germania eccita i suoi soldati a non dar quartiere ai cinesi; il governo inglese tratta da ribelli i Boeri che rifiutano di sottomettersi alla potenza straniera, e brucia le fattorie e caccia le donne dalle case e perseguita anche i non combattenti e rinnova le gesta orribili della Spagna in Cuba; il Sultano fa assassinare gli Armeni a centinaia di migliaia; il governo americano massacra i Filippini dopo averli vilmente traditi.
I capitalisti fan morire gli operai nelle miniere, nelle ferrovie, nelle risaie per non fare le spese necessarie alla sicurezza del lavoro, e chiamano i soldati per intimidire e fucilare all’occorrenza i lavoratori che domandano di migliorare le loro condizioni.
Ancora una volta, da chi viene dunque la suggestione, la provocazione alla violenza? Chi fa apparire la violenza come la sola via d’uscita dallo stato di cose attuale, come il solo mezzo per non subire eternamente la violenza altrui?
Ed in Italia è peggio che altrove. Il popolo soffre perennemente la fame, i signorotti spadroneggiano peggio che nel Medioevo, il governo, a gara coi proprietari, dissangua i lavoratori per arricchire i suoi e sperperare il resto in imprese dinastiche; la polizia è arbitra della libertà dei cittadini, ed ogni grido di protesta, ogni benché sommesso lamento è strozzato in gola dai carcerieri e soffocato nel sangue dai soldati.
Lunga è la lista dei massacri: da Pietrarsa a Conselice, a Calatabiano alla Sicilia, ecc.
Solo due anni orsono le truppe regie massacrarono il popolo inerme; solo alcuni giorni orsono le regie truppe han portato ai proprietari di Molinella il soccorso delle loro baionette e del loro lavoro forzato, contro i lavoratori famelici e disperati.
Chi è il colpevole della ribellione, chi è il colpevole della vendetta che di tanto in tanto scoppia; il provocatore, l’offensore, o chi denunzia l’offesa e vuole eliminare le cause?
Ma, dicono, il re non è responsabile.
Noi non pigliamo certo sul serio la burletta delle funzioni costituzionali. I giornali “liberali” che ora argomentano sulla irresponsabilità del re, sapevano bene, quando si trattava di loro, che al disopra del parlamento e dei ministri, vi era un’influenza potente, un’alta sfera a cui i regi procuratori non permettevano di fare troppo chiare allusioni. Ed ora i conservatori, che aspettano una “nuova era” dall’energia del nuovo re, mostrano di sapere che il re, almeno in Italia, non è poi quel fantoccio che ci vorrebbero far credere quando si tratta di stabilire le responsabilità. E d’altronde, anche se non fa il male direttamente, è sempre responsabile di esso, un uomo che, potendo, non lo impedisce – ed il re è capo dei soldati e può sempre, per lo meno, impedire che i soldati facciano fuoco sopra popolazioni inermi. Ed è pur anche responsabile chi, non potendo impedire un male, lascia che si faccia in nome suo, piuttosto che rinunziare ai vantaggi del posto.
È vero che se si prendono in conto le considerazioni di eredità, di educazione, di ambiente, la responsabilità personale dei potenti si attenua di molto e forse sparisce completamente. Ma allora, se è irresponsabile il re dei suoi atti e delle sue omissioni, se malgrado l’oppressione, lo spogliamento, il massacro del popolo fatto in suo nome, egli avrebbe dovuto restare al primo posto del paese, perché mai sarebbe responsabile il Bresci? Perché mai dovrebbe il Bresci scontare con una vita di inenarrabili patimenti un atto che, per quanto si voglia giudicare sbagliato, nessuno può negare essere stato ispirato da intenzioni altruistiche?
Ma questa questione della ricerca delle responsabilità c’interessa mediocremente.
Noi non crediamo nel diritto di punire, noi respingiamo l’idea di vendetta come un sentimento barbaro: noi non intendiamo essere né giustizieri né vendicatori. Più santa, più nobile, più feconda ci pare la missione di liberatori e di pacificatori.
Al re, agli oppressori, agli sfruttatori noi stenderemmo volentieri la mano, quando soltanto essi volessero tornare a essere uomini fra gli uomini, uguali tra gli uguali. Ma intanto che essi si ostinano a godere dell’attuale ordine di cose ed a difenderlo con la forza, producendo così il martirio, l’abbruttimento e la morte per stenti a milioni di creature umane, noi siamo nella necessità, noi siamo nel dovere di opporre la forza alla forza.

Opporre la forza alla forza!
Vuol dire ciò che noi ci dilettiamo in complotti melodrammatici e siamo sempre nell’atto e nell’intenzione di pugnalare un oppressore?
Niente affatto. Noi aborriamo dalla violenza per sentimento e per principio, e facciamo sempre il possibile per evitarla; solo la necessità di resistere al male con mezzi idonei ed efficaci ci può indurre a ricorrere alla violenza.
Sappiamo che questi fatti di violenza singola, senza sufficiente preparazione nel popolo restano sterili e spesso, provocando reazioni a cui si è incapaci di resistere, producono dolori infiniti e fanno male alla causa stessa a cui intendevano servire.
Sappiamo che l’essenziale, l’indiscutibilmente si è, non già uccidere la persona di un re, ma l’uccidere tutti i re – quelli delle corti, dei parlamenti e delle officine – nel cuore e nella mente della gente; di sradicare cioè la fede nel principio di autorità a cui presta culto tanta parte di popolo.
Sappiamo che meno la rivoluzione è matura e più essa riesce sanguinosa ed incerta.
Sappiamo che, essendo la violenza sorgente di autorità, anzi essendo in fondo tutta una cosa col principio di autorità, più la rivoluzione sarà violenta e più vi sarà pericolo ch’essa dia origine a nuove forme di autorità.
E perciò ci sforziamo di acquistare, prima di adoperare le ultime ragioni degli oppressi, quella forza morale e materiale che occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad abbattere il regime di violenza a cui oggi l’umanità soggiace.
Ci si lascerà in pace al nostro lavoro di propaganda, di organizzazione, di preparazione rivoluzionaria?
In Italia c’impediscono di parlare, di scrivere, di associarci. Proibiscono agli operai di unirsi e lottare pacificamente, nonché per l’emancipazione, nemmeno per migliorare in minime proporzioni le loro incivili ed inumane condizioni di esistenza. Carceri, domicilio coatto, repressioni sanguinose sono i mezzi che si oppongono non solo a noi anarchici, ma a chiunque osa pensare ad una più civile condizione di cose.
Che meraviglia se, perduta la speranza di poter combattere con profitto per la propria causa, degli animi ardenti si lasciano trasportare ad atti di giustizia vendicativa?

Le misure di polizia, di cui sono sempre vittime i meno pericolosi; la ricerca affannosa di inesistenti istigatori, che appare grottesca a chiunque conosce un poco lo spirito dominante tra gli anarchici; le mille buffe proposte di sterminio avanzate da dilettanti di poliziottismo, non servono che a mettere in evidenza il fondo selvaggio che cova nell’animo delle classi dominanti.
Per eliminare totalmente la rivolta sanguinosa delle vittime non v’è altro mezzo che l’abolizione dell’oppressione, mediante la giustizia sociale.
Per diminuirne ed attenuarne gli scoppi, non v’è altro mezzo che lasciare a tutti libertà di propaganda e di organizzazione; che lasciare ai diseredati, agli oppressi, ai malcontenti, la possibilità di lotte civili; che dar loro la speranza di poter conquistare, sia pur gradualmente, la propria emancipazione per vie incruenti.
Il governo d’Italia non ne farà nulla; continuerà a reprimere… e continuerà a raccogliere quello che semina.
Noi, pur deplorando la cecità dei governanti che imprime alla lotta un’asprezza non necessaria, continueremo a combattere per una società in cui sia eliminata ogni violenza, in cui tutti abbiano pane, libertà, scienza, in cui l’amore sia la legge suprema della vita.

Errico Malatesta

ANARCHIA Di Errico Malatesta

Il significato di Anarchia nell’accezione di Errico Malatesta.

ANARCHIA

Di Errico Malatesta

 

Anarchia è parola che viene dal greco, e significa propriamente senza
governo: stato di un popolo che si regge senza autorità costituite,
senza governo.
Prima che tale ordinamento incominciasse ad essere considerato come
possibile e desiderabile da tutta una categoria di pensatori, e fosse
preso a scopo da un partito, che è ormai diventato uno dei più
importanti fattori delle moderne lotte sociali, la parola anarchia
era presa universalmente nel senso di disordine, confusione; ed è
ancor oggi adoperata in tal senso dalle masse ignare e dagli
avversari interessati a svisare la verità.
Noi non entreremo in disquisizioni filologiche, poiché la questione
non è filologica, ma storica. Il senso volgare della parola non
misconosce il suo significato vero ed etimologico; ma è un derivato
di quel senso, dovuto al pregiudizio che il governo fosse organo
necessario della vita sociale. e che per conseguenza una società
senza governo dovesse essere in preda al disordine, ed oscillare tra
la prepotenza sfrenata degli uni e la vendetta cieca degli altri.
L’esistenza di questo pregiudizio e la sua influenza nel senso che il
pubblico ha dato alla parola anarchia, si spiega facilmente.
L’uomo, come tutti gli esseri viventi, si adatta e si abitua alla
condizione in cui vive, e trasmette per eredità le abitudini
acquisite. Così, essendo nato e vissuto nei ceppi, essendo l’erede di
una lunga progenie di schiavi, l’uomo, quando ha incominciato a
pensare, ha creduto che la schiavitù fosse condizione essenziale
della vita, e la libertà gli è sembrata cosa impossibile. In pari
modo, il lavoratore, costretto per secoli e quindi abituato ad
attendere il lavoro, cioè il pane, dal buon volere del padrone, ed a
vedere la sua vita continuamente alla mercé di chi possiede la terra
ed il capitale, ha finito col credere che sia il padrone che dà da
mangiare a lui, e vi domanda ingenuamente come si potrebbe fare a
vivere se non vi fossero i signori.
Così uno, il quale fin dalla nascita avesse avuto le gambe legate e
pure avesse trovato modo di camminare alla men peggio, potrebbe
attribuire la sua facoltà di muoversi precisamente a quei legami, che
invece non fanno che diminuire e paralizzare l’energia muscolare
delle sue gambe.
Se poi agli effetti naturali dell’abitudine s’aggiunga l’educazione
data dal padrone, dal prete, dal professore, ecc., i quali sono
interessati a predicare che i signori ed il governo sono necessari;
se si aggiunga il giudice ed il birro, che si forzano di ridurre al
silenzio chi pensasse diversamente e fosse tentato a propagare il suo
pensiero, si comprenderà come abbia messo radice, nel cervello poco
coltivato della massa laboriosa, il pregiudizio della utilità, della
necessità del padrone e del governo.
Figuratevi che all’uomo dalle gambe legate, che abbiamo supposto, il
medico esponesse tutta una teoria e mille esempi abilmente inventati
per persuaderlo che colle gambe sciolte egli non potrebbe né
camminare, ne vivere; quell’uomo difenderebbe rabbiosamente i suoi
legami e considererebbe nemico chi volesse spezzarglieli.
Dunque, poiché si è creduto che il governo fosse necessario e che
senza governo non si potesse avere che disordine e confusione, era
naturale e logico che anarchia, che significa assenza di governo,
suonasse assenza di ordine.
Né il fatto è senza riscontro nella storia delle parole. Nelle epoche
e nei paesi, in cui il popolo ha creduto necessario il governo di un
solo (monarchia), la parola repubblica, che è il governo dei più, è
stata usata appunto nel senso di disordine c di confusione e questo
senso si ritrova ancora vivo nella lingua popolare di quasi tutti i
paesi.
Cambiate lopinione. convincete il pubblico che il governo non solo
non è necessario, ma è estremamente dannoso, ed allora la parola
anarchia, appunto perché significa assenza di governo, vorrà dire per
tutti: ordine naturale. armonia dei bisogni e deglinteressi di tutti,
libertà completa nella completa solidarietà.
Hanno dunque torto coloro che dicono che gli anarchici hanno
malamente scelto il loro nome, perché questo nome è erroneamente
inteso dalle masse e si presta ad una falsa interpretazione. L’errore
non dipende dalla parola, ma dalla cosa; e le difficoltà che
incontrano gli anarchici nella propaganda non dipendono dal nome che
si danno, ma dal fatto che il loro concetto urta tutti gli nveterati
pregiudizi, che il popolo ha sulla funzione del governo, o, come pur
si dice, dello Stato.

Prima di procedere è bene spiegarsi su quest’ultima parola, la quale,
a parer nostro, è davvero causa di molti malintesi.
Gli anarchici, e noi fra loro, ci siamo serviti e ci serviamo
ordinariamente della parola Stato, intendendo per essa tutto
quell’insieme di stituzioni politiche, legislative, giudiziarie,
militari, finanziario, ecc. per le quali sono sottratte al popolo la
gerenza dei propri affari, la direzione della propria condotta, la
cura della propria sicurezza, e sono affidate, ad alcuni che, o per
usurpazione o per delegazione, si trovano investiti del diritto di
far le leggi su tutto e per tutti e di costringere il popolo a
rispettarle, servendosi all’uopo della forza di tutti.
In questo caso la parola Stato significa governo, o, se si vuole, è
l’espressione impersonale, astratta di quello stato di cose, di cui
il governo e la personificazione: e quindi le espressioni abolizione
dello Stato, Società senza Stato, ecc. rispondono perfettamente al
concetto che gli anarchici vogliono esprimere, di distruzione di ogni
ordinamento politico fondato sull’autorità, e di costituzione di una
società di liberi ed uguali, fondata sullarmonia degli interessi e
sul concorso volontario di tutti al compimento dei carichi sociali.
Però la parola Stato ha molti altri significati, e fra questi alcuni
che si prestano all’equivoco, massime quando essa si adopera con
uomini, cui la triste posizione sociale non ha dato agio di abituarsi
alle delicate distinzioni del linguaggio scientifico, o, peggio
ancora, quando si adopera con avversari in mala fede che hanno
interesse a con fondere e non voler comprendere.
Cosi la parola Stato si usa spesso per indicare una data società, una
data collettività umana, riunita sopra un dato territorio e
costituente quello che si dice un corpo morale, indipendentemente dal
modo come i membri di detta collettività sono aggruppati e dai
rapporti che corrono tra di loro. Si usa anche semplicemente come
sinonimo di società. E a causa di questi significati della parola
Stato, che gli avversari credono, o piuttosto fingono di credere che
gli anarchici intendono abolire ogni connessione sociale, ogni lavoro
collettivo e ridurre gli uomini allisolamento, cioè ad una condizione
peggio che selvaggia.
Per Stato sintende pure lamministrazione suprema di un paese, il
potere centrale, distinto dal potere provinciale o comunale; e per
questo altri credono che gli anarchici vogliono un semplice
discentramento territoriale, lasciando intatto il principio
governativo, e confondono così l’anarchia col cantonalismo e col
comunalismo.
Stato significa infine condizione, modo di essere, regime di vita
sociale, ecc. e perciò noi diciamo, per esempio, che bisogna cambiare
lo stato economico della classe operaia, o che lo stato anarchico è
il solo stato sociale fondato sul principio di solidarietà, ed altre
frasi simili, che in bocca a noi, che poi in altro senso diciamo di
voler abolire lo Stato, possono a prima giunta sembrare barocche o
contraddittorie.
Per dette ragioni noi crediamo che varrebbe meglio adoperare il meno
possibile lespressione abolizione dello Stato e sostituirla con
laltra pié chiara e pié concreta abolizione del governo.
In ogni modo è quello che faremo nel corso di questo lavoretto.
Abbiamo detto che l’anarchia è la società senza governo.
Ma è possibile, è desiderabile, è prevedibile la soppressione dei governi?
Vediamo.
Che cosa è il governo?
La tendenza metafisica (che è una malattia della mente, per la quale
l’uomo, dopo di avere per processo logico astratto da un essere le
sue qualità, subisce una specie di allucinazione che gli fa prendere
l’astrazione per un essere reale), la tendenza metafisica, diciamo,
che malgrado i colpi della scienza positiva, ha ancora salde radici
nella mente della più parte degli uomini contemporanei, fa sì che
molti concepiscono il governo come un ente morale, con certi dati
attributi di ragione, di giustizia, di equità, che sono indipendenti
dalle persone che stanno al governo. Per essi il governo, e più
astrattamente ancora lo Stato, è il potere sociale astratto; è il
rappresentante, astratto sempre, degli interessi generali; è
l’espressione del diritto di tutti, considerato come limite dei
diritti di ciascuno. é questo modo di concepire il governo è
appoggiato dagli interessati, cui preme che sia salvo il principio di
autorità, e sopravviva sempre alle colpe ed agli errori di coloro che
si succedono nell’esercizio del potere.
Per noi, il governo è la collettività dei governanti; ed i
governanti re, presidenti, ministri, deputati, ecc. sono coloro che
hanno la facoltà di fare delle leggi per regolare i rapporti degli
uomini tra di loro, e farle eseguire; di decretare e riscuotere
l’imposta; di costringere al servizio militare; di giudicare e punire
i contravventori alle leggi; di sottoporre a regole, sorvegliare e
sanzionare i contratti privati; di monopolizzare certi rami della
produzione e certi servizi pubblici, o, se vogliono, tutta la
produzione e tutti i servizi pubblici; di promuovere o ostacolare lo
scambio dei prodotti; di far la guerra o la pace coi governanti di
altri paesi, di concedere o ritirare franchigie, ecc., ecc. I
governanti in breve, sono coloro che hanno la facoltà, in grado più o
meno elevato, di servirsi della forza sociale, cioè della forza
fisica,intellettuale ed economica di tutti, per obbligare tutti a
fare quello che vogliono essi. E questa facoltà. costituisce, a parer
nostro, il principio governativo, il principio di autorità.
Ma quale è la ragion d’essere del governo?
Perché abdicare nelle mani di alcuni individui la propria libertà, la
propria iniziativa? Perché dar loro questa facoltà di impadronirsi,
con o contro la volontà di ciascuno, della forza di tutti e disporne
a loro modo? Sono essi tanto eccezionalmente dotati da potersi, con
qualche apparenza di ragione, sostituire alla massa e fare gli
nteressi, tutti gli nteressi degli uomini meglio di quello che
saprebbero farlo gli interessati? Sono essi infallibili ed
incorruttibili al punto da potere affidare, con un sembiante di
prudenza, la sorte di ciascuno e di tutti alla loro scienza e alla
loro bontà?
E quand’anche esistessero degli uomini di una bontà e di un sapere
infiniti, quand’anche, per un’ipotesi che non si è mai verificata
nella storia e che noi crediamo impossibile a verificarsi, il potere
governativo fosse devoluto ai più capaci ed ai più buoni,
aggiungerebbe il possesso del governo qualche cosa alla loro potenza
benefica,o piuttosto la paralizzerebbe e la distruggerebbe per la
necessità, in cui si trovano gli uomini che sono al governo, di
occuparsi di tante cose che non intendono, e soprattutto di sciupare
il meglio della loro energia per mantenersi al potere, per contentare
gli amici, per tenere a freno i malcontenti e per domare i ribelli?
E ancora, buoni o cattivi, sapienti o ignari che siano i governanti,
chi è che li designa all’alta funzione? Si impongono da loro stessi
per diritto di guerra, di conquista, o di rivoluzione? Ma allora che
garanzia ha il pubblico che essi s ispireranno all’utilità generale?
Allora è pura questione di usurpazione, ed ai sottoposti, se
malcontenti, non resta che l’appello alla forza per scuotere il
giogo. Sono scelti da una data classe, o da un partito? E allora
certamente trionferanno gli interessi e le idee di quella classe o di
quel partito, e la volontà e gli interessi degli altri saranno
sacrificati.
Sono eletti a suffragio universale? Ma allora il solo criterio è il
numero, che certo non è prova né di ragione, né di giustizia, né di
capacità. Gli eletti sarebbero coloro che meglio sanno ingarbugliare
la massa; e la minoranza, che può anche essere la metà meno uno,
resterebbe sacrificata. E ciò senza contare che l’esperienza ha
dimostrato limpossibilità di trovare un meccanismo elettorale, pel
quale gli eletti siano almeno i rappresentanti reali della
maggioranza.
Molte e varie sono le teorie, con cui si è tentato spiegare e
giustificare l’esistenza del governo. Però tutte sono fondate sui
preconcetto, confessato o no, che gli uomini abbiano interessi
contrari, e che vi sia bisogno di una forza esterna, superiore. per
obbligare gli uni a rispettare gli interessi degli altri,
prescrivendo ed imponendo quella regola di condotta, in cui gli
interessi in lotta siano il meglio possibile armonizzati, ed in cui
ciascuno trovi il massimo di soddisfazione col minimo di sacrifici
possibili.
Se, dicono i teorici dell’autoritarismo, gli interessi, le tendenze,
i desideri di un individuo sono in opposizione con quelli di un altro
individuo o magari di tutta quanta la società, chi avrà il diritto e
la forza di obbligare l’uno a rispettare gli interessi dellaltro? Chi
potrà impedire al singolo cittadino di violare la volontà generale?
La libertà di ciascuno, essi dicono, ha per limite la libertà degli
altri; ma chi stabilirà questi limiti e chi li farà rispettare? Gli
antagonisti naturali degli interessi e delle passioni creano la
necessità del governo, e giustificano l’autorità, che interviene
moderatrice nella lotta sociale, e segna i limiti dei diritti e dei
doveri di ciascuno.
Questa è la teoria; ma le teorie per essere giuste debbono esser
basate sui fatti e spiegarli
e si sa bene come in economia sociale troppo spesso le teorie si
inventano per giustificare i fatti, cioè per difendere il privilegio
e farlo accettare tranquillamente da coloro che ne sono le vittime.
Guardiamo piuttosto ai fatti.
In tutto il corso della storia, così come nell’epoca attuale, il
governo, o è la dominazione brutale, violenta, arbitraria di pochi
sulle masse, e uno strumento ordinato ad assicurare il dominio ed il
privilegio a coloro che, per forza, o per astuzia, o per eredità,
hanno accaparrato tutti i mezzi di vita, primo tra essi il suolo, e
se ne servono per tenere il popolo in servitù e farlo lavorare per
loro conto.
In due modi si opprimono gli uomini: o direttamente colla forza
brutale, colla violenza fisica o indirettamente sottraendo loro i
mezzi di sussistenza e riducendoli così a discrezione. Il primo modo
è l’origine del potere, cioè del privilegio politico; il secondo è
l’origine della proprietà, cioè del privilegio economico. Si può
anche sopprimere gli uomini agendo sulla loro intelligenza e sui loro
sentimenti, il che costituisce il potere religioso, o universitario;
ma come lo spirito non esiste se non in quanto risultante delle forze
materiali, cosc la menzogna ed i corpi costituiti per propagarla non
hanno ragion di essere se non in quanto sono la conseguenza dei
privilegi politici ed economici, ed un mezzo per difenderli e
consolidarli.
Nelle società primitive, poco numerose e dai rapporti sociali poco
complicati, quando una circostanza qualsiasi ha impedito che si
stabilissero delle abitudini, dei costumi di solidarietà, o ha
distrutti quelli che esistevano e stabilito la dominazione dell’uomo
sull’uomo i due poteri politico ed economico si trovano raccolti
nelle stesse mani, che possono anche essere quelle di un uomo solo.
Coloro che colla forza han vinti ed impauriti gli altri, dispongono
delle persone e delle cose dei vinti, e li costringono a servirli, a
lavorare per loro ed a fare in tutto la loro volontà. Essi sono nello
stesso tempo proprietari, legislatori, re, giudici e carnefici.
Ma coll’ingrandirsi delle società, col crescere dei bisogni, col
complicarsi dei rapporti sociali, diventa impossibile l’esistenza
prolungata di un tale dispotismo. I dominatori, e per sicurezza e per
comodità e per l’impossibilità di fare altrimenti, si trovano nella
necessità da una parte di appoggiarsi sopra una classe privilegiata,
cioè sopra un certo numero di individui cointeressati nel loro
dominio, e dall’altra di lasciare che ciascuno provveda come può alla
propria esistenza, riservandosi per loro il dominio supremo, che è il
diritto di sfruttare tutti il più possibile, ed è il modo di
soddisfare la vanità di comando. Così all’ombra del potere, per la
sua protezione e complicità, e spesso a sua insaputa e per causa che
sfuggono al suo controllo, si sviluppa la ricchezza privata, cioè la
classe dei proprietari. E questi, concentrando a poco a poco nelle
loro mani i mezzi di produzione, le fonti vere della vita,
agricoltura, industria, scambi, ecc. finiscono col costituire un
potere a sé, il quale, per la superiorità dei suoi mezzi, e la grande
massa di interessi che abbraccia, finisce sempre col sottomettere più
o meno apertamente il potere politico, cioè il governo, e farne il
proprio gendarme.
Questo fenomeno si è riprodotto più volte nella storia. Ogni volta
che, con l’invasione o con qualsiasi impresa militare, la violenza
fisica, brutale ha preso il disopra di una società, i vincitori hanno
mostrato tendenza a concentrare nelle proprie mani governo e
proprietà. Però sempre, la necessità per il governo di conciliarsi la
complicità di una classe potente, le esigenze della produzione,
l’impossibilità di tutto sorvegliare e tutto dirigere, ristabilirono
la proprietà privata, la divisione dei due poteri, e con essa la
dipendenza effettiva di chi ha in mano la forza, i governi, da chi ha
in mano le sorgenti stesse della forza, i proprietari. Il governante
finisce sempre, fatalmente, coll’essere il gendarme del proprietario.
Ma mai questo fenomeno si era tanto accentuato quanto nei tempi
moderni. Lo sviluppo della produzione, l’estendersi immenso dei
commerci, la potenza smisurata che ha acquistato il denaro, e tutti i
fatti economici provocati dalla scoperta dell’America,
dall’invenzione delle macchine, ecc. hanno assicurato tale supremazia
alla classe capitalistica, che essa, non contenta più di disporre
dell’appoggio del governo, ha voluto che il governo uscisse dal
proprio seno. Un governo che traeva la sua origine dal diritto di
conquista (diritto divino, dicevano i re ed i loro preti) per quanto
sottoposto dalle circostanze alla classe capitalistica, conservava
sempre un contegno altero e disprezzante verso i suoi antichi schiavi
ora arricchiti, e aveva delle velleità d’indipendenza e di
dominazione. Quel governo era bensì il difensore, il gendarme dei
proprietari, ma era di quei gendarmi che si credono qualche cosa, e
fanno gli arroganti colle persone che debbono scortare e difendere,
quando non le svaligi ed ammazzano alla prima svolta di strada; e la
classe capitalista se ne è sbarazzata o se ne va sbarazzando, con
mezzi più o meno violenti, per sostituirlo con un governo scelto da
essa stessa, composto di membri della sua classe, continuamente sotto
il suo controllo, e specialmente organizzato per difendere la classe
contro le possibili rivendicazioni dei diseredati.
Di qui l’origine del sistema parlamentare moderno.
Oggi il governo, composto di proprietari di gente a loro ligia, è
tutto a disposizione dei proprietari, e lo è tanto che i più ricchi
spesso disdegnano di farne parte. Rotschild non ha bisogno di essere
né deputato, ne ministro; gli basta tenere alla sua dipendenza
deputati e ministri.
In molti paesi il proletariato ha nominalmente una partecipazione più
o meno larga alle elezione del governo. E una concessione che la
borghesia ha fatto, sia per avvalersi del concorso popolare nella
lotta contro il potere reale e l’aristocrazia, sia per distogliere il
popolo dal pensare ed emanciparsi col dargli una apparenza di
sovranità.
Però, che la borghesia lo prevedesse o no quando per la prima volta
concedeva al popolo il diritto al voto, il certo è che quel diritto
si è mostrato affatto irrisorio, e buono solo a consolidare il potere
della borghesia col dare alla parte più energica del proletariato la
speranza illusoria di arrivare al potere.
Anche col suffragio universale, e, potremmo dire, specialmente col
suffragio universale, il governo è restato il servo e il gendarme
della borghesia. Che se fosse altrimenti, se il governo accennasse a
divenire ostile se la democrazia potesse mai essere altro che una
lustra per ingannare il popolo, la borghesia minacciata nei suoi
interessi si affretterebbe a ribellarsi, ed adopererebbe tutta la
forza e tutta l’influenza che le viene dal possesso della ricchezza,
per richiamare il governo alla funzione di semplice suo gendarme.
In tutti i tempi e in tutti i luoghi qualunque sia il nome che piglia
il governo, qualunque sia la sua origine e la sua organizzazione, la
sua funzione essenziale è sempre quella di opprimere e sfruttare le
masse, di difendere gli oppressori e gli sfruttatori; ed i suoi
organi principali, caratteristici, indispensabili sono il birro e
l’esattore, il soldato ed il carceriere ai quali si aggiunge
immancabilmente il mercante di menzogne, prete o professore che sia,
stipendiato o protetto dal governo per asservire gli spiriti e farli
docili al giogo.
Certamente a queste funzioni primarie, a questi organi essenziali del
governo altre funzioni ed altri organi si sono aggiunti lungo il
corso della storia. Ammettiamo puranco che mai o quasi ha potuto
esistere, in un paese alquanto civilizzato, un governo che oltre le
funzioni oppressive e spogliatrici, non se ne attribuisse altre utili
o indispensabili alla vita sociale. Ma ciò non infirma il fatto che
il governo di sua natura oppressivo e spogliatore, e che è, per
lorigine e la posizione sua, fatalmente portato a difendere e
rinforzare la classe dominante; anzi lo conferma ed aggrava.
Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la
vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e
legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e
costumi senza di cui è impossibile vivere in società; organizza e
dirige certi esercizi pubblici, come posta, strade, igiene pubblica,
regime delle acque, bonifiche, protezioni delle foreste, ecc., apre
orfanotrofi ed ospedali, e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in
apparenza sintende, a protettore e bene fattore dei poveri e dei
deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni,
per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica che tutto quello che
il governo fa è sempre ispirato dallo spirito di dominazione. ed
ordinato a difendere, allargare e perpetuare i privilegi propri, e
quelli della classe di cui egli è il rappresentante ed il difensore.
Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura
dietro un pretesto di utilità generale; esso non può far rispettare
la vita dei privilegiati senza darsi l’aria di volerla rispettata in
tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi
custode del diritto di tutti.
“La legge” dice Kropotkine, e s’intende coloro che han fatta la
legge, cioè il governo ” ha utilizzato i sentimenti sociali dell’uomo
per far passare insieme ai precetti di morale che l’uomo accettava,
degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro di cui
egli si sarebbe ribellato “.
Un governo non può volere che la società si disfaccia, poiché allora
verrebbe meno a sé ed alla classe dominante il materiale da
sfruttare; né può lasciare ch’essa si regga da sé senza intromissioni
ufficiali, poiché allora il popolo si accorgerebbe ben presto che il
governo non serve se non a difendere i proprietari che l’affamano, e
si affretterebbe a sbarazzarsi del governo e dei proprietari.
Oggi di fronte ai reclami insistenti e minacciosi del proletariato, i
governi mostrano la tendenza ad intromettersi nelle relazioni tra
padroni ed operai; con ciò tentano di deviare il movimento operaio, e
di impedire, con qualche ingannevole riforma, che i poveri prendano
da loro stessi tutto quello che spetta loro, cioè una parte di
benessere eguale a quella di cui godono gli altri.
Bisogna inoltre tenere in conto, da una parte che i borghesi, cioè i
proprietari, stanno essi stessi continuamente a farsi la guerra ed a
mangiarsi tra loro; e dall’altra parte che il governo, per quanto
uscito dalla borghesia e servo e protettore di essa, tende, come ogni
servo ed ogni protettore, ad emanciparsi ed a dominare il protetto.
Quindi quel giuoco d’altalena, quel barcamenarsi, quel concedere e
ritirare, quel cercare alleati tra il popolo, contro i conservatori,
e tra i conservatori contro il popolo, che è la scienza dei
governanti, e che fa illusione agli ingenui ed ai neghittosi, i quali
stanno sempre ad aspettare che la salvezza venga loro dall’alto.
Con tutto questo il governo non cambia natura. Se si fa regolatore e
garante dei diritti e dei doveri di ciascuno, esso perverte il
sentimento di giustizia: qualifica reato e punisce ogni atto che
offende o minaccia i privilegi dei governanti e dei proprietari, e
dichiara giusto, legale, il più atroce sfruttamento dei miserabili,
il lento e continuo assassinio morale e materiale, perpetrato da chi
possiede a danno di chi non possiede. Se si fa amministratore dei
servizi pubblici, esso mira ancora e sempre aglinteressi dei
governanti e dei proprietari, e non si occupa degli interessi della
massa lavoratrice se non in quanto è necessario perché la massa
consenta a pagare. Se si fa istitutore, esso inceppa la propagazione
del vero, e tende a preparare la mente ed il cuore dei giovani,
perché diventino o tiranni implacabili, o docili schiavi, secondo la
classe a cui appartengono. Tutto nelle mani del governo diventa mezzo
per sfruttare, tutto diventa istituzione di polizia, utile per tenere
il popolo a freno .
E doveva esser così. Se la vita degli uomini è lotta tra uomini vi
sono naturalmente vincitori e perdenti, ed il governo che è il premio
della lotta, ed un mezzo per assicurare ai vincitori i risultati
della vittoria e perpetuarli, non andrà certo mai in mano a coloro
che avranno perduto, sia che la lotta avvenga sul terreno della forza
fisica o intellettuale, sia che avvenga sul terreno economico. E
coloro i quali hanno lottato per vincere, cioè per assicurarsi
condizioni migliori degli altri, per conquistare privilegi e dominio,
non se ne serviranno certo per difendere i diritti dei vinti, ed
imporre dei limiti all’arbitrio proprio ed a quello dei loro amici e
partigiani.
Il governo, o, come dicono, lo Stato giustiziere, moderatore della
lotta sociale, amministratore imparziale degli interessi del
pubblico, è una menzogna è un’illusione, un utopia, mai realizzata e
mai realizzabile.
Se davvero gli interessi degli uomini dovessero essere contrari gli
uni agli altri, se davvero la lotta fra gli uomini fosse legge
necessaria delle società umane e la libertà di uno dovesse trovare un
limite nella libertà degli altri, allora ciascuno cercherebbe sempre
di far trionfare gli interessi propri su quelli degli altri, ciascuno
tenterebbe di allargare la propria libertà a scapito della libertà
altrui, e si avrebbe un governo, non già perché sia più o meno utile
alla totalità dei membri di una società averne uno, ma perché i
vincenti vorrebbero assicurarsi i frutti della vittoria, sottoponendo
solidamente i vinti, e liberarsi dal fastidio di star continuamente
sulla difesa, incaricando di difenderli degli uomini, specialmente
addestrati al mestiere di gendarmi. Allora l’umanità sarebbe
destinata a perire, o a dibattersi perennemente tra la tirannide dei
vincitori e la ribellione dei vinti.
Ma per fortuna pié sorridente è l’avvenire dell’umanità, perché più
mite è la legge che la governa.
Questa legge è la SOLIDARIETA.
Luomo ha, come proprietà fondamentali necessarie, l’istinto della
propria conservazione, senza del quale nessun essere vivo potrebbe
esistere, e l’istinto della conservazione della specie, senza cui
nessuna specie avrebbe potuto formarsi e durare. Egli è spinto
naturalmente a difendere l’esistenza ed il benessere di se stesso e
della propria progenitura, contro tutto e tutti.
Due modi trovano in natura gli esseri viventi per assicurarsi
lesistenza e renderla più piacevole: uno è la lotta individuale
contro gli elementi e contro gli altri individui della stessa specie
o di specie diversa; l’altro è il mutuo appoggio, la cooperazione,
che può anche chiamarsi l’associazione per la lotta contro tutti i
fatti naturali contrari allesistenza, allo sviluppo ed al benessere
degli associati.
Non occorre indagare in queste pagine, e noi potremmo per ragion di
spazio, quanta parte hanno rispettivamente nell’evoluzione del regno
organico questi due principi della lotta e della cooperazione.
Ci basterà constatare come nell’umanità la cooperazione (forzata o
volontaria) sia diventato il solo mezzo di progresso, di
perfezionamento, di sicurezza; e come la lotta – resto atavico – sia
diventata completamente inetta a favorire il benessere degli
individui, e produca invece il danno di tutti, e vincitori e perdenti.
L’esperienza, accumulata e tramandata dalle generazioni successive,
ha insegnato all’uomo che unendosi agli altri uomini, la sua
conservazione è più assicurata ed il suo benessere ingrandito. Così,
in conseguenza della stessa lotta per l’esistenza, combattuta contro
la natura e l’ambiente e contro individui della stessa sua specie,
si è sviluppato negli uomini l’istinto sociale, che ha completamente
trasformato le condizioni della sua esistenza. In forza di esso
l’uomo potette uscire dall’animalità, salire a potenza grandissima ed
elevarsi tanto al disopra degli altri animali, che i filosofi
spiritualisti han creduto necessario inventare per lui un’anima
immateriale ed immortale .
Molte cause concorrenti han contribuito alla formazione di questo
istinto sociale, che, partendo dalla base animale dell’istinto della
conservazione della specie (che è lo istinto sociale ristretto alla
famiglia naturale) è arrivato ad un grado eminente in intensità ed in
estensione, e costituisce ormai il fondo stesso della natura morale
dell’uomo.
L’uomo, comunque uscito dai tipi inferiori dell’animalità, essendo
debole e disarmato per la lotta individuale contro le bestie
carnivore, ma avendo un cervello capace di grande sviluppo, un organo
vocale atto ad esprimere con suoni diversi le varie vibrazioni
cerebrali, e delle mani specialmente adatte per dar forma voluta alla
materia, dovette sentire ben presto il bisogno ed i vantaggi
dellassociazione; anzi si può dire che solo allora potette uscire
dall’animalità quando divenne sociale, ed acquistò l’uso della
parola, che è nello stesso tempo conseguenza e fattore potente della
sociabilità.
Il numero relativamente scarso della specie umana, rendendo meno
aspra, meno continua,meno necessaria la lotta per l’esistenza tra
uomo ed uomo, anche al difuori dell’associazione, dovette favorire
molto lo sviluppo dei sentimenti di simpatia e lasciar tempo che
l’utilità del mutuo appoggio si potesse scoprire ed apprezzare.
Infine la capacità acquistata dall’uomo, grazie alle sue qualità
primitive applicate in cooperazione con un numero più o meno grande
di associati, di modificare l’ambiente esterno ed adattarlo ai propri
bisogni; il moltiplicarsi dei desideri che crescono coi mezzi di
soddisfarli e diventano bisogni; la divisione del lavoro che è
conseguenza della sfruttamento metodico della natura a vantaggio
dell’uomo, han fatto sì che la vita sociale è diventata l’ambiente
necessario dell’uomo, fuori del quale esso non può vivere, e, se
vive, decade allo stato bestiale.
E, per l’affinarsi della sensibilità col moltiplicarsi dei rapporti,
e per l’abitudine impressa nella specie dalla trasmissione ereditaria
per migliaia di secoli, questo bisogno di vita sociale, di scambio di
pensieri e di affetti tra uomo e uomo è diventato un modo di essere
necessario del nostro organismo, si è trasformato in simpatia,
amicizia, amore, e sussiste indipendentemente dai vantaggi materiali
che l’associazione produce, tanto che per soddisfarlo si affrontano
spesso sofferenze di ogni genere ed anche la morte.
Insomma i vantaggi grandissimi che l’associazione apporta all’uomo;
lo stato di inferiorità fisica, affatto proporzionato alla sua
superiorità intellettuale, in cui egli si trova di fronte alle bestie
se resta isolato; la possibilità per l’uomo di associarsi ad un
numero sempre crescente di individui ed in rapporti sempre più intimi
e complessi fino ad allargare l’associazione a tutta l’umanità ed a
tutta la vita, e forse più di tutto la possibilità per l’uomo di
produrre, lavorando in cooperazione cogli altri, più di quello che
gli occorre per vivere, ed i sentimenti affettivi che da tutto questo
derivano, han dato alla lotta per lesistenza umana un carattere
affatto diverso dalla lotta che si combatte in generale dagli altri
animali.
Quantunque oggi si sa e le ricerche dei moderni naturalisti ce ne
apportano ogni giorno nuove prove che la cooperazione ha avuto ed ha
nello sviluppo del mondo organico una parte importantissima che non
sospettavano coloro che volevano giustificare, ben a sproposito del
resto, il segno della borghesia colle teorie darviniane, pure il
distacco tra la lotta umana e la lotta animale resta enorme, e
proporzionale alla distanza che separa l’uomo dagli altri animali.
Gli altri animali combattono, o individualmente, o più spesso in
piccoli gruppi fissi o transitori , contro tutta la natura, compresi
gli altri individui della loro stessa specie. Gli stessi animali più
sociali, come le formiche, le api, ecc., sono solidali tra gli
individui dello stesso formicaio o dello stesso alveare, ma sono o in
lotta, o indifferenti verso le altre comunità della loro specie. La
lotta umana invece tende ad allargare sempre più l’associazione tra
gli uomini, a solidarizzare i loro interessi, a sviluppare il
sentimento di amore di ciascun uomo per tutti gli uomini, a vincere e
dominare la natura esterna coll’umanità e per l’umanità.Ogni lotta
diretta a conquistare dei vantaggi indipendentemente dagli altri
uomini o contro di essi, contraddice alla natura sociale dell’uomo
moderno e tende a respingerlo verso l’umanità.
La solidarietà, cioè l’armonia degli interessi e dei sentimenti, il
concorso di ciascuno al bene di tutti e di tutti al bene di ciascuno,
è lo stato in cui solo l’uomo può esplicare la sua natura e
raggiungere il massimo sviluppo ed il massimo benessere possibile.
Essa è la mèta verso cui cammina l’evoluzione umana; è il principio
superiore che risolve tutti gli antagonismi attuali, altrimenti
insolubili, e fa sì che la libertà di ciascuno non trovi il limite,
ma il complemento, anzi le condizioni necessarie di esistenza, nella
libertà degli altri.
” Nessun individuo “, diceva Michele Bakounine, ” può riconoscere la
sua propria umanità né per conseguenza realizzarla nella sua vita, se
non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione
per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando
con lui tutti gli uomini che lo circondano. La mia libertà è la
libertà di tutti, poiché io non sono realmente libero, libero non
solo nell’idea ma nel fatto, se non quando la mia libertà e il mio
diritto trovano la loro conferma e la loro sanzione nella libertà e
nel diritto di tutti gli uomini miei uguali “.
” Mi mporta molto ciò che sono tutti gli altri uomini, perché, per
quanto indipendente io sembri o mi creda per la mia posizione
sociale, fossi pure Papa, Czar, Imperatore o anche primo ministro, io
sono incessantemente il prodotto di ciò che sono gli ultimi tra loro:
se essi sono ignoranti, miserabili, schiavi, la mia esistenza è
determinata dalla loro schiavitù. Io, uomo illuminato od
intelligente, per esempio, sono se è il caso stupido per la loro
stupidaggine; io coraggioso sono schiavo per la loro schiavitù; io
ricco tremo dinanzi alla loro miseria; io privilegiato impallidisco
innanzi alla loro giustizia. Io che voglio esser libero, non lo
posso, perché intorno a me tutti gli uomini non vogliono ancora esser
liberi, e non volendolo, divengono contro di me degli strumenti di
oppressione” .
La solidarietà dunque è la condizione nella quale l’uomo raggiunge il
massimo grado di sicurezza e di benessere; e perciò l’egoismo stesso,
cioè la considerazione esclusiva del proprio interesse spinge l’uomo
e le società umane verso la solidarietà; o per meglio dire, egoismo
ed altruismo (considerazione degli interessi altrui) si confondono in
un solo sentimento, come si confondono in uno l’interesse
dellindividuo e l’interesse della società.
Sennonché l’uomo non poteva d’un tratto solo passare dall’animalità
all’umanità, dalla lotta brutale tra uomo e uomo, alla lotta solidale
di tutti gli uomini affratellati contro la natura esteriore.
Guidato dai vantaggi che offre l’associazione e la conseguente
divisione del lavoro, l’uomo evolveva verso la solidarietà; ma la sua
evoluzione incontrò un ostacolo che l’ha deviata e la devia ancora
dalla mèta. Luomo scoprì che poteva, almeno fino ad un certo punto e
per i bisogni materiali e primitivi che allora solamente sentiva,
realizzare i vantaggi della cooperazione sottomettendo a sé gli altri
uomini invece di associarseli; e, siccome erano ancora potenti in lui
gli istinti feroci ed antisociali ereditati dalle bestie
progenitrici, egli costrinse i più deboli a lavorare per lui,
preferendo la dominazione alla associazione . Forse anche, nella più
parte dei casi, fu sfruttando i vinti che l’uomo imparò per la prima
volta a comprendere i benefizi dell’associazione, l’utile che l’uomo
poteva ricavare dall’appoggio dell’uomo.
Così la constatazione dell’utilità della cooperazione, che doveva
condurre al trionfo della solidarietà in tutti i rapporti umani, mise
capo invece alla proprietà individuale ed al governo, cioè allo
sfruttamento del lavoro di tutti da parte di pochi privilegiati.
Era sempre l’associazione, la cooperazione, fuori della quale non vè
più vita umana possibile; ma era un modo di cooperazione, imposto e
regolato da pochi nel loro interesse particolare.
Da questo fatto è derivata la grande contraddizione, che riempie la
storia degli uomini, tra la tendenza ad associarsi ed affratellarsi
per la conquista e l’adattamento del mondo esteriore ai bisogni
dell’uomo, e per la soddisfazione dei sentimenti affettivi e la
tendenza a dividersi in tante unità separate ed ostili quanti sono
gli aggruppamenti determinati da condizioni geografiche, quante sono
le posizioni economiche, quanti sono gli uomini che sono riusciti a
conquistare un vantaggio e vogliono assicurarselo ed aumentarlo.
quanti sono quelli che sperano conquistare un privilegio, quanti sono
quelli che soffrono di un’ingiustizia o di un privilegio e si
ribellano e vogliono redimersi .
Il principio del ciascun per sé, che è la guerra di tutti contro
tutti, è venuto nel corso
della storia a complicare, a deviare, a paralizzare la guerra di
tutti contro la natura per il maggior benessere dell’umanità, che
solo può avere esito completo fondandosi sul principio tutti per uno
e uno per tutti.
Immensi sono stati i mali che ha sofferto l’umanità per questo
intromettersi della dominazione e dello sfruttamento in mezzo
all’associazione umana. Ma malgrado l’oppressione atroce cui sono
state sottomesse le masse, malgrado la miseria, malgrado i vizi, i
delitti, la degradazione che la miseria e la schiavitù producono
negli schiavi e nei padroni, malgrado gli odii accumulati, malgrado
le guerre sterminatrici, malgrado l’antagonismo degli interessi
artificialmente creato, l’istinto sociale ha sopravvissuto e si è
sviluppato. La cooperazione restando sempre la condizione necessaria
perché l’uomo potesse lottare con successo contro la natura
esteriore, restò pure come causa permanente dell’avvicinamento degli
uomini e dello svilupparsi del sentimento di simpatia tra gli uomini.
L’oppressione stessa delle masse ha affratellati gli oppressi fra
loro; ed è stato solo in forza della solidarietà più o meno cosciente
e più o meno estesa, che esisteva fra gli oppressi, che questi han
potuto sopportare l’oppressione e che l’umanità a resistito alla
cause di morte che si sono insinuate in mezzo ad essa.
Oggi lo sviluppo immenso che ha preso la produzione, il crescere di
quei bisogni che non possono soddisfarsi se non col concorso di gran
numero di uomini di tutti i paesi, i mezzi di comunicazione,
labitudine dei viaggi, la scienza, la letteratura, i commerci, le
guerre stesse, hanno stretto e vanno sempre pié stringendo l’umanità
in un corpo solo, le cui parti, solidali tra loro, possono sola
trovare pienezza e libertà di sviluppo nella salute delle altre parti
e del tutto.
L’abitante di Napoli è tanto interessato alla bonifica dei fondaci
della sua città, quanto al miglioramento delle condizioni igieniche
delle popolazioni delle sponde del Gange, di dove gli viene il
colera. Il benessere, la libertà, l’avvenire di un montanaro perduto
fra le gole degli Appennini, non solo dipendono dallo stato di
benessere o di miseria in cui si trovano gli abitanti del suo
villaggio. non solo dipendono dalle condizioni generali del popolo
italiano, ma dipendono pure dallo stato dei lavoratori in America o
in Australia, dalla scoperta che fa uno scienziato svedese, dalle
condizioni morali e materiali dei Cinesi, dalla guerra o dalla pace
che si fa in Africa, da tutte insomma le circostanze grandi e piccine
che in punto qualunque del mondo agiscono sopra un essere umano.
Nelle condizioni attuali della società. questa vasta solidarietà che
unisce insieme tutti gli uomini è in gran parte incosciente, poiché
sorge spontanea dall’attrito deglinteressi particolari, mentre gli
uomini si preoccupano punto o poco degli interessi generali. E questa
è la prova più evidente che la solidarietà è legge naturale
dell’umanità. che si esplica e si impone malgrado tutti gli ostacoli.
malgrado tutti gli antagonismi creati dall’attuale costituzione
sociale.
Daltra parte le masse oppresse, che non si sono mai completamente
rassegnate all’oppressione ed alla miseria, e che oggi più che mai si
mostrano assetate di giustizia, di libertà, di benessere,
incominciano a capire che esse non potranno emanciparsi se non
mediante lunione, la solidarietà con tutti gli oppressi, con tutti
gli sfruttati del mondo tutto. Ed esse capiscono pure che condizione
imprescindibile della loro emancipazione è il possesso dei mezzi di
produzione, del suolo degli strumenti di lavoro, l’osservazione dei
fenomeni sociali, dimostra che questa abolizione sarebbe di utile
immenso agli stessi privilegiati, se solo volessero rinunziare al
loro spirito di dominazione concorrere con tutti al lavoro per il
benessere comune.
Ora dunque, se un giorno le masse oppresse si rifiuteranno di
lavorare per gli altri, se leveranno ai proprietari la terra e gli
strumenti di lavoro vorranno adoperarli per conto e profitto proprio
cioè di tutti, se esse non vorranno pié subire dominazione né di
forza brutale, né di privilegio economico, se la fratellanza fra i
popoli, il sentimento di solidarietà umana rafforzato dalla comunanza
dinteressi avrà messo fine alle guerre ed alle conquiste quale
ragione di esistere avrebbe più un governo?
Abolita la proprietà individuale, il governo che è il suo difensore,
deve sparire. Se sopravvivesse esso tenderebbe continuamente a
ricostituire, sotto una forma qualsiasi, una classe privilegiata ed
oppressiva.
E l’abolizione del governo, non significa, non può significare il
disfacimento della connessione sociale. Bene al contrario, la
cooperazione che oggi è forzata, che oggi è diretta al vantaggio di
pochi, sarebbe libera, volontaria e diretta al vantaggio di tutti; e
perciò diventerebbe tanto più intensa ed efficace.
L’istinto sociale, il sentimento di solidarietà sì svilupperebbe al
più alto grado: e ciascun uomo farebbe tutto quello che può per il
bene degli altri uomini, tanto per soddisfare ai suoi sentimenti
affettivi, quanto per beninteso interesse.
Dal libero concorso di tutti, mediante l’aggrupparsi spontaneo degli
uomini secondo i loro bisogni e le loro simpatie, dal basso all’alto,
dal semplice al composto, partendo dagli interessi più immediati per
arrivare a quelli più lontani e più generali, sorgerebbe
unorganizzazione sociale, che avrebbe per scopo il maggior benessere
e la maggiore libertà di tutti, abbraccerebbe tutta l’umanità in
fraterna comunanza e si modificherebbe e migliorerebbe a seconda del
modificarsi delle circostanze e degli insegnamenti dell’esperienza.
Questa società di liberi, questa società di amici è l’Anarchia.
Noi abbiamo finora considerato il governo quale è, quale deve
necessariamente essere, in una società fondata sul privilegio, sullo
sfruttamento e l’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo,
sull’antagonismo degli interessi, sulla lotta intrasociale, in una
parola sulla proprietà individuale.
Abbiamo visto come lo stato di lotta. lungi dall’essere una
condizione necessaria della vita dell’umanità, è contrario agli
interessi degli individui e della specie umana; abbiamo visto come la
cooperazione. la solidarietà è legge del progresso umano, ed abbiamo
conchiuso che abolendo la proprietà individuale ed ogni predominio,
il governo perde ogni ragione di essere e si deve abolire.
” Però (ci si potrebbe dire) cambiato il principio su cui è fondata
oggi l’organizzazione sociale, sostituita la solidarietà alla lotta,
la proprietà comune alla proprietà individuale, il governo
cambierebbe natura ed invece di essere il protettore ed il
rappresentate degli interessi di una classe, sarebbe, poiché classi
non ve ne sono più, il rappresentante degli interessi di tutta la
società. Esso avrebbe missione di assicurare e regolare nellinteresse
di tutti, la cooperazione sociale, compiere i servizi pubblici di
importanza generale, difendere la società dai possibili tentativi
diretti a ristabilire il privilegio, e prevenire e reprimere gli
attentati, da chiunque commessi, contro la vita, il benessere e la
libertà di ciascuno.
Vi sono nella società delle funzioni troppo necessarie, che
richiedono troppa costanza, troppa regolarità, per poter essere
lasciati alla libera volontà deglindividui, senza pericolo di vedere
andare ogni cosa a soqquadro.
Chi organizzerebbe e chi assicurerebbe, se non vi fosse un governo, i
servizi di alimentazione,di distribuzione, di igiene. di posta,
telegrafo, ferrovie, ecc? Chi curerebbe l’istruzione popolare? Chi
intraprenderebbe quei grandi lavori di esplorazioni, di bonifiche, di
intraprese scientifiche, che trasformano la faccia della terra, e
centuplicano le forze delluomo?
Chi veglierebbe alla conservazione ed all’aumento del capitale
sociale per tramandarlo arricchito e migliorato all’umanità avvenire?
Chi impedirebbe la devastazione delle foreste, lo sfruttamento
irrazionale e quindi l’impoverimento del suolo?
Chi avrebbe mandato di prevenire e reprimere i delitti, cioè gli atti
antisociali?
E quelli che, mancando alla legge di solidarietà, non volessero
lavorare? E quelli che spargessero l’infezione in un paese,
rifiutandosi di sottomettersi alle regole igieniche riconosciute
utili dal.la scienza? E se vi fossero di quelli che, matti o no,
volessero bruciare il raccolto, o violare i bambini, o abusare sui
più deboli della loro forza fisica?
Distruggere la proprietà individuale e abolire i governi esistenti,
senza poi ricostruire un governo che organizzasse la vita collettiva
ed assicurasse la solidarietà sociale, non sarebbe abolire i
privilegi e portare sul mondo la pace ed il benessere; ma sarebbe
distruggere ogni vincolo sociale, respingere l’umanità verso la
barbarie, verso il regno del ciascuno per sè, che è il trionfo della
forza brutale prima, del privilegio economico dopo “.
Queste sono le obbiezioni che ci oppongono gli autoritari. anche
quando sono socialisti, cioè quando vogliono abolire la proprietà
individuale ed il governo di classe che ne deriva.
Rispondiamo.
Prima di tutto non è vero che cambiate le condizioni sociali, il
governo cambierebbe di natura e di funzione. Organo e funzione sono
termini inseparabili. Levate ad un organo la sua funzione, e, o
l’organo muore o la funzione si ricostituisce. Mettete un esercito in
un paese in cui non ci siano nè ragioni, nè paure di guerra interna
od esterna ed esso provocherà la guerra , o, se non ci riesce, si
disfarà. Una polizia dove non ci siano delitti da scoprire e
delinquenti da arrestare, provocherà, inventerà i delitti ed i
delinquenti, o cesserà di esistere.
In Francia esiste da secoli un’istituzione, oggi aggregata
all’amministrazione delle foreste, la lupatteria (louveterie) i cui
ufficiali hanno incarico di provvedere alla distruzione dei lupi ed
altre bestie nocive. Nessuno sarà meravigliato apprendendo che è
appunto a causa di questa istituzione che i lupi esistono ancora in
Francia, e nelle stagioni rigorose vi fanno strage. Il pubblico si
occupa poco di lupi, perché vi sono i lupattieri che vi debbono
pensare; ed i lupattieri fanno sì la caccia,ma la fanno
intelligentemente, risparmiando i nidi e dando tempo alla
riproduzione, per non rischiare di distruggere una specie così
interessante. I contadini francesi infatti hanno poca fiducia in
questi lupattieri, e li considerano piuttosto come i conservatori dei
lupi. E si capisce: che farebbero i ” luogotenenti di lupatteria ” se
non vi fossero più lupi?.
Un governo, cioè un numero di persone incaricato di far le leggi ed
abilitato a servizi della forza di tutti per obbligare ciascuno a
rispettarle, costituisce già una classe privilegiata e separata dal
popolo. Esso cercherà istintivamente, come ogni corpo costituito, di
allargare le sue attribuzioni di sottrarsi al controllo del popolo,
di imporre le sue tendenze e di far predominare i suoi interessi
particolari. Messo in una posizione privilegiata, il governo già si
trova in antagonismo colla massa, dalla cui forza dispone.
Del resto un governo anche volendo, non potrebbe contentar tutti, se
pur riuscisse a contentar qualcuno. Dovrebbe difendersi contro i
malcontenti, e quindi dovrebbe cointeressare una parte del popolo per
esserne appoggiato. E così ricomincerebbe la vecchia storia della
classe privilegiata che si costituisce colla complicità del governo,
e che, se questa volta non si impossesserebbe del suolo,
accapparrerebbe certo delle posizioni di favore, appositamente
create, e non sarebbe meno oppressiva né meno sfruttatrice della
classe capitalistica.
I governanti, abituati ai comando, non vorrebbero ritornare nella
folla, e se non potessero conservare il potere nelle loro mani, si
assicurerebbero almeno delle posizioni privilegiate per quando
dovranno passarlo in mano di altri. Userebbero di tutti i mezzi che
ha il potere, per far eleggere a loro successori gli amici loro, ed
esserne poscia a loro volta appoggiati e protetti. E così il governo
passerebbe e ripasserebbe nelle stesse mani, e la democrazia, che è
il preteso governo di tutti, finirebbe, come sempre, in oligarchia,
che è il governo di pochi, il governo di una classe. E che oligarchia
strapotente, oppressiva, assorbente sarebbe mai quella che avrebbe a
suo carico, cioè a sua disposizione, tutto il capitale sociale, tutti
i servizi pubblici, dall’alimentazioni alla fabbricazione dei
fiammiferi, dalle università ai teatri d’operette!
Ma, supponiamo pure che il governo non costituisce già da sé una
classe privilegiata, e potesse vivere senza creare intorno a se una
nuova classe di privilegiati e restando il rappresentante, il servo,
se si vuole, di tutta la società. A che servirebbe esso mai? In che
cosa ed in che modo aumenterebbe esso la forza, l’intelligenza, lo
spirito di solidarietà, la cura del benessere diluiti e dell’umanità
futura, che in un dato momento si trovano esistenti in una data
società?
E sempre la vecchia storia dell’uomo legato, che essendo riuscito a
vivere malgrado i ceppi, erede di vivere a causa dei ceppi. Noi siamo
abituati a vivere sotto di un governo, che accaparra tutte quelle
forze, quelle intelligenze, quelle volontà, che può dirigere ai suoi
fini; ostacola, paralizza, sopprime quelle che gli sono inutili od
ostili e ci immaginiamo che tutto ciò che si fa nella società si fa
per opera del governo, e che senza governo non ci sarebbe pié nella
società ne forza, nè intelligenza, nè buona volontà. Così (lo abbiamo
già detto) il proprietario che sè impossessato della terra la fa
coltivare per il suo profitto particolare. lasciando al lavoratore lo
stretto necessario perché esso possa e voglia continuare a lavorare
ed il lavoratore asservito pensa che non potrebbe vivere senza il
padrone, come se questi creasse la terra e le forze della natura.
Che cosa può aggiungere di suo il governo alle forze morali e
materiali che esistono in una società? Sarebbe esso per caso come il
Dio della Bibbia che crea dal nulla?
Siccome nulla si crea neI mondo che suole chiamarsi materiale, così
nulla si crea in questa forma più complicata del mondo materiale che
è il mondo sociale. E perciò i governanti non possono disporre che
delle forze che esistono nella Società meno quelle grandissime che
lazione governativa paralizza e distrugge, e meno le forze ribelli, e
meno tutto ciò che si consuma negli attriti, necessariamente
grandissimi in un meccanismo cosc artifizioso. Se qualche cosa ci
mettono del loro, è come uomini e non come governanti che possono
farlo. E di quelle forze, materiali e morali, che restano a
disposizione del governo, solo una parte piccolissima riceve una
destinazione realmente utile alla società. Il resto, o è consumato in
attività repressiva per tenere a freno le forze ribelli, o è
altrimenti stornato dallo scopo di utilità generale ed adoperato a
profitto di pochi ed a danno della maggioranza degli uomini.
Si è fatto un gran discorrere sulla parte che hanno rispettivamente,
nella vita e nel progresso delle società umane, l’iniziativa
individuale e l’azione sociale; e si è riuscito, coi soliti artifizii
del linguaggio metafisico, ad imbrogliare talmente le cose, che poi
sono apparsi audaci coloro i quali hanno affermato che tutto si regge
e cammina nel mondo umano per opera dell’iniziativa individuale. In
realtà è questa una verità di senso comune, che appare evidente non
appena si cerca di rendersi conto delle cose che le parole
significano. L’essere reale è l’uomo, è l’individuo: la società o
collettività e lo Stato o governo che pretende rappresentarla se
non sono vuote astrazioni, non possono essere che aggregati
d’individui. Ed è nell’organismo di ciascun individuo che hanno
necessariamente origine tutti i pensieri e tutti gli atti umani, i
quali, da individuali, diventano pensieri ed atti collettivi quando
sono o si fanno comuni a molti individui. L’azione sociale, dunque,
non e nè la negazione, nè il complemento dell’iniziativa individuale,
ma è la risultante delle iniziative, dei pensieri e delle azioni di
tutti gli individui che compongono la società: risultante che, posta
ogni altra cosa eguale, è più o meno grande secondo che le singole
forze concorrono allo stesso scopo, o sono divergenti od opposte. E
se invece, come fanno gli autoritarii, per azione sociale s’intende
l’azione governativa, allora essa è ancora la risultante di forze
individuali, ma solo di quegli individui che fanno parte del governo,
o che per la loro posizione possono influire sulla condotta del
governo.
Quindi, nella contesa secolare tra libertà ed autorità, o, in altri
termini, tra socialismo e stato di classe, non è questione veramente
di alterare i rapporti tra la società e l’individuo; non è questione
di aumentare l’indipendenza individuale a scapito dell’ingerenza
sociale, o questa a scapito di quella. Ma si tratta piuttosto di
impedire che alcuni individui possano opprimere altri; di dare a
tutti gli individui gli stessi diritti e gli stessi mezzi di azione;
e di sostituire liniziativa di pochi, che produce necessariamente
l’oppressione di tutti gli altri. Si tratta insomma, sempre e poi
sempre, di distruggere la dominazione e lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, in modo che tutti siano interessati al benessere comune, e
le forze individuali, invece di esser soppresse o di combattersi ed
elidersi a vicenda, trovino la possibilità di uno sviluppo completo,
e si associno insieme per il maggior vantaggio di tutti.
Da quanto abbiamo detto risulta che lesistenza di un governo, anche
se tosse, per seguire la nostra ipotesi, il governo ideale dei
socialisti autoritarii, lungi dal produrre un aumento delle forze
produttive, organizzatrici e protettrici della società, le
diminuirebbe immensamente, restringendo liniziativa a pochi, e dando
a questi pochi il diritto di tutto fare, senza potere, naturalmente,
dar loro il dono di tutto sapere.
Infatti, se levate nella legislazione e nell’opera tutta di un
governo tutto ciò che è inteso a difendere i privilegiati e che
rappresenta la volontà dei privilegiati stessi, che cosa vi resta che
non sia
il risultato dell’attività di tutti? b Lo stato “, diceva Sismondi, ”
è sempre un potere conservatore che autentica, regolarizza, organizza
le conquiste del progresso ” (e la storia aggiunge che le dirige a
profitto e della classe privilegiata) ” non mai le inaugura. Esse
hanno sempre origine dal basso, nascono dal fondo della società, dal
pensiero individuale, che poi si divulga, diventa opinione,
maggioranza, ma deve sempre incontrare sui suoi passi e combattere
nei poteri costituiti la tradizione, la consuetudine, il privilegio e
l’errore”.
Del resto per comprendere come una società possa vivere senza
governo, basta osservare un pò a fondo nella stessa società attuale,
e si vedrà come in realtà la più gran parte, la parte essenziale
della vita sociale, si compie anche oggi al di fuori dellintervento
governativo, e come il governo non interviene che per sfruttare le
masse, per difendere i privilegiati, e per il resto viene a
sanzionare, ben inutilmente, tutto quello che s’è fatto senza di lui,
e spesso, malgrado e contro di lui. Gli uomini lavorano, scambiano,
studiano, viaggiano, seguono come l’intendono le regole della morale
e dell’igiene, profittano dei progressi della scienza e dell’arte,
hanno rapporti infiniti tra di loro, senza che sentano bisogno di
qualcuno che imponga loro il modo di condursi. Anzi sono appunto
quelle cose in cui il governo non ha ingerenza, che camminano meglio,
che dan luogo a minori contestazioni e si accomodano, per la volontà
di tutti, in modo che tutti ci trovino utile e piacere.
Nè il governo è più necessario per le grandi imprese e per quei
servizi pubblici che richiedono il concorso regolare di molta gente
di paesi e condizioni differenti. Mille di queste imprese sono oggi
stesso, l’opera di associazioni di privati, liberamente costituite, e
sono, a confessione di tutti, quelle che meglio riescono. Nè parliamo
delle associazioni di capitalisti, organizzate a scopo di
sfruttamento, quantunque esse pure dimostrino la possibilità e la
potenza della libera associazione, e come essa può estendersi fino ad
abbracciare gente di tutti i paesi ed interessi immensi e
svariatissimi. Ma parliamo a preferenza di quelle associazioni che,
ispirate dall’amore per propri simili, o dalla passione della
scienza, o anche semplicemente dal desiderio di divertirsi e di farsi
applaudire, meglio rappresentano gli aggruppamenti quali saranno in
una società in cui, abolita la proprietà individuale e la lotta
intestina fra gli uomini, ciascuno troverà il suo interesse
nellinteresse di tutti, e la sua migliore soddisfazione nel far il
bene, e piacere agli altri. Le società e i congressi scientifici,
l’associazione internazionale di salvataggio, l’associazione della
Croce Rossa, le Società geografiche, le organizzazioni operaie, i
corpi di volontari che accorrono al soccorso in tutte le grandi
calamità pubbliche, sono esempi, tra mille, di questa potenza dello
spirito di associazione che si manifesta sempre quando si tratta di
un bisogno o di una passione veramente sentita, e non manchino i
mezzi che se l’associazione volontaria non copre il mondo e non
abbraccia tutti i rami dellattività materiale e morale, si è a causa
degli ostacoli messi dai governi, degli antagonismi creati dalla
proprietà privata, e dell’impotenza e dell’avvilimento, in cui
l’accaparramento della ricchezza da parte di pochi riduce la gran
maggioranza degli uomini.
Il governo sincarica, per esempio, del servizio delle poste, delle
ferrovie, ecc. Ma in che cosa aiuta realmente questi servizi? Quando
il popolo, messo in grado di poterne godere, sente il bisogno di
questi servizi, pensa ad organizzarli, e gli uomini tecnici non hanno
bisogno di un brevetto governativo per mettersi al lavoro. E più il
bisogno è generato ed urgente, pié abbonderanno i volontari per
compierlo. Se il popolo avesse facoltà di pensare alla produzione ed
alla alimentazione, oh! non temete chegli si lasci morire di fame
aspettando che un governo abbia fatte delle leggi in proposito. Se
governo vi dovesse essere, esso sarebbe ancora costretto di aspettare
che il popolo abbia prima tutto organizzato, per poi venire con delle
leggi a sanzionare ed a sfruttare quello che era già fatto. E
dimostrato che l’interesse privato è il gran movente di tutte le
attività: ebbene, quando l’interesse di tutti sarà l’interesse di
ciascuno (e lo sarà necessariamente se non esiste la proprietà
individuale) allora tutti agiranno, e se le cose si fanno adesso che
interessano a pochi, tanto più e tanto meglio si faranno quando
interesseranno a tutti. E si capisce a stento come vi sia della gente
che crede che l’esecuzione ed il regolare andamento dei servizi
pubblici indispensabili alla vita sociale, siano meglio assicurati se
fatti per gli ordini di un governo, anziché direttamente dai
lavoratori, che, o per propria elezione, o per accordi cogli altri,
han prescelto quel genere di lavoro e lo eseguiscono sotto il
controllo immediato di tutti gli interessati.
Certamente in ogni grande lavoro collettivo v’è bisogno di divisione
di lavoro, di direzione tecnica, di amministrazione, ecc. Ma
malamente gli autoritari giocano sulle parole per dedurre la ragion
di essere del governo dalla necessità, ben reale, di organizzare il
lavoro. Il governo, è bene ripeterlo, è l’insieme degli individui che
hanno avuto o si son preso il diritto ed i mezzi di far le leggi e di
forzare la gente ad ubbidire; l’amministratore, l’ingegnere, ecc.,
sono invece uomini che ricevono o si assumono lincarico di fare un
dato lavoro e lo fanno. Governo significa delegazione di potere, cioè
abdicazione della iniziativa e della sovranità di tutti nelle mani di
alcuni; amministrazione significa delegazione di lavoro, cioè
incarico dato e ricevuto, scambio libero di servigi fondato sopra
liberi patti. Il governante è un privilegiato, poichè ha il diritto
di comandare agli altri e di servirsi delle forze degli altri, per
far trionfare le sue idee ed i suoi desideri particolari;
l’amministratore, il direttore tecnico, ecc., sono lavoratori come
gli altri, quando, s’intende, lo siano in una società in cui tutti
hanno mezzi uguali di svilupparsi e tutti siano o possano essere ad
un tempo lavoratori intellettuali e manuali, e non vi restino altre
differenze fra gli uomini che quelle derivanti dalla diversità
naturale delle attitudini, e tutti i lavoratori, tutte le funzioni
diano un diritto eguale a godere dei vantaggi sociali. Non si
confonda la funzione governativa con la funzione amministrativa, che
sono essenzialmente diverse, e che, se oggi si trovano spesso
confuse, è solo a causa del privilegio economico e politico.
Ma affrettiamoci a passare alle funzioni, per le quali il governo è
considerato, da tutti coloro che non sono anarchici, come veramente
indispensabile: la difesa esterna ed interna di una società, vale a
dire la guerra, la polizia e la giustizia.
Aboliti i governi e messa la ricchezza sociale a disposizione di
tutti, presto spariranno tutti gli antagonismi tra i vari popoli e la
guerra non avrà più ragione di esistere. Diremo inoltre che nello
stato attuale del mondo, quando la rivoluzione si farà in un paese,
se non troverà eco sollecito, dappertutto troverà certo tanta
simpatia che nessun governo oserà mandare le truppe allestero col
rischio di vedersi scoppiare la rivoluzione in casa. Ma ammettiamo
pure che i governi dei paesi non ancora emancipati volessero e
potessero tentare di rimettere in servitù un popolo libero; avrà
questo bisogno di un governo per difendersi? Per far la guerra ci
vogliono uomini che abbiano le condizioni geografiche e tecniche
necessarie, e soprattutto masse che vogliono battersi. Un governo non
può aumentare la capacità degli uni, nè la volontà ed il coraggio
delle altre. E lesperienza storica e insegna come un popolo che
voglia davvero difendere il proprio paese sia invincibile: ed in
Italia si sa da tutti come, innanzi ai corpi di volontari (formazione
anarchica) crollino i troni e svaniscono gli eserciti regolari,
composti d’uomini forzati od assoldati
E la polizia? E la giustizia? Molti simmaginano che se non vi fossero
carabinieri, poliziotti e giudici ognuno sarebbe libero di uccidere,
di stuprare, di danneggiare gli altri a suo capriccio; e che gli
anarchici, in nome dei loro principi, vorrebbero rispettata quella
strana libertà, che viola e distrugge la libertà e la vita degli
altri. Quasi credono che noi, dopo avere abbattuto il governo e la
proprietà individuale, lasceremmo poi ricostruire tranquillamente
l’uno e l’altra, per rispetto alla libertà di coloro che sentissero
il bisogno di essere governanti e proprietari. Strano modo davvero
di intendere le nostre idee! è vero che così riesce più facile
sbarazzarsi con una scrollata di spalle, dell’incomodo di confutarle.
La libertà che noi vogliamo, per noi e per gli altri, non è la
liberta assoluta, astratta, metafisica, che in pratica si traduce
fatalmente in oppressione del debole; ma è la libertà i reale, la
liberta possibile, che è la comunanza cosciente degli interessi, la
solidarietà volontaria. Noi proclamiamo la massima FA QUEL CHE VUOI,
ed in essa quasi riassumiamo) il nostro programma, perché ci vuole
poco a capirlo,riteniamo che in una società armonica, in una società
senza il governo e senza proprietà. ognuno VORRA’ QUEL CHE DOVRA’ .
Ma se, o per le conseguenze, dell’educazione ricevuta dalla presente
società o per malore fisico, o per qualsiasi altra causa, uno volesse
fare del danno a noi ed agli altri, noi ci adopereremmo, se ne può
essere certi, ad impedirglielo con tutti i mezzi a nostra portata.
Certo, siccome noi sappiamo che l’uomo è la conseguenza del proprio
organismo e dell’ambiente cosmico e sociale in cui vive; siccome non
confondiamo il diritto sacro della difesa col preteso assurdo diritto
di punire; e siccome nel delinquente, cioè in colui che commette atti
antisociali, non vedremmo già lo schiavo ribelle, come avviene al
giudice di oggi, ma il fratello ammalato e necessitoso di cura, così
noi non metteremmo odio nella repressione, ci sforzeremmo di non
oltrepassare la necessità della difesa, e non penseremmo a vendicarci
ma a curare, a redimere l’infelice con tutti i mezzi che la scienza
ci insegnerebbe. In ogni modo, comunque l’intendessero gli anarchici
(ai quali potrebbe accadere come a tutti i teorici di perder di vista
la realtà, per correr dietro ad un sembiante di logica) è certo che
il popolo non intenderebbe lasciare attentare impunemente al suo
benessere ed alla sua libertà, e, se la necessità si presentasse,
provvederebbe a difendersi contro le tendenze antisociali di alcuni.
Ma per farlo, a che serve della gente che faccia il mestiere di far
le leggi; e dell’altra gente che viva cercando ed inventando
contravventori alle leggi? Quando il popolo riprova davvero una cosa
e la trova dannosa, riesce ad impedirla sempre, meglio che non tutti
i legislatori, i birri e di giudici di mestiere. Quando nelle
insurrezioni il popolo ha voluto, ben a torto del resto, far
rispettare la proprietà privata, l’ha fatta rispettare come non
avrebbe potuto un esercito di birri.
I costumi seguono sempre i bisogni ed i sentimenti della generalità;
e sono tanto più rispettati quanto meno sono soggetti alla sanzione
della legge, perché tutti ne veggono ed intendono la utilità, e
perché gli interessati, non illudendosi sulla protezione del governo,
pensano a farli rispettare da loro. Per una carovana che viaggia nei
deserti dell’Africa, la buona economia dell’acqua è questione di vita
o di morte per tutti: e l’acqua in quelle circostanze diventa cosa
sacra e nessuno si permette di sciuparla. I cospiratori hanno bisogno
del segreto, ed il segreto è serbato, o l’infamia colpisce chi lo
viola. I debiti di giuoco non sono garantiti dalla legge, e tra i
giocatori è considerato e considera se stesso disonorato, chi non li
paga.
E forse a causa dei gendarmi che non si uccide più di quello che si
fa? La maggior parte dei comuni dItalia non veggono i gendarmi che di
tratto in tratto; milioni di uomini vanno per i monti e le campagne,
lontani dallocchio tutelare dell’autorità, in modo che si potrebbe
colpirli senza il menomo pericolo di pena: eppure non sono meno
sicuri di coloro che vivono nei centri più sorvegliati. E la
statistica dimostra come il numero dei reati risente appena l’effetto
delle misure repressive, mentre varia rapidamente col variare delle
condizioni economiche e dello stato dell’opinione pubblica.
Le leggi punitive, del resto, non riguardano che i fatti
straordinari, eccezionali. La vita quotidiana si svolge al di fuori
della portata del codice ed è regolata, quasi inconsciamente, per
tacito e volontario assenso di tutti, da una quantità di usi e
costumi, ben più importanti alla vita sociale che gli articoli del
codice penale, o meglio rispettati, quantunque completamente privi di
ogni sanzione che non sia quella naturale della disistima in cui
incorrono i violatori, e del danno che dalla disistima deriva.
E quando avvenissero tra gli uomini delle contestazioni, l’arbitrato
volontariamente accettato, o la pressione dell’opinione pubblica non
sarebbero forse più atti a far aver ragione a chi l’ha, anzi che una
magistratura irresponsabile, che ha il diritto di giudicare su tutto
e su tutti, ed è necessariamente incompetente e quindi ingiusta?.
Come il governo in genere non serve che per la protezione delle
classi privilegiate, così la polizia e la magistratura non servono
che per la repressione di quei reati che non sono considerai tali dal
popolo, e solo offendono i privilegi de governo e dei proprietari.
Per la vera difesa sociale, per la difesa del benessere e della
libertà d tutti, non v’è nulla di più pernicioso che la formazione di
queste classi che vivono col pretesto d difendere tutti, si abituano
a considerare ogni uomo come una selvaggina da mettere in gabbia, vi
colpiscono senza saper perché, per l’ordine d’un capo, quali sicari
incoscienti e prezzolati.
Ebbene sia, dicono alcuni: l’anarchia può essere una forma perfetta
di convivenza sociale, ma noi non vogliamo fare un salto nel buio.
Diteci dunque dettagliatamente come sarà organizzata la vostra
società. E qui segue tutta una serie di domande, che sono molto
interessanti se si tratta di studiare i problemi che s’imporranno
alla società emancipata, ma che sono inutili, o assurde,o ridicole se
si pretende averne da noi una soluzione definitiva. Con quali metodi
si educheranno i bambini? Come si organizzerà la produzione? Ci
saranno ancora delle grandi città, o la popolazione si distribuirà
egualmente su tutta la superficie della terra? E se tutti gli
abitanti della Siberia vorranno passar l’inverno a Nizza? E se tutti
vorranno mangiare pernici e bere vino del Chianti? E chi farà il
minatore o il marinaio? E chi vuoterà i cessi? E i malati saranno
assistiti a domicilio o all’ospedale? E chi stabilirà l’orario delle
ferrovie? E come si farà se a un macchinista vengan le coliche mentre
il treno sta in marcia?… E così di seguito fino a pretendere che
noi possedessimo tutta la scienza e l’esperienza di là da venire, e
che, in nome dell’anarchia, prescrivessimo agli uomini futuri a che
ora debbono andare a letto, e quali giorni si debbono tagliare i
calli.
Veramente se i nostri lettori aspettano da noi una risposta a queste
domande, o almeno a quelle tra esse che sono veramente serie ed
importanti, che sia più che la nostra opinione personale di questo
momento, vuol dire che siamo mal riusciti nel nostro scopo di spiegar
loro che cosa è l’anarchia.
Noi non siamo più profeti degli altri: e se pretendessimo dare una
soluzione ufficiale a tutti i problemi che si presenteranno nella
vita della società futura, noi intenderemmo l’abolizione del governo
in un senso strano davvero. Noi ci dichiareremmo governo, e
prescriveremmo, a mò dei legislatori religiosi, un codice universale
pei presenti e pei futuri. Fortuna che, non avendo noi roghi e
prigioni per imporre la nostra Bibbia, l’umanità potrebbe ridere
impunemente di noi e delle nostre pretese! –
Noi ci preoccupiamo molto di tutti i problemi della vita sociale, e
per l’interesse della scienza e perché facciam conto di vedere
l’anarchia attuata e di concorrere come potremo all’autorizzazione
della nuova società. Abbiamo quindi le nostre soluzioni, che, secondo
i casi, ci appaiono definitive o transitorie e ne diremmo qui
qualche cosa, se non ce lo vietasse lo spazio. Ma il fatto che noi
oggi, coi dati che possediamo, pensiamo in un dato modo sopra una
data questione, non vuol dire è così che si farà in avvenire . Chi
può prevedere le attività che si svilupperanno nell’umanità quando
essa sarà emancipata dalla miseria e dall’oppressione, quando non vi
saranno più schiavi nè padroni, e la lotta contro gli altri uomini, e
gli odii ed i rancori che ne derivano, non saranno più una necessità
dell’esistenza? Chi può prevedere i progressi della scienza, i nuovi
mezzi di produzione, di comunicazione, ecc.?
L’essenziale è questo: che si costituisca una società in cui non sia
possibile lo sfruttamento e la dominazione delluomo sull’uomo; in cui
tutti abbiano la libera disposizione dei mezzi di esistenza, di
sviluppo e di lavoro, e tutti possano concorrere, come vogliono e
sanno allorganizzazione della vita sociale. In tale società tutto
sarà fatto necessariamente nel modo che meglio soddisfaccia ai
bisogni di tutti, date le cognizione e le possibilità del momento; e
tutto si trasformerà in meglio, a seconda che crescano le cognizioni
ed i mezzi.
In fondo, un programma che tocca le basi della costituzione sociale
non può far altro che indicare un metodo. Ed è il metodo quello che
soprattutto differenzia i partiti e determina la loro importanza
nella storia. A parte il metodo, tutti dicono di volere il bene degli
uomini e molti lo vogliono davvero; i partiti spariscono e con essi
sparisce ogni azione organizzata e diretta ad un fine determinato.
Bisogna dunque soprattutto considerare l’anarchia come un metodo.
I metodi dai quali i diversi partiti, non anarchici, si aspettano e
dicono di aspettarsi, il maggior bene di ciascuno e di tutti, si
possono ridurre a due, quello autoritario e quello così detto
liberale. Il primo, affida a pochi la direzione della vita sociale e
mette capo allo sfruttamento ed all’oppressione della massa da parte
di pochi. Il secondo s’affida alla libera iniziativa degli individui
e proclama, se non l’abolizione, la riduzione del governo al minimo
di attribuzioni possibile però siccome rispetta la proprietà
individuale ed è tutto fondato sul principio del ciascun per sè e
quindi della concorrenza fra gli uomini, la sua libertà non è che la
libertà dei forti, pei proprietari, di opprimere e sfruttare i
deboli, quelli che non hanno nulla; e, lungi dai produrre l’armonia,
tende ad aumentare sempre più la distanza tra i ricchi ed i poveri, e
mette capo esso pure allo sfruttamento ed alla dominazione cioè
all’autorità. Questo secondo metodo, cioè il liberalismo in teoria è
una specie di anarchia senza socialismo, e perciò non è che una
menzogna, poichè la libertà non è possibile senza l’eguaglianza, e
l’anarchia vera non può esistere fuori della solidarietà, fuori del
socialismo. La critica che i liberali fanno del governo, si riduce a
volergli levare un certo numero di attribuzioni e chiamare i
capitalisti a contendersele, ma non può attaccare le funzioni
repressive che formano la sua essenza; poichè senza il gendarme il
proprietario non potrebbe esistere, e anzi la forza repressiva del
governo deve sempre crescere, a misura che crescono per opera della
libera concorrenza la disarmonia e la disuguaglianza.
Gli anarchici presentano un metodo nuovo; l’iniziativa libera di
tutti ed il libero patto, dopo che, abolita rivoluzionariamente la
proprietà individuale, tutti sono stati messi in condizione eguale di
poter disporre delle ricchezze sociali. Questo metodo, non lasciando
adito alla ricostituzione della proprietà individuale, deve condurre,
per la via della libera associazione, al trionfo completo del
principio di solidarietà.
Così considerate le cose, si vede che tutti i problemi che si mettono
avanti per combattere le idee anarchiche, sono invece un argomento in
favore dell’anarchia, questa perchè sola indica la via per la quale
essi possono trovare sperimentalmente quella soluzione che
corrisponde meglio ai dettami della scienza ed ai bisogni ed ai
sentimenti di tutti.
Come si educheranno i bambini? Non lo sappiamo. E poi? I genitori, i
pedagogisti, e tutti coloro che sinteressano alle sorti delle nuove
generazioni, si riuniranno, discuteranno, s accorderanno o si
divideranno in diverse opinioni, e metteranno in pratica i metodi che
crederanno i migliori. E colla pratica quel metodo, che davvero è
migliore, finirà coi trionfare.
E così per tutti i problemi che si presenteranno.
Risulta da quello che abbiamo detto finora, che l’anarchia, quale
l’intende il partito anarchico,
e quale solo può essere intesa, è basata sul socialismo. Anzi se non
fossero quelle scuole socialiste, che scindono artificiosamente
l’unità naturale della questione sociale e ne considerano solo
qualche parte staccata, e se non fossero gli equivoci coi quali si
cerca di intralciare la via alla rivoluzione sociale, noi potremmo
dire addirittura che anarchia è sinonimo di socialismo, poichè l’una
e l’altro significano l’abolizione della dominazione e dello
sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sia che vengano esercitati mediante
la forza della baionette sia mediante l’accaparramento dei mezzi di
vivere.
L’anarchia, al pari del socialismo, ha per base per punto di
partenza, per ambiente necessario l’eguaglianza di condizioni; ha per
faro la solidarietà; e per metodo la libertà. Essa non è la
perfezione, essa non è l’ideale assoluto che, come l’orizzonte, si
allontana sempre a seconda che ci avanziamo; ma è la via aperta a
tutti i progressi. a tutti i perfezionamenti, fatti nell’interesse di
tutti.
Assodato che l’anarchia è il modo di convivenza sociale che solo
lascia aperta la via al raggiungimento del maggior bene possibile
degli uomini, poiché essa sola distrugge ogni classe interessata a
tenere oppressa e misera la massa; assodato che l’anarchia è
possibile e poichè in realtà non fa che sbarazzare l’umanità di un
ostacolo, il governo, contro cui ha dovuto sempre lottare per
avanzare nel suo penoso cammino, gli autoritarii si ritirano nelle
loro ultime trincee; dove sono rinforzati da molti che pur essendo
caldi amatori di libertà e di giustizia, han paura della libertà, e
non sanno decidersi ad immaginare un’umanità che viva e cammini senza
tutori e senza pastori, e, incalzati dalla verità, domandano
pietosamente che si rimetta la cosa al più tardi, al più tardi
possibile.
Ecco la sostanza dagli argomenti che in questo punto della
discussione ci vengono opposti.
Questa società senza governo, che si regge per mezzo della
cooperazione libera e volontaria; questa società, che s’affida in
tutto all’azione spontanea dagli interessi ed è tutta fondata sulla
solidarietà e sullamore, è certamente, essi dicono, un ideale
bellissimo ma, come tutti gli ideali, sta nelle nuvole. Noi ci
troviamo in una umanità che ha sempre vissuto divisa in oppressi ed
oppressori; e se questi sono pieni dello spirito di dominazione ed
hanno tutti i vizii dei tiranni, quelli sono rotti al servilismo ed
hanno i vizii anche peggiori che produce la schiavitù. Il sentimento
della solidarietà è lungi dallessere dominante tra gli uomini
attuali, e se è vero che gli uomini sono e diventano sempre pié
solidali tra loro, è anche vero che quello che più si vede e più
lascia l’impronta sul carattere umano è la lotta per l’esistenza, che
ciascuno combatte quotidianamente contro tutti, è la concorrenza che
incalza tutti, operai e padroni, e fa che ogni uomo diventi il lupo
dell’altruomo. Come mai potranno questi uomini, educati, in una
società basata sull’antagonismo delle classi e degli individui,
trasformarsi d’un tratto e divenire capaci di vivere in una società
in cui ciascuno farà quel che vorrà, e dovrà, senza coercizione
esterna, per impulso della propria natura, volere il bene degli
altri? E con che coraggio, con che semino affidereste voi le sorti
della rivoluzione, le sorti della umanità, ad una turba ignorante,
anemizzata dalla miseria, abbrutita dal prete, che oggi sarà
stupidamente sanguinaria, e domani si farà goffamente raggirare da un
furbo, o piegherà servilmente il collo sotto il calcagno del primo
uomo d’armi che oserà farsi padrone? Non sarà più prudente avviarsi
all’ideale anarchico passando per una repubblica democratica o
socialista? Non sarà necessario un governo educatore, composto dei
migliori, per preparare le generazioni ai destini futuri?
Anche queste obiezioni non avrebbero ragion di essere se noi fossimo
riusciti a farci capire ed a convincere i lettori in quello che
abbiamo detto più avanti; ma in ogni modo, anche a costo di doverci
ripetere, sarà bene rispondervi.
Noi ci troviamo sempre di fronte al pregiudizio che il governo sia
una forza nuova, sorta non si sa di dove, che aggiunga per se stesso
qualche cosa alla somma delle forze e delle capacità di coloro che lo
compongono e di coloro che gli ubbidiscono. Invece tutto ciò che si
fa nell’umanità, si fa dagli uomini; ed il governo, come governo, non
ci mette di suo che la tendenza a far di tutto un monopolio a favore
di un dato partito o di una data classe, e la resistenza contro ogni
iniziativa che sorge fuori della sua consorteria.
Abolire l’autorità, abolire il governo non significa distruggere le
forze individuali e collettive che agiscono nell’umanità, ne le
influenze che gli uomini esercitano a vicenda gli uni su gli
altri:questo sarebbe ridurre l’umanità allo stato di ammasso di atomi
staccati ed inerti, cosa che è impossibile, e che, se mai fosse
possibile, sarebbe la distruzione di ogni società, la morte
dell’umanità.
Abolire l’autorità, significa abolire il monopolio della forza e
dell’influenza; significa abolire quello stato di cose per cui la
forza sociale, cioè la forza di tutti, è stata strumento del
pensiero, della volontà, degli interessi di un piccolo numero di
individui, i quali mediante la forza di tutti, sopprimono, a
vantaggio proprio e delle proprie idee, la libertà di ciascuno;
significa distruggere un modo di organizzazione sociale col quale
l’avvenire resta accaparrato, tra una rivoluzione e l’altra, a
profitto di coloro che sono stati i vincitori di un momento.
Michele Bakounine in uno scritto pubblicato nel 1872, dopo aver detto
che i grandi mezzi d’azione dell’Internazionale erano la propaganda
delle sue idee e l’organizzazione dell’azione naturale dei suoi
membri sulle masse, aggiunge:
” A chiunque pretendesse che un’azione così organizzata sarebbe un
attentato contro la libertà delle masse, un tentativo di creare un
nuovo potere autoritario, noi risponderemmo ch’egli non è che un
sofista ed uno sciocco. Tanto peggio per quelli che ignorano la legge
naturale e sociale della solidarietà umana, al punto da immaginare
che un’assoluta indipendenza mutua degli individui e delle masse sia
una cosa possibile, o almeno desiderabile. Desiderarla significa
volere la distruzione della società, poichè tutta la vita sociale non
è altra cosa che questa indipendenza mutua, incessante degli
individui e delle masse. Tutti gli individui, siano pure i più
intelligenti ed i più forti anzi soprattutto i più intelligenti ed i
più forti ne sono, in ogni istante della loro vita, nello stesso
tempo i produttori ed i prodotti. La stessa libertà di ogni individuo
non è che la risultante, riprodotta continuamente. di questa massa
d’influenze materiali, intellettuali e morali, esercitate sopra di
lui da tutti gli individui che lo circondano dalla società in mezzo a
cui egli nasce, si sviluppa e muore. Volere sfuggire a questa
influenza, in nome di una libertà trascendentale, divina,
assolutamente egoista e bastante a se stessa, è la tendenze al non
essere; volere rinunziare ad esercitarla sugli altri, significa
rinunciare ad ogni azione sociale, all’espressione perfino dei suoi
pensieri e dei suoi sentimenti, e si risolve pure nel nonessere
Questa indipendenza, tanto vantata dagli idealisti e dai metafisici,
e la libertà individuale, concepita in questo senso, sono dunque il
niente.
” Nella natura, come nella società umana, che non è altra cosa che
questa stessa natura, tutto ciò che vive, non vive che alla
condizione suprema di intervenire, nel modo più positivo e tanto
potentemente quanto lo comporta la sua natura, nella vita degli
altri. L’adozione di questa influenza mutua sarebbe la morte. E
quando noi rivendichiamo la libertà delle masse, non pretendiamo per
nulla abolire nessuna delle influenze naturali che individui o gruppi
di individui esercitano su di esse: ciò che noi vogliamo è
l’abolizione delle influenze artificiali, privilegiate, legali,
ufficiali “.
Certamente, nello stato attuale dell’umanità, quando la grande
maggioranza degli uomini, oppressa dalla miseria ed istupidita dalla
superstizione, giace nell’abbiezione, le sorti umane dipendono
dall’azione di un numero relativamente scarso d’individui ;
certamente non si potrà da un momento allaltro far sì che tutti gli
uomini si elevino al punto da sentire il dovere, anzi il piacere di
regolare tutte le proprie azioni in modo che ne derivi agli altri il
maggior bene possibile. Ma se oggi le forze pensanti e dirigenti
dell’umanità sono scarse, non è una ragione per paralizzarne ancora
una parte e per sottoporne molte ad alcune di esse. Non è una ragione
per costituire la società in modo che, grazie all’inerzia che
producono le posizioni assicurate, grazie alla eredità, al
protezionismo, allo spirito di corpo, ed a tutta quanta la meccanica
governativa, le forze più vive e le capacità più reali finiscono col
trovarsi fuori del governo e quasi prive d’influenza sulla vita
sociale; e quelle che giungono al governo, trovandosi spostate dal
loro ambiente, ed interessate anzitutto a restare al potere, perdano
ogni potenza di fare e solo servano di ostacolo agli altri.
Abolita questa potenza negativa che è il governo, la società sarà
quello che potrà essere, ma tutto quello che potrà essere, dato le
forze e le capacità del momento. Se vi saranno uomini istruiti e
desiderosi di spandere listruzione, essi organizzeranno le scuole e
si sforzeranno per far sentire a tutti lutile ed il piacere
distruirsi. E se questi uomini non vi fossero o fossero pochi, un
governo non potrebbe crearli; solo potrebbe, come infatti avviene
oggi, prendere quei pochi, sottrarli al lavoro fecondo, metterli a
redigere regolamenti che bisogna imporre coi poliziotti, e da
insegnanti intelligenti e passionati farne degli uomini politici,
cioè degli inutili parassiti, tutti preoccupati d’imporre le loro
fisime e di mantenersi al potere .
Se vi saranno medici ed igienisti ,essi organizzeranno il servizio di
sanità. E se non vi fossero,il governo non potrebbe crearli; solo
potrebbe ,per il sospetto,tropo giustificato, che il popolo ha contro
tutto ciò che viene imposto,levar credito ai medici esistenti,e farli
massacrare come avvelenatori quando vanno a curare i colerosi. Se vi
sono ingegneri, macchinisti, ecc. organizzeranno le ferrovie. E se
non vi fossero, ancora una volta il governo non potrebbe crearli.
La rivoluzione, abolendo il governo e la proprietà individuale, non
creerà forze che non esistono; ma lascerà libero campo
all’esplicazione di tutte le forze, di tutte le capacità esistenti,
distruggerà ogni classe interessata a mantenere le masse
nell’abbrutimento, e farà in modo che ognuno potrà agire ed influire
in proporzione della sua capacità, e conformemente alle sue passioni
ed ai suoi interessi.
E questa è la sola via per la quale le masse possano elevarsi, poichè
è solo colla libertà che uno seduca ad esser libero, come è solo
lavorando che uno può imparare a lavorare. un governo. quando non
avesse altri inconvenienti, avrebbe sempre quello di abituare i
governati alla soggezione, e di tendere a diventare sempre più
opprimente e farsi sempre più necessario.
D’altronde, se si vuole un governo che debba educare le masse ed
avviarle all’anarchia, bisogna pure indicare quale sarà l’origine, il
modo di formazione di questo governo.
Sarà la dittatura dei migliori? Ma chi sono i migliori? E chi
riconoscerà loro questa qualità? . La maggioranza sta d’ordinario
attaccata a vecchi pregiudizii, ed ha idee ed istinti già sorpassati
da una minoranza meglio favorita; ma fra le mille minoranze che tutte
credono di aver ragione, e tutte possono averla in qualche parte, da
chi e con qual criterio si sceglierà, per mettere la forza sociale a
disposizione di una di esse, quando solo l’avvenire può decidere fra
le parti in litigio? Se pigliate cento partigiani intelligenti della
dittatura, voi scoprirete che ciascuno di loro crede che egli
dovrebbe, se non essere proprio il dittatore, o uno dei dittatori,
almeno trovarsi molto vicino alla dittatura. Dunque dittatori
sarebbero coloro che, per una via o per un’altra, riuscissero ad
imporsi; e, coi tempi che corrono, si può esser sicuri che tutte le
loro forze sarebbero impiegate nella lotta per difendersi contro gli
attacchi degli avversarii, lasciando in dimenticanza ogni velleità
educatrice, se mai ne avessero avute.
Sarà invece un governo eletto a suffragio universale, e quindi
l’emanazione più o meno sincera del volere della maggioranza? Ma se
voi considerate questi bravi elettori come incapaci di provvedere da
loro stessi ai propri interessi, come mai essi sapranno scegliersi i
pastori che debbono guidarli e come potranno risolvere questo
problema di alchimia sociale, di far uscire l’elezione di un genio
dal voto di una massa di imbecilli? E che ne sarà delle minoranze che
pur sono la parte più intelligente, più attiva, pié avanzata di una
società?
Per risolvere il problema sociale a favore di tutti non vi è che un
mezzo: scacciare rivoluzionariamente i detentori della ricchezza
sociale, mettere tutto a disposizione di tutti, e lasciare che tutte
le forze, tutte le capacità, tutte le buone volontà esistenti fra gli
uomini agiscano per provvedere ai bisogni di tutti.
Noi combattiamo per l’anarchia e per il socialismo, perchè crediamo
che l’anarchia ed il socialismo si debbano attuare subito, vale a
dire che si deve nell’atto stesso della rivoluzione scacciare il
governo, abolire la proprietà ed affidare i servizi pubblici, che in
quel caso abbracceranno tutta la vita sociale, all’opera spontanea,
libera, non ufficiale, non autorizzata di tutti gli interessati e di
tutti i volenterosi.
Vi saranno certamente difficoltà ed inconvenienti; ma essi saranno
risoluti, e solo potranno risolversi anarchicamente, cioè mediante
l’opera diretta degli interessati ed i liberi patti.
Noi non sappiamo se alla prossima rivoluzione trionferanno l’anarchia
ed il socialismo; ma certamente se dei programmi cosiddetti di
transazione trionferanno, sarà perchè noi, per questa volta, saremo
stati vinti, e mai perchè avremo creduto utile lasciare in vita una
parte del mal sistema, sotto cui geme l’umanità.
In ogni modo avremo sugli avvenimenti quell’influenza che ci verrà
dal nostro numero, dalla nostra energia, dalla nostra intelligenza e
dalla nostra intransigenza. Anche se sarem vinti, la nostra opera non
sarà stata inutile, poichè più saremo stati decisi a raggiungere
l’attuazione di tutto il nostro programma, e meno proprietà e meno
governo vi sarà nella nuova società. E avremo fatto opera grande,
perchè il progresso umano si misura appunto dalla diminuzione del
governo e dalla diminuzione della proprietà privata.
E se oggi cadremo senza piegar bandiera, possiamo esser sicuri della
vittoria di domani.