Anarchismo natalizio?

 

La tendenza a interpretare la memoria della strategia della tensione come una semplice commemorazione che sempre più spesso degrada, sarà perché è dicembre, nelle festività natalizie, e che sempre più spesso descrive gli anarchici milanesi, Pinelli compreso, cone la caricatura di loro stessi, rende necessario ricordare un fatto scomodo per troppi e troppe.
Il rapimento del viceconsole spagnolo Elias.

Leggete questo articolo tratto da A-Riivista anarchica del 1977.

Un invito a pranzo con pistola
di P. F.

Il primo rapimento politico in Italia.
Il rapimento del Viceconsole spagnolo Isu Elias effettuato da quattro giovani libertari nel 1962, si concluse con un grosso processo politico e in un atto d’accusa contro il regime franchista. Uno dei primi esempi di azione diretta contro la repressione statale.

La mattina del 28 settembre 1962 il vice-console spagnolo a Milano, Isu Elias, ricevette una telefonata della quale probabilmente non si è scordato fino alla sua morte avvenuta nel mese di luglio di quest’anno: era il segretario del vice-sindaco di Milano, il democristiano Luigi Meda, che lo invitava ad un pranzo di lavoro al ristorante “La giarrettiera”, in galleria.

Per evitare a Sua Eccellenza il vice-console le difficoltà connesse con l’intenso traffico del centro cittadino, il segretario di Meda si offriva di andare lui stesso a prendere il vice-console per condurlo al ristorante. Concordato l’appuntamento per mezzogiorno, la telefonata si concluse.

All’orario previsto, il segretario del vice-sindaco si presentò puntuale al consolato ed accompagnò Sua Eccellenza all’automobile che aspettava sotto con il motore acceso: alla guida, un giovane autista con tanto di berretto scuro. Dopo che Isu Elias fu accomodato sul sedile posteriore, con il segretario di Meda al suo fianco, due giovani si introdussero all’improvviso nell’auto, prendendo posto uno al fianco del vice-console ed uno accanto all’autista. Le due pistole che Isu Elias si trovò puntate contro lo dissuasero subito da qualsiasi reazione e gli fecero capire che quel giorno almeno non avrebbe mangiato al ristorante “La giarrettiera”.

L’autista con il berretto scuro, il segretario del vice-sindaco e i due giovani balzati all’ultimo momento sull’auto altri non erano che quattro giovani libertari milanesi, adeguatamente travestiti per l’occasione. Un’occasione davvero storica, dal momento che quello di Isu Elias è stato il primo sequestro politico dell’epoca moderna, seguito – nel 1965 – da quello del diplomatico spagnolo monsignor Ussia (sempre per opera di un gruppo anarchico) e quindi dalla miriade di sequestri effettuati in ogni parte del mondo nell’ultimo decennio, dai Tupamaros alle Brigate Rosse. Il sequestro di Isu Elias ebbe un’eco immediata e vastissima sui quotidiani e permise ai rapitori di raggiungere il loro scopo: quello di evitare l’assassinio del giovane anarchico catalano Jorge Conill Valls, condannato a morte dal tribunale di Barcellona perché ritenuto colpevole di alcuni attentati dimostrativi.

Per ricostruire quel fatto ed il contesto nel quale avvenne eccomi a colloquio con Amedeo Bertolo, uno dei quattro rapitori del vice-console – l’unico ad essere rimasto ininterrottamente attivo militante del movimento anarchico, al quale aveva aderito nel 1960 (In particolare Bertolo è stato tra i “fondatori” della nostra rivista, del cui collettivo redazionale ha fatto parte sino alla fine del ’74. Si occupa attualmente, tra le altre cose, delle Edizioni Antistato e del Centro Studi Libertari “Pinelli”.).

A quell’epoca le attività anarchiche erano molto ridotte, soprattutto a Milano: non vi era neppure una sede propria e le riunioni, rare e scarsamente affollate, si tenevano in un locale concesso dai socialisti. Si era andato coagulando un gruppetto di giovani simpatizzanti, che diffondeva la stampa anarchica, distribuiva volantini e cercava di essere presente nelle lotte sociali. Una particolare attenzione veniva dedicata alla lotta clandestina condotta dagli anarchici spagnoli contro il regime di Franco: la tematica spagnola ha sempre costituito, fino ai giorni nostri, una questione particolarmente importante per gli anarchici italiani, per un intreccio di ragioni storiche e politiche.

Per dimostrare concretamente ai compagni spagnoli la loro solidarietà, Amedeo Bertolo, Vittorio De Tassis e Luigi Gerli si recano nell’estate del ’62 in Spagna, a bordo di due motociclette. Dopo aver preso contatti in Francia con gruppi di esuli spagnoli, i tre girarono la Spagna toccando i centri principali e rifornendo i locali gruppi clandestini di materiale propagandistico. Sul mio “galletto” – ricorda Bertolo – avevo un ciclostile mascherato da cassetta da pittore: nei tubi da pittore c’era inchiostro da ciclostile, nella cassetta invece c’era un telaio che serviva a serigrafare col rullino. Con questa attrezzatura mi fermavo nelle città previste, alloggiavo presso un albergo, ciclostilavo volantini ed altro materiale propagandistico che poi consegnavo al contatto locale, quindi cambiavo città. Gli altri due compagni fecero insieme un altro percorso, indipendente dal mio. Ci ritrovammo infine a Barcellona, dove ebbimo l’occasione di conoscere vari compagni, tra i quali Jorge Conill Valls, Antonio Mur Peiron e Jimenéz Cubas: com’è naturale in simili particolari situazioni, a cementare la solidarietà politica sorse tra noi un’intensa fraterna amicizia.

Un mese circa dopo il loro rientro in Italia, i giovani anarchici milanesi vengono a conoscenza – tramite un trafiletto apparso a Parigi su Le Monde e loro inviato da alcuni compagni – che contro Conill Valls, Mur Peiron e Jimenéz Cubas è in corso un processo politico: sono accusati di essere gli autori di alcuni attentati dimostrativi contro monumenti e simboli del regime, che non hanno provocato alcun danno ad essere umano. Per reati di questo tipo la condanna a morte è facilmente prevedibile, nella Spagna del cattolicissimo Francisco Franco. Bertolo e compagni si muovono subito: convocano una riunione cittadina con i rappresentanti di tutte le forze giovanili della sinistra (socialisti, repubblicani, comunisti, ecc.) e stilano un comunicato di protesta e di denuncia che viene ignorato dalla stampa quotidiana.

Nel contempo, tramite alcune loro conoscenze nel mondo della sinistra cattolica, riescono a mettersi indirettamente in contatto con l’arcivescovo di Milano Giovambattista Montini (l’attuale papa), per spingerlo a prendere posizione contro la possibile condanna a morte dei giovani anarchici catalani. L’arcivescovo fa sapere che la cosa non lo riguarda: lui è uomo di chiesa, non può certo interessarsi di vicende politiche.

Visti cadere nel vuoto i loro tentativi ufficiali e legali, i giovani anarchici decidono di passare ad altre più efficaci forme di pressione. Ripresi i contatti con alcuni giovani socialisti dissidenti veronesi (tra i quali il futuro editore Giorgio Bertani, allora ventenne commesso di libreria) con i quali hanno avuto occasione di collaborare sempre sul terreno delle attività anti-franchiste, si procurano delle armi e preparano in tutti i suoi aspetti il rapimento del console spagnolo a Milano: l’intenzione è di tenerlo sequestrato fino alla certezza della salvezza per i compagni catalani. Mentre ci stavamo dando da fare – dice Bertolo – apprendemmo da un piccolo trafiletto sul “Corriere della Sera” che Conill Valls era stato condannato a morte, mentre agli altri due erano stati dati trent’anni di galera a testa. Mancava, secondo la prassi giuridica spagnola, la conferma della condanna a morte da parte del governatore militare della regione di Barcellona. Non c’era tempo da perdere: decidemmo così di dare immediata attuazione al piano di sequestro.

Passato da poco il mezzogiorno del 28 settembre, il vice-console spagnolo a Milano viene sequestrato con le modalità descritte all’inizio: entra così, involontariamente, nella storia della lotta di liberazione antifranchista del popolo spagnolo. Un onore, questo, che gli verrà poi “rinfacciato” in sede processuale dai suoi stessi rapitori e del quale probabilmente il diplomatico avrebbe volentieri fatto a meno: ma la momentanea assenza da Milano del suo diretto superiore aveva costretto i giovani rapitori a “ripiegare” sul suo vice.

Con gli occhi bendati e due pistole per ricordargli che non si trattava di uno scherzo, Isu Elias viene condotto – dopo qualche ora di viaggio ininterrotto al fine di disorientarlo – in una cascina nel Varesotto, dove rimane custodito per tre giorni, sotto il costante controllo di almeno uno dei suoi rapitori. Le ragioni del sequestro gli vengono spiegate chiaramente: Isu Elias sa che la sua sorte dipende dall’atto di clemenza che il suo regime può concedere o negare. Nel corso della prigionia viene trattato bene, senza violenza: riceve da bere e da mangiare, può anche scrivere una lettera ai suoi familiari per rassicurarli.

Nel frattempo viene spedito dall’aeroporto di Parigi-Orly un comunicato, firmato da una “Federazione Internazionale della Gioventù Libertaria”, nel quale si rivendica il sequestro e se ne spiega il perché. La sera, però, i giornali non lo pubblicano, dato che è arrivato troppo tardi per essere inserito in stampa; si limitano così a riportare la notizia che il vice-console spagnolo a Milano è irreperibile. È stata la famiglia, che lo attendeva a pranzo, ad allarmarsi e a chiedere informazioni al consolato: qui suoi parenti vengono informati dell’invito a pranzo del vice-sindaco Meda: il quale, interpellato, nega naturalmente il fatto. La questione si va chiarendo e l’arrivo del comunicato spedito dalla Francia non lascia più dubbi. L’indomani mattina i quotidiani riportano in prima pagina la notizia del sequestro e ventilano l’ipotesi di un’azione effettuata da anarchici spagnoli.

Finalmente, dopo la certezza del rapimento e la chiarificazione delle sue motivazioni (innanzitutto, la salvezza della vita di Jorge Conill Valls), i movimenti giovanili dei partiti di sinistra indicono delle manifestazioni antifranchiste davanti al consolato spagnolo (allora – ricorda Bertolo – una manifestazione, quando andava bene, non raccoglieva più di un centinaio di persone). Perfino il cardinale Montini, che prima del sequestro non aveva voluto abbassarsi ad occuparsi della questione, invia sollecitamente un telegramma al cattolicissimo dittatore Franco ricordandogli che un capo di stato cattolico non si deve macchiare di sangue e lo invita ad accordare la sua clemenza al giovane catalano condannato a morte.

Nel giro di due giorni arriva la notizia che il governatore militare della regione di Barcellona ha rifiutato di sottoscrivere la condanna a morte e l’ha commutata nella pena di 30 anni di detenzione; gli altri due imputati, precedentemente condannati a 30 anni, vedono la loro condanna ridotta di un terzo.

A questo punto – dice Bertolo – decidemmo di liberare il nostro ostaggio. In un primo momento si era pensato di rilasciarlo direttamente a Ginevra, nella sede della Società delle Nazioni (ed era già stato messo a punto un piano operativo, con la collaborazione di alcuni compagni spagnoli), in modo da aggiungere un altro elemento clamoroso di cui servirci nella nostra lotta antifranchista. Ma per ragioni di ordine tecnico fummo costretti ad una soluzione di ripiego, costrettivi anche dal fatto che in giro si cominciava a sapere troppe cose intorno al sequestro e, di conseguenza, ai suoi autori. Questo perché il gruppo dei socialisti veronesi si era confidato eccessivamente con un avvocato dapprima e quindi con dei giornalisti del quotidiano paracomunista “Stasera”. Il rischio era troppo grosso: in fretta e furia fummo costretti ad organizzare il rilascio. Ma anche questo piano saltò perché l’arrivo alla baita mio e di un redattore de “Il Giorno” fu preceduto da quello di un altro giornalista, al quale il compagno di guardia consegnò il vice-console credendo trattarsi del “contatto” giusto. Era mezzanotte e quando si avvide dell’errore era troppo tardi. Nel breve volgere di qualche ora eravamo tutti latitanti: il vice-console, nel frattempo, raggiungeva con il giornalista Milano e si recava in questura.

Nell’arco di una quindicina di giorni i rapitori vengono tutti presi, meno Bertolo che, grazie all’aiuto dei compagni si rifugia in Francia, fino all’inizio del processo (che si tiene dopo un mese e mezzo). Il giorno prima del processo Bertolo fa pervenire alla stampa una dichiarazione in cui preannuncia che si costituirà in aula. La polizia ed i carabinieri, che lo ricercano instancabilmente, organizzano un vasto “cordone sanitario” intorno alla città di Varese, dove si svolge il processo. Eludendo l’ampio spiegamento delle forze dell’ordine, Bertolo mantiene fede al suo impegno e riesce addirittura ad entrare nell’aula in cui si svolge il processo senza essere riconosciuto e fermato dai carabinieri.

Con un certo gusto spettacolare – ricorda Bertolo – riuscii ad arrivare fino in aula, camuffato da ragazzo d’ufficio dell’avvocato Dall’Ora: questi, appena iniziato il processo, si rivolse ai giudici annunciando la mia costituzione.

Il processo ha una vasta eco sulla stampa quotidiana e si trasforma in un processo contro il regime franchista: vengono ammessi a testimoniare anche delle personalità italiane e straniere che denunciano le brutalità e le violenze del regime spagnolo. La stampa, meno quella reazionaria, non si accanisce contro i giovani rapitori ed anzi, in vari casi, ne sottolinea l’idealismo e la generosità. Lo stesso pubblico ministero chiede condanne relativamente miti (di poco superiori ad un anno di galera), che i giudici ridimensionano ulteriormente riconoscendo come attenuante per gli imputati il fatto di aver agito per “motivi di particolare valore morale e sociale”. Una formula, questa, che per la prima volta veniva usata in un processo politico e che fino ad allora era servita solo nelle cause per delitti d’onore. Con la condanna a sette mesi dei principali imputati, con la condizionale, la non iscrizione e la conseguente immediata scarcerazione, il caso Elias può dirsi concluso.

Una condanna indubbiamente lieve: perché? Innanzitutto si trattava del primo rapimento per scopi politici. In secondo luogo giocò a nostro favore il buon trattamento ricevuto (e ampiamente riconosciuto) dal sequestrato. Infine è necessario tener presente il contesto politico di allora: il centro-sinistra era alle porte e la DC sentiva l’esigenza di dare continue prove del proprio “antifascismo” per accontentare i nuovi alleati socialisti. Un processo politico come il nostro non poteva non risentire di quel clima.

Chiedo a Bertolo quali furono allora le conseguenze del sequestro e del conseguente processo. Mi risponde citando innanzitutto la salvezza della vita di Conill Valls e la diminuzione delle pene per gli altri due anarchici catalani: tutti e tre oggigiorno sono liberi, grazie ad alcune amnistie intervenute nel frattempo. Un secondo effetto del sequestro fu il rilancio, non solo in Italia, dell’agitazione antifranchista; nelle settimane e nei mesi successivi si tennero numerose manifestazioni che contribuirono alla solidarietà internazionale antifranchista. In terzo luogo fu un momento di intensa propaganda anarchica, che vide rianimarsi il nostro movimento non solo a Milano, ma anche in molte altre località. Dopo il sequestro si andò formando a Milano il primo gruppo anarchico giovanile, premonitore di quella ripresa non solo quantitativa del movimento anarchico che continuerà lenta negli anni seguenti per poi scoppiare tumultuosa dopo la primavera del ’68.

Discorriamo per un po’ sulla validità e sull’efficacia di simili azioni anche in situazioni storiche parzialmente mutate, come l’attuale. Mentre parliamo diamo un occhiata ai quotidiani dell’epoca, ai lunghi articoli e resoconti del processo. Per caso ci capita sott’occhio un piccolo trafiletto, annunciante l’arresto in Spagna di un comunista, tale Julian Grimau. Anche lui fu condannato a morte per la sua attività antifranchista: ma, contrariamente a quanto accadde per Conill Valls, non fu attuato alcun sequestro per ottenere la sua salvezza. Qualche mese dopo Grimau veniva assassinato. Eppure, se qualcuno……

Storie di disertori russi e ucraini

Storie di disertori russi e ucraini.

L’altro esercito dei disertori. «I russi sono stanchi della guerra»

Dall’inizio delle operazioni in Ucraina, Get Lost ha aiutato oltre 400 persone a fuggire dall’incubo dei campi di battaglia. «Negli ultimi mesi abbiamo registrato una crescita delle richieste»

La fuga di Dmitrij Setrakov si è conclusa qualche settimana fa nella città di Gyumri, in Armenia. Il soldato russo aveva abbandonato la sua unità dopo tre mesi di servizio in Ucraina ed era scappato all’estero ma gli uomini del Cremlino l’hanno individuato e rimpatriato forzatamente in Russia dove lo attende un processo per diserzione. «È la prima volta che un disertore viene scoperto e rapito in un Paese terzo», spiega Grigorij Sverdlin, fondatore di Get Lost, un progetto di resistenza civica che aiuta i russi a sfuggire alla coscrizione e ad abbandonare il Paese. Con Setrakov non ci sono riusciti ma in molti altri casi hanno avuto miglior fortuna. Nel suo sito Internet l’organizzazione afferma di aver aiutato finora oltre 22mila persone a evitare l’arruolamento nell’esercito, fornendo loro assistenza legale e psicologica, aiutandole a varcare la frontiera e a ottenere asilo all’estero. Può contare su una rete di esperti fidati e su centinaia di volontari che comunicano con l’app di messaggistica Telegram e raccolgono donazioni attraverso Instagram. «Negli ultimi tre mesi dello scorso anno abbiamo registrato una crescita esponenziale delle richieste di aiuto da parte di soldati che intendono abbandonare i campi di battaglia», sostiene Sverdlin. Da ottobre a dicembre gli attivisti di Get Lost hanno ricevuto in totale 577 domande rispetto alle 305 del trimestre precedente.

Nella maggior parte dei casi a inviarle erano stati soldati che volevano disertare dopo essere stati feriti in battaglia e denunciavano il mancato avvicendamento delle truppe al fronte. Ma ci sono molti altri fattori che giustificano l’aumento delle richieste. «Innanzitutto il sostegno alla guerra non è mai stato così alto come la propaganda ha sempre cercato di farci credere», precisa ancora Sverdlin, che pochi giorni dopo l’inizio dell’attacco all’Ucraina ha lasciato la Russia trovando rifugio in Georgia e nella sua vita precedente lavorava in un’associazione che offriva assistenza ai senzatetto di Mosca e San Pietroburgo. «Certo, in un primo momento c’era un grande zelo patriottico ma adesso a prevalere sono la stanchezza e la delusione. Inoltre i prezzi salgono e le mogli dei coscritti cominciano a protestare. Poi ci sono molti ufficiali di carriera che non vogliono più combattere contro l’Ucraina ma non possono ritirarsi e allora scelgono di disertare. Infine, c’è chi è stato ingannato dopo essersi arruolato per motivi economici e credeva di dover prestare servizio solo per pochi mesi e lontano dal fronte, invece è stato mandato in prima linea e deve restarci a tempo indeterminato».
Dall’inizio della guerra in Ucraina, Get Lost ha aiutato oltre 400 persone a disertare, tra reclute, coscritti e soldati a contratto. Alcuni di essi hanno deciso di restare in Russia sebbene risultino nella lista dei ricercati. Tra le principali destinazioni dei soldati russi in fuga all’estero figurano il Kazakistan, la Turchia e la Georgia. «Siamo riusciti a portarne qualcuno anche nei paesi dell’UE passando attraverso l’Armenia e lo stesso Kazakistan. Nessuno di loro aveva un visto Schengen valido ma ad alcuni è stato concesso asilo politico. Purtroppo è assai più difficile ottenerlo per i disertori che per gli attivisti politici», conclude Sverdlin. «Ci battiamo da tempo contro la burocrazia europea su questo tema, cercando di garantire un percorso chiaro per la concessione dell’asilo ai disertori».

L’Ucraina è stanca della caccia alle reclute. Il fronte fa sempre più paura

Gli uomini fermati in strada, sui bus, al lavoro. Si moltiplicano i casi di diserzioni: 9mila i processi. Cresce il malcontento per i 500mila nuovi soldati, causa di attrito fra Zelensky e Zaluzhny

«Ragazzi, ma cosa state facendo? Non ce l’avete una coscienza?». La donna di mezz’età urla nell’autobus affollato che è stato appena fermato a Odessa. I destinatari della sua invettiva non sono teppisti o scippatori, ma due uomini in mimetica che stanno trascinando a forza un giovane fuori dal mezzo. A lui hanno appena chiesto i documenti, come mostra un video diventato virale sul web. Un gesto che provoca la reazione dei passeggeri. Perché tutti sanno che non si tratta di un controllo ordinario. Anche se non c’è scritto sulla divisa, i due agenti sono il volto di una sigla che negli ultimi mesi sta facendo tremare l’Ucraina: il Tcc. Acronimo sulla bocca di tutta la nazione che sta per “Centro di reclutamento territoriale”. È quella schiera indefinita di “buttadentro nell’esercito” che non sono né poliziotti né militari (ma spesso si tratta di ex soldati) e che hanno un compito: inviare gli uomini al fronte. Senza andare troppo per il sottile. Soprattutto quando una fetta sempre maggiore della popolazione non se la sente più di imbracciare un’arma e trovarsi in trincea.

È uno degli effetti della strategia di logoramento su cui punta la Russia a due anni dall’inizio della guerra. La stasi sui campi di battaglia, gli scarsi esiti della controffensiva lanciata a primavera, il numero crescente di morti al fronte, i terribili segnali di nuove avanzate russe, l’assenza di una prospettiva reale di riconquistare le regioni occupate, la corruzione che dilaga insieme con l’idea che i potenti sfuggano alla leva hanno spento l’entusiasmo di indossare la divisa. E si sta imponendo la «guerra dal salotto di casa», come alcuni generali l’hanno definita sulla stampa ucraina: il Paese sostiene l’esercito che lo sta difendendo, partecipa a collette per i soldati, acquista auto e droni da consegnare ai battaglioni, ma diventa sordo alla chiamata alle armi. Senza più nascondersi. «Nessuno dovrebbe essere obbligato a combattere. Avessi la possibilità, non lo permetterei», scrive il noto blogger Oleksandr Voloshy.

​Ad alimentare le tensioni contribuisce il giro di vite sulla “divisa imposta”: sia con le azioni aggressive dei reclutatori pubblici, sia con la nuova mobilitazione. E sono state proprio le future regole sulla coscrizione uno dei terreni di scontro fra il presidente Volodymyr Zelensky e il generale Valery Zaluzhny, il carismatico capo di Stato maggiore licenziato giovedì. Amato dall’opinione pubblica con oltre l’80% dei consensi, ma soprattutto nelle forze armate che reclamano innesti fra le fila dell’esercito, Zaluzhny è stato la mente della richiesta di 500mila nuovi uomini che il leader ucraino ha annunciato a dicembre. Una cifra che si è trasformata in incubo per la nazione quando ha fatto da base al progetto di legge presentato il giorno di Natale e firmato da Zaluzhny in persona. Disposizioni che sono state ritirate l’11 gennaio dopo la pioggia di critiche e i timori di incostituzionalità.

Risultato? Zelensky, per non finire nel tritacarne dell’impopolarità, ha cancellato ogni riferimento numerico dal pacchetto legislativo ripresentato in Parlamento e appena approvato in prima lettura. «Serve una legge completa ed equa», ha spiegato. E ha chiarito di non ritenere «necessaria la quota del mezzo milione. Non perché voglio compiacere qualcuno». Ma in questo modo il presidente è venuto incontro sia al malcontento della gente, sia alla rabbia delle aziende che, secondo la Confederazione dei datori di lavori, hanno perso 781mila uomini per la coscrizione e soffrono per l’assenza di personale specializzato inviato in trincea. «O si combatte o si lavora», ha sentenziato il capo dello Stato per placare gli animi. «La mobilitazione non piace agli elettori di Zelensky – dice il politologo Viktor Bobirenko -. Ma è una decisione inevitabile. Perciò il presidente intende farla passare non come una sua iniziativa».

Nella legge al vaglio della Camera la stretta rimane: età di ingaggio abbassata da 27 a 25 anni; tre mesi di addestramento per i ragazzi dai 18 ai 25 anni; la cartolina inviata anche per mail; donne medico o paramedico fra i possibili arruolati; ipotesi di far partire i detenuti. Ma non ci sarà un’altra opzione caldeggiata da Zaluzhny: la partenza degli “idonei parziali”, ossia quelli con disabilità e malattie. Poi la risposta a chi accusa i vertici militari di mandare subito in battaglia i neo-arrivati: l’addestramento durerà fra i due e i tre mesi. Non mancano i punti controversi. A cominciare dalle sanzioni per i disertori che si ritroveranno senza auto e soldi: infatti scatterà lo stop alla patente e ai conti correnti. Ma il commissario per i diritti, Dmytro Lubinets, fa sapere che «non possono essere le forze armate a limitare le libertà». E la stampa paventa che i possibili disertori trasferiranno soldi e proprietà ai parenti per aggirare il blocco economico. Poi c’è la rivolta dei dottorandi nelle università che hanno lanciato una petizione perché non saranno più esentati.

Sono 700mila i soldati che hanno bisogno di essere sostituiti. «E non ci sono più volontari», racconta Kum, militare che in due anni ha avuto solo 12 giorni di permesso. «Oggi il peso della guerra grava sui “nati nell’Unione Sovietica”, ossia sui 40-50enni – afferma l’ex comandante Yevhen Dykiy -. I giovani sabotano la mobilitazione». E fra i generali chi c’è vorrebbe che l’arruolamento scattasse già a 22 anni, ma anche che ci fosse il rimpatrio dei profughi all’estero. Le nuove norme bloccheranno i servizi consolari per i “fuggiaschi”. Però «l’evasione alla leva non è motivo di estradizione», ha comunicato la Germania. Più aperturiste Lettonia e Polonia che si dicono disponibili a «individuare le condizioni di rientro come forma di sostegno a Kiev».

Certo, la caccia ai “nuovi soldati” turba il Paese. Si viene fermati e precettati al ristorante, in fabbrica, in palestra. Anche sulle piste da sci della Transcarpazia. O alle frontiere dove sono comparsi posti di blocco per assoldare i conducenti: così è scattata le protesta dell’European Business Association che parla di «panico fra gli autotrasportatori» e di «commesse internazionali a rischio». Per sfuggire ai blitz sono state create reti clandestine che segnalano i movimenti degli agenti, come quella su Telegram con 20mila iscritti scoperta a Cherkasy che monitorava le indagini nei pub. I metodi dei Tcc sono finiti nel mirino. Lo testimonia la denuncia del cantante della band “Intermezzo”, Volodymyr Bilyk, che ha raccontato di essere stato rapito e picchiato in pieno giorno a Chernivtsi dai dipendenti del Tcc. E il blogger Andry Smoliy ha postato il filmato di un uomo costretto a salire su un’auto dei centri di reclutamento. Lo stesso Zelensky ha preso le distanze: «Nessuno dovrebbe essere catturato mentre è in giro».
Il «clima di terrore per le strade», almeno stando alle parole di un deputato, ha fatto scomparire gli uomini dai posti di lavoro e dai luoghi pubblici. Secondo il presidente della Commissione affari economici del Parlamento, Dmytro Natalukha, tre milioni di adulti «in età di leva» hanno fatto perdere le tracce: «Non sono all’estero, non studiano, non lavorano. Non abbiamo più informazioni su di loro». E si moltiplicano i casi di diserzione o mazzette per venire esonerati. Sono 9mila i procedimenti penali già aperti – che si potranno concludere con condanne fino a tre anni – cui si aggiungono 2mila denunce che arriveranno presto nei tribunali, stando ai dati del ministero dell’Interno. Come la vicenda di un giudice che ha aiutato più di mille persone a sottrarsi alla mobilitazione. O quella delle guardie di frontiera che hanno salvato dall’annegamento e poi arrestato un uomo che tentava di varcare il fiume Tibisco per raggiungere la Romania. Un fiume diventato cimitero: sono 19 i morti nelle sue acque pur di lasciarsi alle spalle la guerra e l’arruolamento.

Fonti

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/l-altro-esercito-quello-dei-disertori-i-russi

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/l-ucraina-e-stanca-della-caccia-alle-reclute-la-mobilitazione-fa-paura

La CGT è solidale con le popolazioni colpite dalla Dana della Comunità Valenciana e di Castilla La Mancha

Dalla CGT ( Spagna )

La CGT è solidale con le popolazioni colpite dalla Dana della Comunità Valenciana e di Castilla La Mancha


AnnunciUnioneSociale30/10/2024
Mentre siamo ancora immersi in una catastrofe di enorme portata che sta devastando una parte importante del territorio, in particolare la Comunità Valenciana e Castilla La Mancha, da CGT vogliamo esprimere:

Innanzitutto la nostra totale e incondizionata solidarietà alle vittime e alle loro famiglie. Al momento si parla già di numeri terribili di morti e dispersi e l’impressione è che questi dati possano peggiorare. Siamo con loro, con la loro gente, con i loro vicini della Comunità Valenciana, Murcia e Castilla La Mancha, soprattutto.
Il nostro pieno sostegno ai colleghi dei servizi di emergenza che agiscono nelle zone colpite, sappiamo della loro dedizione e generosità in queste circostanze; anche la loro dedizione in condizioni di lavoro molto difficili. Ancora una volta si rivela l’enorme valore che guida tanti lavoratori nella migliore espressione della loro attività professionale di servizio pubblico.
Naturalmente anche un abbraccio particolarmente forte e fraterno a tutti i colleghi del CGT delle zone colpite. Alla loro gente che è la nostra. A tutti coloro che lottano per un mondo migliore, dove ambientalismo e vivibilità siano condizioni ingiustificabili che orientano le nostre iniziative sociali e sindacali. Vale la pena ricordare che il modello di sviluppo capitalista è in gran parte responsabile di questa situazione.
Infine, la nostra condanna assoluta nei confronti di una classe politica che ha decimato i servizi essenziali per i cittadini, come fu all’epoca la soppressione dell’Unità di Emergenza Valenciana (UVE), o ne ha tenuti altri precari, come nel caso dei vigili del fuoco boschivi a Murcia. Anche a una classe imprenditoriale che ha costretto molti lavoratori a recarsi al lavoro nonostante fossero stati avvisati da giorni di un grande fenomeno meteorologico, come è avvenuto. Questo “allarme rosso” è diventato di banale importanza e dovremo vedere quanti decessi ci sono stati per essersi recati al lavoro nonostante gli avvertimenti.

Non dimentichiamolo: a nulla è valsa la consolazione della classe politica quando si sapeva che ciò poteva accadere.

Solidarietà alle vittime e alle persone colpite.

Solo le persone salvano le persone!

Fonte

https://cgt.org.es/cgt-se-solidariza-con-las-personas-afectadas-por-la-dana-del-pais-valencia-y-castilla-la-mancha/