Sul 25 aprile

“LIBERAZIONE” TRA CPR E CARCERE,

COSA FESTEGGIAMO?

Ci siamo chiesti quale valore si possa oggi attribuire ad una giornata, quale quella del 25 aprile, che appare ormai del tutto scollegata dalla conflittualità liberatrice della quale dovrebbe – invece – essere portatrice.

Per evitare di cadere nella ritualità della “festa”, proponiamo allora – proprio nella giornata della Liberazione – di concentrare sguardo e attenzione sui luoghi di reclusione e internamento presenti nella nostra società. Sono note le cronache delle violenze e degli abusi in divisa compiuti dentro le carceri, così come è noto l’accanimento detentivo contro chi, prigioniero politico, si rifiuta di accettare forme di annichilimento umano. Azioni come lo scrivere, il leggere ed il comunicare dentro il carcere – è il caso del 41 bis – sono state assunte dallo stato come atte a porlo ipoteticamente in pericolo, in quanto ad esercitarle sarebbero soggetti considerati socialmente ostili o sovversivi. Trattasi evidentemente di restrizioni alla libertà del recluso che farebbero invidia ai dispositivi carcerari del fascismo. Ma non è tutto.

Vi è, infatti, quello che possiamo definire come uno dei massimi esempi di continuità tra ‘ingiustizia fascista’ e ‘giustizia democratica’: I “Centri per il rimpatrio”, condivisi nella loro costituzione da tutti i governi e destinati a moltiplicarsi sotto la spinta di quello attuale. “Uno per regione” è stato infatti – indecentemente – decretato da questo governo soltanto pochi giorni dopo il naufragio di Cutro, l’ennesima strage di stato.

I CPR (precedentemente CIE) sono luoghi dello stato e da questo concessi in gestione a multinazionali: si tratta dunque di luoghi sottoposti alla spietata legge del profitto da ricavarsi sulla pelle dei reclusi in cui gli uomini diventano veri e propri ‘dannati in terra’, perseguitati per il semplice fatto di trovarsi sul territorio italiano senza un documento (ritenuto) “valido”. Nessun reato, se non quello di aver appoggiato i piedi sulla sabbia o aver attraversato i valichi italiani, in fuga da guerre, fame e disperazione prodotte e riprodotte dall’Occidente capitalista.
Chi viene internato in questi centri (furono istituiti nel 1998 dalla Legge Turco-Napolitano con il nome di C.P.T. – Centri di Permanenza Temporanea -, poi denominati C.I.E. – Centri di Identificazione ed Espulsione – dalla Legge Bossi-Fini del 2002, ed infine rinominati C.P.R. – Centri di Permanenza per i Rimpatri – dalla Legge Minniti-Orlando del 2017) ha la sola “colpa” di condurre la propria vita senza l’approvazione della legge. Ma di quale legge si tratta? Di quella ‘democratica’ che, mentre proclama genericamente alcuni diritti dell’Uomo, istituisce forme di sorveglianza e punizione che hanno come scopo quello di annullare e mortificare chi è “illegale” perché non riconosciuto dallo stato. Si tratta di uomini che vivono una condizione peggiore di quella che vivrebbero in un qualsiasi carcere: nei CPR i reclusi vengono spogliati anche di quei pochi diritti che sono (formalmente) riconosciuti ad ogni detenuto. Il risultato? Pestaggi, violenze di ogni sorta, abusiva somministrazione di psicofarmaci, automutilazioni, tentativi di suicidio.

Ecco allora le rivolte interne: unico fuoco nella notte, unica speranza per la fine di questo indicibile scempio ‘democratico’.
Le responsabilità politiche sono trasversali e pluripartitiche; nessun partito, men che meno il PD, può vantare una qualche opposizione ai CPR. Lo diciamo chiaramente: I CPR non si possono riformare, migliorare o “umanizzare”, vanno piuttosto eliminati ed aboliti.