Il reddito di base incondizionato (RBI) come reddito primario e istituzione del Comune

Questo intervento è stato un contributo alla serata in memoria di Pietro Valpreda, tenutasi il 6 luglio 2022 ( ventennale della scomparsa ) presso il Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa

Il reddito di base incondizionato (RBI) come reddito primario e istituzione del Comune

Andrea Fumagalli, Carlo Vercellone

La crisi sanitaria che ha sconvolto l’Europa e l’economia mondiale e oggi la crisi bellica non sono uno choc esogeno, ma il segno di una crisi sistemica della logica produttivista del capitalismo contemporaneo e della sua regolazione neoliberale fondata sul trittico: commodification, privatisation, corporatisation. Essa mostra l’incompatibilità strutturale di questo modo d’accumulazione con le condizioni stesse della riproduzione della società, che si tratti degli equilibri ecologici del pianeta o della devastazione delle produzioni dell’umano attraverso l’umano (sistema sanitario, lavoro di cura, educazione, ricerca) che costituiscono le basi materiali di un’economia fondata sulla conoscenza. Nella sua drammaticità, la crisi attuale rivela tutta la miseria del presente, ma anche la ricchezza della possibilità insite nella biforcazione storica cui siamo confrontati. Essa ci impone di pensare non solo a politiche a breve termine per contrastare, nell’urgenza, la spirale che condurrebbe dal crollo della produzione e dei redditi a quello del sistema finanziario, ma anche a riforme strutturali suscettibili d’aprire la strada ad un altro modello d’organizzazione dell’economia e della società. Le stesse questioni fondatrici dell’economia politica sono così rimesse sul tappeto della deliberazione democratica: cosa e come produrre? Per soddisfare quali bisogni? Sulla base di quali regole della distribuzione del reddito tra gli individui e le classi sociali?

È in questo contesto che si iscrive e riprende forza il dibatto sulla proposta di un Reddito di base incondizionato (RBI) pensato come uno strumento della transizione verso un modello alternativo e non come un fine a se stesso (spesso si fa confusione al riguardo). Lo scopo di questo intervento è di presentare i pilastri di una proposta emancipatrice del RBI, inteso come un reddito primario e un’istituzione del Comune, secondo una logica che lo differenzia radicalmente da altre concezioni volte a una logica di semplice razionalizzazione delle politiche di ridistribuzione e di riduzione della povertà.

  1. IL RBI come strumento d’estensione delle istituzioni collettive del Welfare State e del passaggio da un modello di precarietà subito a un modello di mobilità scelta

Il primo pilastro consiste nell’ integrare il RBI in una prospettiva di rafforzamento del processo di risocializzazione dell’economia iniziato nel dopoguerra e proseguito durante la grande ondata di trasformazione sociale degli anni ’70, con le conquiste legate alla riforma Basaglia, al Sistema Sanitario Nazionale, a un sistema pensionistico avanzato, al diritto del lavoro, ecc. Che sia ben chiaro: nel nostro approccio, il RBI non è in alcun modo destinato a sostituirsi alle istituzioni cardine del Welfare State (pensioni, sistema sanitario, sistema di istruzione, indennità di disoccupazione), tra l’altro già profondamente destrutturate dalla controffensiva neoliberale e dalle politiche d’austerità. Si propone invece di rivitalizzarle e d’adattarle alle nuove forme di lavoro dipendente (diretto e eterodiretto) e autonomo, che oggi ne sono escluse (la maggior parte dei precar* non riesce ad accedere a nessun ammortizzatore sociale in vigore). Per far questo, le completerebbe con un dispositivo che si attacchi allo statuto stesso che sta alla base della precarietà della forza lavoro in un’economia capitalistica: lo statuto sociale che, per la maggioranza della popolazione, fa del lavoro salariato la condizione esclusiva d’accesso a un reddito monetario dipendente dalle anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e quindi del lavoro impiegabile con profitto. La riforma del RBI attenuerebbe così l’asimmetria fondamentale che, nell’economia capitalistica di mercato, istituisce la divisione tra capitale e lavoro, cioè tra coloro che non hanno accesso alla moneta che attraverso la vendita della loro forza lavoro e coloro che possono invece accedervi in virtù della proprietà dei mezzi di produzione e del controllo delle istituzioni che detengono il potere di creazione monetaria. Il RBI, generalizzando all’insieme della popolazione la possibilità di un reddito dissociato dal lavoro, costituirebbe un primo passo verso la socializzazione della moneta come un bene comune della collettività. Si trova d’altronde qui, malgrado l’inefficacia palese delle politiche di quantitative easing della BCE, la ragione principale e essenzialmente ideologica dell’opposizione alla proposta di una “moneta elicottero” distribuita direttamente all’insieme della popolazione. Il finanziamento per via monetaria, congiuntamente ad altri dispositivi capaci d’incidere sulla distribuzione primaria del reddito a discapito delle rendite e dei profitti, sarebbe infatti un primo passo per instaurare un RBI di un livello sostanziale e indipendente dall’impiego. In questa prospettiva, il ruolo del RBI consisterebbe nel rinforzare la libertà effettiva di scelta della forza lavoro incidendo sulle condizioni in virtù delle quali, come sottolineava ironicamente Marx nel libro I del capitale, il suo proprietario è non solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo. Inoltre, il carattere incondizionato e individuale del RBI aumenterebbe il grado di autonomia degli individui rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora incentrati sulla famiglia patriarcale e su una figura del lavoro stabile che oggi ha perso la sua centralità storica. Infine, aspetto, di non poco conto, consentirebbe di esercitare uno dei diritti fondamentali di natura economica: il diritto non al lavoro ma alla scelta del lavoro.

Da questa concezione derivano due corollari essenziali per definire la trasformazione socioeconomica di cui il RBI potrebbe essere il vettore in rottura con la precarietà e l’iper-produttivismo insiti alla logica neoliberale.

In primo luogo, favorirebbe il passaggio a un modello di mobilità scelta a discapito dell’attuale modello di mobilità subìta sotto la forma di precarietà. Per realizzare questo obiettivo, l’importo monetario del RBI dovrebbe essere sufficientemente elevato per permettere di rifiutare condizioni di lavoro giudicate economicamente e eticamente inaccettabili (idealmente la metà del salario mediano).

In secondo luogo, il RBI permetterebbe un’effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità del reddito permetterebbe infatti a ognuno di gestire i passaggi tra diverse forme di lavoro e di attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del tempo di lavoro sulla settimana lavorativa. Le forme di riduzione classiche del tempo di lavoro, come mostra anche l’esempio del passaggio alle 35 ore in Francia, sono infatti sempre meno efficaci in un contesto in cui, per una parte crescente della forza-lavoro, l’orario settimanale non è più oggi un criterio di misura affidabile, e questo nel mentre le frontiere tradizionali tra tempo di lavoro e tempo libero, produzione e consumo, divengono sempre più labili.

  1. Mutazioni del lavoro e RBI come reddito primario

Il secondo pilastro della nostra concezione consiste ad affermare che il RBI non deve essere pensato come una forma assistenziale (come l’attuale reddito di cittadinanza, in Italia o il RSA in Francia) o, comunque, legata alla ridistribuzione del reddito. Il RBI deve invece essere pensato e instaurato come un reddito primario, vale a dire legato ad una contribuzione sociale produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta. Contrariamente agli approcci dell’automazione algoritmica che profetizzano l’ennesima fine del lavoro, la crisi della norma fordista dell’impiego è lungi dal significare una crisi del lavoro come fonte della produzione di valore o di ricchezza (non mercantile). Al contrario. Il capitalismo bio-cognitivo non è solo un’economia intensiva nell’uso del sapere e delle relazioni sociali, ma costituisce al tempo stesso e forse ancor più del capitalismo industriale, un’economia intensiva in lavoro. Nel capitalismo contemporaneo, la forza produttiva del lavoro ha una dimensione sempre più collettiva e sfugge spesso ai criteri di misura ufficiali, sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che la moltiplicazione di tipologia di attività non assimilabili alle forme canoniche del lavoro salariato. Ne risulta una crisi della rappresentazione convenzionale del lavoro e del “regime temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi.

Tre evoluzioni principali mostrano la portata e la posta in gioco di questa trasformazione.

    1. La centralità del cosiddetto capitale umano e …dei sevizi collettivi del Welfare State

Secondo una tendenza spesso evocata dai teorici della nuova economia fondata sulla conoscenza, quest’ultima avrebbe trovato la sua origine nella dinamica storica che ha visto la parte del capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute, R&S) superare la parte del capitale materiale e rappresentare ormai il fattore principale della crescita e dell’innovazione. Ora, questo fatto stilizzato ha almeno due significati maggiori indispensabili sia per comprendere la giustificazione teorica del RBI sia l’origine della crisi attuale.

Il primo è che la parte più consistente di tale capitale intangibile è in realtà incorporato essenzialmente negli esseri umani (il cosiddetto capitale umano) vale a dire in un’intellettualità diffusa o in un’intelligenza collettiva. Questo significa che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni si situa nei fattori collettivi della produttività e dell’innovazione collocati a monte del sistema delle imprese: livello generale della formazione della forza lavoro, densità delle sue interazioni su un territorio, qualità dei servizi del Welfare e delle infrastrutture informazionali e di ricerca. Troviamo qui, a questo livello macroeconomico, una prima giustificazione del RBI come reddito primario legato a una produttività sociale che rende caduco qualsiasi tentativo di stabilire una corrispondenza tra remunerazione e misura del contributo individuale alla produzione, tra diritto al reddito e lavoro.

Il secondo significato – sistematicamente omesso dagli economisti mainstream – ha anche un’implicazione importante per comprendere le origini e le poste in gioco della crisi attuale. Una parte essenziale della produzione del cosiddetto capitale umano e intangibile dipende infatti dai servizi collettivi assicurati storicamente dal Welfare-State. Sono dunque questi i settori motori dell’economia fondata sulla conoscenza di cui si nutre il nuovo capitalismo, e questo tanto dal punto di vista della produzione che della domanda sociale. Tutti questi fattori, e gli interessi molto materiali che essi suscitano, permettono di spiegare la pressione straordinaria esercitata dal capitale per privatizzare o in ogni caso sottomettere alla sua razionalità i servizi collettivi del Welfare State introducendovi, per esempio, nello spirito del New Public Management, la logica della concorrenza, della lean production e del risultato quantificato, preludio all’affermazione pura e semplice della logica del valore e del profitto. La cosiddetta crisi del debito sovrano è stata il pretesto per accelerare queste tendenze. Abbiamo probabilmente qui una delle spiegazioni più logiche dell’irrazionalità macroeconomica e sociale delle politiche d’austerità richieste dai mercati finanziari e dalla UE, politiche che hanno condotto al degrado progressivo dei sistemi pubblici sanitari, d’insegnamento e di ricerca creando una scarsità artificiale di risorse in gran parte responsabile della gravità della crisi sanitaria del coronavirus.

2.2 Lo sgretolamento dei confini tra lavoro e tempo libero e l’espansione di nuove forme di lavoro produttivo di plusvalore

La seconda evoluzione rinvia al modo in cui lo sviluppo congiunto della rivoluzione digitale e della dimensione cognitiva del lavoro ha profondamente destabilizzato l’unità di tempo e di luogo della prestazione lavorativa propria al rapporto salariale fordista. In questo contesto, il tempo di lavoro dedicato direttamente a un’attività produttiva durante l’orario di lavoro ufficiale, non è più spesso che una frazione del tempo sociale della produzione. Allo stesso tempo, le attività che creano valore e ricchezza assumono forme inedite che i tradizionali standard di rappresentazione del lavoro non riescono a identificare e misurare (privandole spesso di ogni forma di riconoscimento e convalida economica e sociale).

Diversi elementi permettono d’illustrare questi cambiamenti e le contraddizioni che ne scaturiscono.

In primo luogo, per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta come la combinazione complessa di un’attività di riflessione, di comunicazione, di scambio relazionale di conoscenza che si svolge tanto all’interno quanto al di fuori delle imprese e dell’orario contrattuale di lavoro. Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro si attenuano, e ciò avviene attraverso una dinamica contraddittoria. Da un lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro. La riproduzione della forza lavoro oggi non avviene più solo all’interno della famiglia, ma assume sempre più connotati sociali. Con riferimento al ruolo femminile, la riproduzione sociale svolge le funzioni di “casalinga del capitale”, come ci ricorda Cristina Morini. Essa, infatti, si articola sempre più su attività di formazione, di auto valorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e collettivo della forza lavoro, che – sic rebus stantibus – il capitale è in grado di tradurre poi in valore di scambio e/o valore finanziario. La tendenza intrinseca del lavoro cognitivo a rendere porose le frontiere tra lavoro e non lavoro è inoltre moltiplicata dalla rivoluzione informatica. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione indeboliscono notevolmente i vincoli spaziali, temporali e tecnici propri allo svolgimento dell’attività lavorativa e all’uso dei mezzi di produzione nell’era fordista. Questa dinamica ha una natura profondamente ambivalente. Favorisce sia lo sviluppo di nuove forme di messa al lavoro e di cattura del valore da parte delle imprese sia lo sviluppo di forme di cooperazione produttiva e di scambio al di fuori della logica di mercato, come nell’esempio dei commons del software libero e della conoscenza. Ne risulta una tensione crescente tra la tendenza all’autonomia del lavoro e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla logica eteronoma della valorizzazione del capitale.

Questa tensione contribuisce a spiegare la stessa destabilizzazione dei termini tradizionali dello scambio capitale-lavoro salariato. Nel capitalismo industriale, il salario era la contropartita dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben determinata messa a disposizione dell’impresa. Il capitalista, doveva allora occuparsi, in questo quadro, delle modalità più efficaci dell’utilizzo di questa frazione di tempo pagato al fine di estrarre dal valore d’uso della forza lavoro la massima quantità di plusvalore. Nella fabbrica fordista, grazie alla rigida prescrizione dei tempi e delle mansioni, il capitale sembrava aver stabilito una chiara separazione tra tempo di lavoro e tempo libero. Ma tutto cambia allorché il lavoro, diventando sempre più cognitivo e relazionale, non può più essere prescritto e ridotto a un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato. Il capitale non solo dipende di nuovo dalla conoscenza dei lavoratori, ma deve ottenere una mobilitazione attiva della soggettività e dell’insieme dei tempi di vita dei lavoratori. Come per la creazione del valore, anche i dispositivi manageriali di controllo del lavoro si spostano sempre più a monte e a valle dell’atto produttivo diretto. La prescrizione taylorista del lavoro cede il posto alla prescrizione della soggettività e all’obbligo del risultato. In questo contesto, è ormai il lavoro che deve spesso assumere il compito di trovare i mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati dalla direzione dell’impresa, spesso in modo volutamente irrealistico. L’obiettivo è quindi quello di incoraggiare i lavoratori ad adattarsi pienamente agli obiettivi dell’azienda e, allo stesso tempo, d’interiorizzare come una colpa l’incapacità di raggiungerli pienamente. Sotto la pressione congiunta del management attraverso lo stress e la precarietà, assistiamo così ad un’amplificazione del dominio della sfera del lavoro sulla vita degli individui che ormai invade aree cruciali per il loro equilibrio psico-fisico generando nuove forme di “sofferenza sul lavoro”. Il corollario di questa evoluzione è ovviamente un notevole aumento del numero di ore straordinarie, che spesso non vengono riconosciute, contabilizzate e remunerate, secondo una logica che ricorda quanto Marx chiamava i meccanismi d’estorsione del plusvalore assoluto.

Un altro elemento che contrassegna questa dislocazione dei confini tra tempo libero e tempo di lavoro riguarda il modo in cui i confini delle imprese tendono sempre più a integrare il lavoro gratuito dei consumatori e degli utenti. Si tratta di quanto nella letteratura economica e sociologica viene analizzato attraverso i concetti di Free Digital Labour e quello, più ampio, di lavoro del consumatore (o del prosumer). Con il concetto di Free Digital Labour, forgiato per la prima volta da Tiziana Terranova in un articolo del 2000, intendiamo il lavoro gratuito e apparentemente libero che una moltitudine di individui svolge attraverso e su Internet, spesso inconsapevolmente, a beneficio dei grandi oligopoli di Internet e delle data industries. Nel modello delle piattaforme dei motori di ricerca e dei social network del tipo Google e Facebook, ad esempio, tutto sembra accadere come se l’impresa fosse riuscita a far sottoscrivere agli utenti una sorta di contratto, iscritto implicitamente nelle condizioni d’uso, che può essere riassunto come segue, estendendo un adagio usato per il pubblico televisivo: “se è gratuito, è perché in realtà siete voi non solo il prodotto, ma anche i lavoratori che, grazie alla vostra attività collettiva, in apparenza libera e giocosa, mi permettete di produrvi e vendervi come una merce (fornendomi i dati, i contenuti e, attraverso le economie di rete, le dimensioni del mercato necessarie per attirare gli inserzionisti). Conclusione: nella misura in cui questo valore non è “ridistribuito” agli utenti di Internet, possiamo considerare che si tratta di lavoro sfruttato, sia nel senso della teoria marxiana del valore-lavoro, sia della teoria neoclassica della distribuzione, poiché la retribuzione di un lavoro gratuito è per definizione inferiore alla sua produttività marginale. Si trova qui la soluzione del mistero, inconcepibile ai tempi del fordismo, che spiega perché imprese come Google e FaceBook possano oggi occupare i primi posti nel capitalismo mondiale in termini di capitalizzazione borsistica e di redditività, pur mobilitando una massa quasi insignificante di lavoratori dipendenti.

Inoltre, come dimostrato da numerose ricerche, il lavoro gratuito dei consumatori non si limita al solo Digital Labor, ma comprende uno spettro di attività molto più ampio. L’esternalizzazione ai clienti di intere fasi del ciclo produttivo precedentemente svolte all’interno dell’azienda è infatti una pratica comune alla maggior parte delle grandi aziende sia nella vecchia che nella nuova economia. Si tratta di una logica di messa al lavoro dei prosumer che può spaziare da mansioni semplici e/o ripetitive (acquisto di un biglietto online, registratori di cassa “self-service”, montaggio di un mobile), ad attività più complesse di progettazione e concezione del prodotto. Comunque sia, il ruolo crescente del lavoro produttivo del consumatore nella catena di creazione del valore porta un attento osservatore di questi fenomeni, come Guillaume Tiffon, a farne la base stessa di una nuova teoria della creazione di valore e dello sfruttamento.

2.3. Nuove forme di cooperazione del lavoro: forza e limiti del modello socio-economico fondato sui commons

Lats but not least, un ultimo elemento, forse il più importante per una riconsiderazione del concetto di lavoro produttivo e per pensare la società del “dopo-crisi”, riguarda lo sviluppo dei commons e dei beni comuni. Esso trova le sue radici nella capacità del lavoro cognitivo di auto-organizzare la produzione dando luogo alla sperimentazione di molteplici forme alternative di cooperazione. Con il concetto di Comune intendiamo un modello produttivo organizzato secondo principi alternativi sia al pubblico sia al privato, sia alla gerarchia sia al mercato, come meccanismi di coordinamento della produzione e dello scambio. Questo modello non proprietario e non gerarchico produce beni comuni per la collettività e si rivela spesso più efficiente di quello delle grandi imprese, sia in termini di dinamismo dell’innovazione che di qualità dei beni e dei servizi prodotti. I casi emblematici del software libero, dei makers, delle piattaforme cooperative, di numerosi centri sociali all’immagine dei beni comuni autogestiti come l’Asilo Filangieri, non sono che la punta più visibile di un’economia del Comune che abbraccia tutti i settori produttivi, mobilitando il lavoro di una moltitudine di cittadini e lavoratori. Come ha evidenziato la crisi attuale, questo modello si rivela d’altronde spesso più reattivo del Pubblico e del Privato, per rispondere a bisogni sociali e sanitari urgenti, come la produzione di mascherini e di ventilatori, o ancora l’organizzazione di forme di sostegno alle persone senza domicilio. Esso permetterebbe inoltre di promuovere una risocializzazione territoriale della produzione fondata su circuiti corti e ecologicamente sostenibili.

Nonostante la sua efficienza economica e sociale, una delle principali debolezze che ostacola lo sviluppo del modello del comune e ne mette a repentaglio l’autonomia è proprio la mancanza di risorse e di tempo di cui soffrono i suoi animatori. La natura non mercantile, non proprietaria e volontaria della loro attività obbliga infatti i commoners a ricercare un reddito nella sfera economica ufficiale del salariato e dell’economia di mercato. Di fronte al monopolio della logica burocratico-amministrativa dello Stato e a quello dell’economia capitalistica di mercato, non esiste infatti ancora un meccanismo istituzionale specifico all’economia del comune in grado di garantire la convalida sociale e la sostenibilità economica di questo modello produttivo. L’istituzione di un reddito primario di base incondizionato distribuito su base forfettaria potrebbe essere un primo passo per compensare questa mancanza e riconoscere la natura produttiva del lavoro svolto nell’economia dei commons.

Conclusione

In conclusione, una delle principali conseguenze dell’analisi delle mutazioni del lavoro nel capitalismo contemporaneo è di condurci a ripensare globalmente le regole della distribuzione del reddito e il concetto stesso di lavoro produttivo. In particolare, essa ci fornisce due principali insegnamenti che perorano per l’instaurazione di un RBI.

In primo luogo, dal momento che la cooperazione sociale produttiva si estende sull’insieme dei tempi sociali e supera il tempo di lavoro ufficiale remunerato, si può ipotizzare che il lavoro nel capitalismo cognitivo sia sempre, almeno in una certa misura, un lavoro sotterraneo, invisibile, parte di un’economia non retribuita. Va anche notato che questa conclusione costituisce già è di per sé una risposta alle critiche “etiche” del diritto a un RBI condotto in nome dell’ideologia del lavoro salariato: la presunta assenza di una contropartita lavorativa da parte del beneficiario. Infatti, nonostante il suo contributo produttivo, questo lavoro sociale non è retribuito perché non appartiene o sfugge ai criteri tradizionali di misura e di rappresentazione del lavoro e della ricchezza fondati sulla norma del rapporto salariale. Di conseguenza, la controparte in termini di lavoro esiste già. Quanto manca, è invece la sua controparte in termini di reddito.

In secondo luogo, la proposta di RBI, in quanto reddito primario, richiede un riesame del concetto di lavoro produttivo condotta da un duplice punto di vista.

Il primo rinvia alla nozione di lavoro produttivo pensata, secondo la tradizione dominante in seno alla teoria economica, come il lavoro che produce merci e profitti. In questo senso, il RBI corrisponderebbe al riconoscimento sociale e, almeno in parte, alla remunerazione collettiva di questa dimensione sempre più collettiva e “gratuita” di un’attività di produzione di valore aggiunto che si estende sull’insieme dei tempi di vita e si traduce in uno squilibrio distributivo a discapito del lavoro e a vantaggio delle rendite e dei profitti.

Il secondo aspetto trova il suo esempio emblematico nell’economia dei commons e si riferisce al concetto di lavoro produttivo pensato, nel suo senso antropologico, come il lavoro che crea valori d’uso e una ricchezza che sfugge alla logica della merce e del rapporto salariale subordinato al capitale. Contro un tabù dominante in seno alla teoria economica, si tratta insomma di riconoscere che il lavoro può essere improduttivo per il capitale, ma produttivo di forme di ricchezza sociale fuori mercato e quindi dare origine a un reddito che lo convalida socialmente attraverso una remunerazione collettiva e forfettaria. Spingendo questo ragionamento ancora più lontano, si potrebbe addirittura suggerire che, partendo da una base incomprimibile, l’evoluzione del montante monetario del RBI potrebbe essere periodicamente l’oggetto di una contrattazione collettiva che riunisca i rappresentati dell’insieme della forza lavoro e le cosiddette parti sociali. Il suo montante potrebbe essere inoltre riversato in una cassa comune del RBI gestita democraticamente dai lavoratori, ispirandosi del modello che aveva inizialmente caratterizzato la creazione della Sécurité sociale in Francia secondo una logica vicina a quella di un’istituzione del comune.

In definitiva, il RBI si presenterebbe al tempo stesso come un’istituzione del Comune e un primo livello della distribuzione primaria tra redditi da lavoro, profitto e rendite. La sua instaurazione favorirebbe, congiuntamente alla riappropriazione democratica dei servizi collettivi del Welfare, la transizione verso un modello di società ecologicamente sostenibile e fondato sul primato della produzione di beni comuni per la collettività e di forme di cooperazione alternative tanto al pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione.