«Il Pkk ha compiuto la sua missione»: fine della lotta armata

Da il manifesto

«Il Pkk ha compiuto la sua missione storica». Con queste parole, e con una dichiarazione che ha il peso di una cesura epocale, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha annunciato ieri lo scioglimento della sua struttura organizzativa e la fine della lotta armata. Dopo quarant’anni di conflitto con lo Stato turco, il partito fondato da Abdullah Öcalan chiude un ciclo e apre un nuovo fronte esclusivamente politico, civile, democratico.

IL 12° CONGRESSO – l’ultimo nella storia del Pkk – ha riunito 232 delegati «in condizioni di sicurezza nonostante le difficili circostanze, tra cui incessanti attacchi aerei e terrestri, l’accerchiamento delle nostre aree e un embargo continuo da parte del Partito Democratico del Kurdistan (Kdp)», si legge nel comunicato conclusivo del congresso. Tra loro, in prima fila, Cemil Bayik e Duran Kalkan, unici presenti ad aver partecipato al congresso di fondazione del partito, avvenuto il 27 novembre 1978 nel villaggio di Fis. In apertura dei lavori è stata annunciata la morte di due storiche figure del movimento, Ali Haydar Kaytan – anche lui tra i ventidue fondatori – e Rıza Altun, alle quali il congresso è stato dedicato.

IL PKK È STATO una delle espressioni più durature della lotta armata in Medio Oriente. Come quasi tutti i movimenti armati del suo tempo, la sua storia militare inizia nella valle della Bekaa, nel sud del Libano, dove il partito aveva trovato rifugio dopo il sanguinoso colpo di Stato militare del settembre 1980 in Turchia. Quando Israele lanciò la sua invasione su larga scala del Libano nel 1982, ai combattenti del Pkk fu assegnato dal quotidiano Serxwebun il titolo di «eroi del Castello di Beaufort», un forte risalente ai tempi delle Crociate, situato a meno di cinque chilometri dal confine israeliano, in cui i militanti curdi opposero una feroce e disperata resistenza. Due anni dopo, il 15 agosto 1984, l’esperienza maturata nella Bekaa venne messa in pratica nella prima azione armata del Pkk contro lo Stato turco, che diede inizio al conflitto terminato, almeno in teoria, con il 12° congresso.

Per oltre un decennio il Pkk ha sfidato lo Stato turco con l’obiettivo di gettare le basi per la fondazione di un Kurdistan socialista, sopravvivendo alla caduta del Muro di Berlino e allo sfaldamento del blocco socialista. Nel 1993, durante la fase più cruenta del conflitto, Öcalan lanciò la prima proposta di pace, accettata dall’allora presidente turco Turgut Özal, seguita da un cessate il fuoco unilaterale e incondizionato del Pkk. La morte di Özal, tuttavia, determinò la fine del primo, fragile tentativo di giungere a una soluzione politica per la questione curda.

DOPO LA CATTURA di Öcalan, avvenuta nel 1999 nel contesto di un viaggio alla ricerca di un paese europeo disposto a supportare un nuovo processo di pace, il movimento visse un periodo di ristrutturazione interna che portò, da un lato, all’abbandono di figure chiave del partito, tra cui il fratello minore di Abdullah Öcalan, Osman e, dall’altro, al «cambio di paradigma»: il passaggio da partito-guerriglia dedito alla fondazione di uno Stato socialista curdo a organizzazione decentrata, focalizzata sulla democratizzazione della regione secondo il paradigma del Confederalismo democratico, ideato in carcere proprio da Abdullah Öcalan. Un’ulteriore svolta arrivò nel 2013, quando un appello di Öcalan, non dissimile da quello del 27 febbraio scorso, portò al ritiro delle forze di guerriglia dalla Turchia.

In quel caso, il messaggio fu il risultato dei «colloqui di Oslo», iniziati nel 2007. Il cessate il fuoco bilaterale che ne conseguì, anche se breve, consentì al Pkk di concentrare i propri sforzi militari contro l’ascesa dello Stato islamico di Iraq e Siria, culminati nella vittoria di Kobane e il salvataggio degli ezidi intrappolati a Shengal nell’agosto 2014. Uno sforzo militare valso al partito una legittimità internazionale fino ad allora inedita, in cambio del sacrificio di migliaia di guerriglieri, tra cui alcuni dei comandanti più esperti.

Il passaggio sancito ieri rappresenta l’atto conclusivo di questa lunga transizione. Il Pkk si scioglie, ma lascia in eredità un’idea politica rinnovata, denominata nel comunicato finale «socialismo della società democratica»: una visione antigerarchica, femminista, ecologista e municipalista, che rifiuta tanto lo Stato-nazione quanto il socialismo statalista. La centralità del territorio, la parità di genere, la giustizia ecologica e la governance locale diventano i nuovi cardini.

UN’UTOPIA CONCRETA , già sperimentata nelle municipalità curde del sud-est della Turchia e nel nord-est della Siria, rispettivamente il nord e l’ovest del Kurdistan. Lo scioglimento del Pkk, inoltre, potrebbe aprire per l’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord-est l’opportunità di negoziare la sua posizione nella nuova Siria post-Assad da una migliore posizione, eliminando il principale fattore di legittimazione per le incursioni turche.

«Finora non c’è stato nessun accordo scritto o verbale tra il Pkk e lo Stato turco – ha detto Zagros Hiwa, portavoce del Pkk, al giornalista della Bbc Jiyar Gol – Quello che è avvenuto è una dichiarazione unilaterale di buona volontà da parte del Pkk, cui hanno fatto seguito dei passi concreti allo scopo di aprire la strada a una soluzione democratica della questione curda». Apparentemente, la sfida ora sarà passare da una «Turchia senza terrorismo», obiettivo dichiarato da Erdogan a una Turchia democratica.

«ORA È TEMPO che le altre parti interessate, in particolare lo Stato turco, prendano le necessarie misure politiche e legali verso una soluzione pacifica e democratica della questione curda – continua Hiwa – Quello che avverrà d’ora in poi dipende totalmente dalle misure legali e politiche adottate dallo Stato. Il leader Öcalan supervisionerà l’implementazione pratica di questo processo. Affinché sia in condizione di farlo, dovrebbe essere liberato dalla prigione e messo in condizione di lavorare liberamente in un ambiente sicuro».

Fonte

DALLA PARTE DEL SUOLO. L’ECOSISTEMA INVISIBILE – INCONTRO CON PAOLO PILERI

 

In uno strato sottilissimo di terra c’è la più alta densità vitale del pianeta. Il suolo è un ecosistema unico nel suo genere, di cui continuiamo a ignorare la bellezza. È anche quello più altruista, che permette di sopravvivere a tutto ciò che sta sopra. Eppure noi lo maltrattiamo, avveleniamo, distruggiamo. Per fermare al più presto il suo consumo, serve riscoprire la meraviglia sotto i nostri piedi. Tornare a prendersi cura della terra, per salvare noi stessi insieme a lei.

Presentazione con l’autore
giovedì 22 maggio alle 21:00

CIRCOLO ANARCHICO
PONTE DELLA GHISOLFA
VIALE MONZA 255 MILANO

 

Nostra patria è il mondo intero

Vi proponiamo un altro lavoro di ricostruzione storica di Leonardo Meraviglia.

Nostra patria è il mondo intero.

UN PREGIUDIZIO

 

L’anarchia è un ideale irrealizzabile perché la sua pratica richiede un mondo
completamente estraneo a quello in cui viviamo.
Ci guarderemmo bene dal fare una simile affermazione se si trattasse di una
qualsiasi altra idea più o meno fuorviata che ribadisse il principio di associa-
zione fondato su un’autorità sociale ma trattandosi dell’anarchia, ovvero di
una società priva di governo e di legge d’alcuna natura, la dichiariamo impos-
sibile senza esitazione a meno che, in seguito ad un repentino salto temporale,
si potesse tornare all’età della pietra.
Non ci libereremo dal pugnale o dalla bomba anche se resteremo vigili ed eser-
citeremo qualsiasi forma di controllo.
È un’epidemia che passerà come passano tutte, ma il patibolo non è certamente
la cura che potrà guarire da essa. Il miglior trattamento è il manicomio.
Noi lo giudichiamo un rimedio infallibile.
Per gli anarchici la morte costituisce un motivo di onore ambito e desiderato,
il manicomio a vita sarebbe il disonore ed il ludibrio, un motivo di pentimento
e castigo. (il brano è tratto da un lungo articolo intitolato Un consiglio, com-
parso sul numero del 18 agosto 1897 de La Republica Social edita a Matarò)

Il brano, che si riferisce alla situazione spagnola dell’epoca, ben illustra la dif-
fusa interpretazione che gli anarchici altro non fossero che attentatori sangui-
nari.
In Italia furono oggetto di studio da parte di Cesare Lombroso, che li giudicava
una delle tipologie più interessanti della criminalità, vale a dire quella di natura
politica.
Lo studioso, come molti altri del resto, ebbe una visione limitata dell’anarchi-
smo, riducendolo alla sola componente dell’individualismo, ed illustrò le pro-
prie teorie nel saggio Gli Anarchici, edito nel 1894, subito dopo che il giovane
individualista lodigiano Sante Caserio aveva assassinato (o giustiziato, se-
condo il punto di vista popolare e libertario) il presidente della Repubblica
Francese Sadi Carnot.
Naturalmente la realtà è assai diversa e poliedrica, come si tenterò di mettere
in evidenza nel viaggio di seguito illustrato, nel corso del quale ci si imbatte in
personalità alquanto distanti dallo stereotipo lombrosiano.

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