La Memoria: intervista ad Enrico Di Cola

Continua la pubblicazione di documenti per non farci rubare la memoria. Questa volta parliamo di Enrico Di Cola, anarchico romano, compagno e amico di Valpreda, ma in relazione anche con altri compagni a partire da Pinelli.

La Memoria: intervista ad Enrico Di Cola
Quest’anno per ricordare la Strage di Piazza Fontana e tutti i fatti ad essa collegati ho intervistato Enrico Di Cola. Lo ringrazio per il tempo e la pazienza dedicata a rispondere alle mie domande.

1. cosa ti ha spinto a mobilitarti? e come mai hai scelto la militanza anarchica?
La mia contestazione politica è preceduta da diversi anni di ribellismo contro l’oscurantismo che permeava la società in quegli anni. Ho iniziato combattendo e contestando il giogo che ci imponeva la religione, la staticità dei valori della famiglia tradizionale, contro l’autoritarismo e l’insegnamento anacronistico della scuola. La mia è la generazione dei “figli dei fiori”, degli Hippies, dei Provos, dell’antimilitarismo, dell’odio per le armi e tutte le guerre…
Per i più giovani è forse difficile capire fino in fondo la cappa che copriva tutti gli aspetti della vita e della società di quegli anni. Portare i capelli leggermente più lunghi della norma voleva dire rischiare di essere derisi, insultati e perfino essere picchiati per strada. Stessa cosa con le camicie a fiori o le collanine colorate. Se non si andava in chiesa si veniva messi all’indice dalla comunità del proprio quartiere, a scuola vigeva un ordine quasi militare e non si poteva mettere in discussione nulla di ciò che veniva detto dai professori. Per non parlare della rigida separazione dei sessi nelle scuole.
Il mio impatto con la scuola fu subito – fin dalle scuole elementari – a dir poco catastrofico. Nei miei primissimi anni scolari – pochi lo ricordano – ma era ancora consentito ai maestri di punire corporalmente gli alunni: inginocchiati per ore, staffilate con le bacchette sulle palme e il dorso delle mani, tirate di orecchie e altri mille modi per piegarti o umiliarti. Non è quindi un caso che iniziai intorno ai 13 o 14 anni a ribellarmi contro tutto questo. Dai piccoli sabotaggi (incatenamento dei cancelli, colle nelle toppe delle chiavi…) ai primi scioperi per i cessi puliti (uso la parola che meglio descrive le condizione dei bagni), contro il sequestro del cibo se si parlava durante l’ora della ricreazione (si doveva restare seduti e mangiare in silenzio).
La mia presa di coscienza politica inizia nel 66/67 quando il mio miglior amico e compagno di scuola (figlio di un operaio edile, comunista, e lui stesso simpatizzante ), mi chiede di accompagnarlo ad una manifestazione per il Vietnam. Sono con lui quasi alla testa del corteo quando la celere, senza provocazioni o alcun preavviso, carica il troncone in cui mi trovavo, con una tale violenza cieca che mi lascerà per sempre segnato. Inizio a leggere libri e giornali per capire.
Poi arriva il vento del ’68 e mi trovo subito politicamente coinvolto e partecipe di quell’ondata di rivolte e lotte, di quella rottura delle catene della società capitalista contro cui, prima, mi ero battuto a livello individuale. E’ così che scopro di non essere solo.
Perchè scelsi subito gli anarchici? Perchè il ‘68 fu essenzialmente liberatorio e libertario come movimento e perchè mi era capitato di leggere tra quei miei primi libri politici anche gli scritti di Bakunin, e per la prima volta avevo trovato qualcuno che spiegava le stesse cose che io – fino a quel momento – avevo solo rozzamente pensato.

2. il tuo ingresso e il tuo vissuto nel Circolo 22 marzo
Verso i primi mesi del ’69 viene aperto il Circolo anarchico “M. Bakunin”. E’ il primo circolo a nascere a Roma, prima di questo non vi era nessun punto di aggregazione per gli anarchici. Io, con diversi altri compagni di scuola, fin dal ’68 avevamo formato un gruppo, una comunità di compagni anarchici, che era sempre stata alla testa dei picchettaggi sia della nostra scuola che di quelle della nostra zona (EUR), eravamo stati tra i primi istituti tecnici a occupare, avevamo lavorato con un’inchiesta sulla provenienza sociale dei ragazzi che frequentavano la scuola e sul problema della dequalificazione professionale…Eravamo il gruppo più grande e influente della scuola e non c’era sciopero o azione che non fosse concordata con noi
Eravamo un gruppo di compagni di scuola ed amici ma non eravamo un gruppo organizzato nel senso tradizionale della parola. Quando aprì le sue porte il “Bakunin” , inevitabilmente fummo contenti ed attratti dalla prospettiva di incontrare altre realtà anarchiche della nostra città. Alcuni di questi miei compagni di scuola – che poi parteciperanno alla nascita del circolo 22 marzo – hanno nomi sicuramente più noti del mio: Roberto Gargamelli, Emilio Borghese, Angelino Fascetti, Amerigo Mattozzi…solo per citarne alcuni.
Al “Bakunin” poi incontriamo Valpreda, Roberto Mander (che poi rimase al “Bakunin”), Ivo Della Savia, Claudio, Bianca, Giovanna, Mino, Gigi, Giovanni Ferraro, Roberto “Cristus”, Umberto Macoratti e altri ancora che poi ci seguiranno nella costruzione del nuovo circolo. Ma trovammo anche due personaggi infiltrati tristemente famosi: il fascista Mario Merlino ed il poliziotto Andrea Ippolito.
All’inizio di settembre, al ritorno dalle vacanze estive, inizio a frequentare più assiduamente il Bakunin dove conosco Valpreda con cui nasce fin da subito una buona intesa a livello politico ed umano. Il 25 settembre, assieme a Pietro e Leonardo Claps (un compagno di Milano) decidiamo di fare uno sciopero della fame davanti al Palazzaccio per chiedere la liberazione dei compagni ingiustamente incarcerati per le bombe del 25 aprile e quelle sui treni di agosto. Fu durante quegli otto giorni di sofferenza e vita condivisa che si creò una forte solidarietà ed amicizia con molti compagni che ci frequentavano e sostenevano in quella nostra protesta. Da quel momento mi è difficile parlare di me al singolare, perché mi sentivo già parte di un gruppo e ogni mia azione era basata sulla condivisione.
Partecipiamo assieme a varie manifestazioni, facciamo quella che noi chiamavamo una “azione esemplare” (e che secondo i giudici può essere solo un atto di terrorismo) assieme a delle famiglie di sfrattati costruimmo, di notte, un muretto davanti alla porta dell’immobiliare che li aveva sfrattati e riempimmo le scale di scritte. Con Valpreda, Claps e Gargamelli mi recai a Milano (si viaggiava solo in autostop) per portare la nostra solidarietà al compagno Michele Camiolo che era in sciopero della fame da quasi un mese, sempre per chiedere la liberazione dei compagni arrestati. Con Valpreda, Bagnoli e Mucky andammo a Reggio Calabria per portare la nostra solidarietà ai compagni Angelo Casile e Gianni Aricò che dovevano essere processati. Di lì ci recammo a Pisa subito dopo assassinio dello studente Cesare Pardini, e allacciammo rapporti con un gruppo che si chiamava Il Potere Operaio.
Da Pisa con Valpreda e Bagnoli ci rechiamo al convegno della FAI-FAGI a Carrara e quindi a quello dei GIA ad Empoli… Ci incontriamo, fraternizziamo, discutiamo e prendiamo contatti con centinaia di compagni “di strada” con cui vogliamo portare avanti il nostro percorso politico e di lotta. In questo periodo intenso finisco anche in galera per la prima volta: si tratta della famosa rissa a Trastevere, che in realtà altro non fu che un’aggressione organizzata contro di noi, in cui una ventina di fascistelli ci assalì di sorpresa davanti a dei poliziotti in borghese che intervennero solo dopo che gli aggressori si erano dileguati. Valpreda e Gargamelli stavano cercando di farmi rinvenire con l’acqua fresca di una fontanella (aggedito da tre-quatto teppistelli fui colpito da un calcio ai testicoli che mi fece svenire) quando i poliziotti decisero di intervenire… per arrestarci.

3. come cambiò la tua vita e quella degli altri del 22 marzo dopo la Strage di Piazza fontana?
Debbo dire che nessuno di noi è mai riuscito a realizzare i progetti di allora. Io, dopo due interminabili anni di latitanza in giro per l’Italia, riuscii a fuggire in Svezia dove ottenni l’asilo politico (credo di essere stato il primo e unico cittadino italiano ad ottenere tale status di rifugiato e il passaporto Nansen – rilasciato delle Nazioni Unite – in quanto apolide.). Lì in Svezia ho dovuto ricominciare tutto da capo. La polizia e la magistratura italiana impedirono a mia madre di inviarmi i certificati scolastici per cui dovetti prima imparare la lingua e poi tornare sui banchi di scuola svedesi e ricominciare da capo (elementari, medie, liceo…). A mia madre, vedova, venne persino negato il passaporto, per venirmi a trovare, finchè non compii i 21 anni (la maggiore età all’epoca) perché altrimenti avrebbe lasciato in Italia un minore (cioè io, che ero già all’estero)! Ho impiegato anni per tornare al punto di partenza!
Comunque non mi lamento, anzi mi sento fortunato perché almeno ho evitato – a differenza dei miei fratelli e compagni – l’orrore di passare tre anni in galera senza sapere se la nostra innocenza sarebbe mai stata riconosciuta.. Ho fatto tante cose e ho vissuto tante esperienze che mi hanno formato. Ma certamente non posso dire che ho fatto quello che desideravo, quello che sognavo di fare a 18 anni! E così è stato per tutti gli altri. Tutti abbiamo dovuto imparare a sopravvivere con quello che eravamo in grado di fare dopo quella lunga parentesi di galera o esilio forzato. Io ho dovuto aggiungere agli interminabili anni di esilio la rottura, da un giorno all’altro, di tutti i miei rapporti con la famiglia, con gli amici, con la ragazza… Per scherzare, ma poi non tanto, del dopo 12 dicembre io parlo come della mia seconda vita, di un’altra vita.

4. ci sono dei vissuti che andrebbero rivalutati, riscoperti. Penso a Pietro Valpreda. me lo descriveresti? chi era Pietro?
L’incontro con Pietro è stato per me determinante, da una parte fu una sorta di “amore” a prima vista, e dall’altra è stato un fratello maggiore, uno che mi ha mostrato con i fatti che ci sono scelte che si possono e devono fare, anche se a volte non sono quelle più semplici.
Per come l’ho conosciuto io, posso dire che Pietro era un compagno con un’ampia conoscenza delle idee e della storia anarchica oltre che un militante, un compagno che – sebbene più grande di noi (e a quei tempi la differenza di età aveva un grosso peso) – “viveva” all’interno dello stesso nostro contesto e della cultura del ’68. Questo faceva sì che ci si sentisse a proprio agio con lui, non ci si accorgeva affatto di quella differenza di età.
Pietro, come noi, credeva fosse importante provare, sul terreno pratico, assieme alla gente, le nostre teorie, le nostre idee. Uno spirito libero dunque, ma anche generoso e sempre pieno di idee e di vita. Quello che apprezzavo di lui, era anche la sua semplicità e capacità di interrogarsi e mettersi sempre in discussione. Quando una volta un compagno di un altro circolo lo accusò di voler fare “il leader” del nostro gruppo, lui non si arrabbiò per quelle dure parole ma piuttosto iniziò ad interrogarsi su quello che poteva esserci di vero in quelle parole e decise di fare subito due passi indietro, per lasciarci più liberi. Con Pietro, come del resto con quasi tutti i compagni a me più vicini nel gruppo, si poteva parlare di tutto: dalle questioni politiche, ai problemi personali, alle pene d’amore. Dividevamo in tutto e per tutto idee, sogni, cibo e politica. Il quadro su chi fosse Pietro fatto dalla stampa, dalla polizia, dalla magistratura è ovviamente di segno opposto e purtroppo è proprio questo quadro deformato quello che viene sempre riproposto. Quel senso di unione, fratellanza e solidarietà sono cose che oggi si vedono poco. Ecco io credo che da questo bisognerebbe ripartire.

5. hai mai conosciuto personalmente Giuseppe Pinelli e che idea ti sei fatto riguardo al suo assassinio?
Ho avuto la fortuna ed il piacere di incontrare Pino in diverse occasioni (a Milano e poi ad Empoli), anche se purtroppo per troppo poco tempo, per poter affermare di averlo conosciuto. In entrambe le occasioni sono stato testimone delle conversazioni e chiarimenti tra lui e Pietro Valpreda. Ad Empoli Pinelli si impegnò, tra le altre cose, ad inviarci con regolarità il bollettino della Crocenera anarchica.
Sulla sua morte penso semplicemente che finchè uno dei vigliacchi in divisa presenti in quella stanza non parlerà (per quanto prenderei comunque la cosa con le dovute cautele) non sapremo mai quello che è realmente accaduto. Vorrei ricordare i loro nomi: CALABRESI Luigi, LOGRANO Savino, PANESSA Vito Donato Antonio, CARACUTA Giuseppe Antonio, MAINARDI Carlo Mario, MUCILLI Pietro e il responsabile per grado di quella notte nella Questura di Milano ALLEGRA Antonino.
Comunque, a prescindere dal grado, per me tutti i presenti nella stanza e tutti i dirigenti responsabili quella notte in Questura sono parimenti responsabili della sua morte e quindi degli assassini. Poco importa chi abbia dato l’ordine e chi invece lo abbia eseguito.
Vorrei sottolineare che – lo andiamo ripetendo da 44 anni assieme a Lello Valitutti, unico testimone presente in Questura che non fosse un poliziotto o carabiniere – il Commissario Calabresi era in quella stanza.
Da molti mesi, fin da prima del 12 dicembre, il commissario Calabresi e gli altri funzionari dell’Ufficio politico sospettavano Pinelli (grazie alle confidenze al veleno della spia al soldo dell’Ufficio affari Riservati, “Anna Bolena” Enrico Rovelli) di essere in un qualche modo compromesso con alcuni attentati, in particolare le bombe sui treni dell’agosto del ’69 (quelle messe dai fascisti Freda e Ventura per intenderci) per le quali erano stati accusati alcuni compagni anarchici. La polizia gli era sempre dietro, li perseguitava di continuo a Pino e Pietro, tanto è vero che per questo motivo Valpreda decise di cambiare città. Pinelli, lavorando alle ferrovie ed avendo una famiglia sulle spalle non aveva altra opzione che continuare a svolgere il suo lavoro e la sua attività politica in quella città.
Io penso che Pinelli fosse la vittima sacrificale prescelta per la strage di Milano, mentre Valpreda doveva esserlo per le esplosioni avvenute a Roma. Quando Valpreda venne arrestato (su richiesta della Questura di Roma) e tradotto a Roma la scorta che lo accompagnava e gli agenti della polizia romana lo trattavano ancora in modo abbastanza rilassata. Solo dopo la morte di Pino ci fu la svolta e tutto venne dirottato su di lui. Oggi sappiamo che fu la spia Enrico Rovelli a indirizzare le indagini verso Pinelli e Valpreda.
La mia impressione è che l’affondo che lo Stato voleva portare contro di noi avesse in origine altri e più importanti obiettivi. Che si tentò di distruggere il movimento anarchico nel suo insieme e non solo noi.
Non mi posso dilungare sul perché di questa mia ipotesi perché ci ruberebbe troppo tempo, però permettimi di abbozzare a grandi linee su cosa si basa questa mia teoria. Siccome mi sembra altamente improbabile che per organizzare e preparare un attentato del genere -5 bombe che esplodono simultaneamente tra Roma e Milano, l’utilizzo di esplosivo e timer che solo mani esperte potevano confezionare e infine trovare le persone disposte a farlo – non sia stato necessario lavorare con un congruo anticipo di tempo. Se questo è vero, allora vuol dire che nessuno poteva prevedere la nostra fuoriuscita dal circolo Bakunin (quindi dalla FAI-FAGI) che avviene verso la fine di ottobre. Quello che pochi sanno è che Pinelli aderiva ai GIA cioè l’altra Federazione anarchica che – assieme alla FAI – rappresentavano l’anarchismo storico italiano. Senza “scissione” quindi le indagini avrebbero puntato direttamente al cuore della tradizione anarchica italiana.

6. ormai è chiaro che a commissionare la Strage di Piazza fontana fu lo stato. Come ci si sentiva ad essere accusati e detenuti ingiustamente anzi direi illegalmente da innocenti?
Ti ringrazio di avermi fatto questa domanda, perché è un tipo di domanda che non ci viene quasi mai rivolta. Da noi ci si attendono solo ed esclusivamente delle risposte politiche, le testimonianze dirette dei fatti, ma ci si dimentica sempre che siamo delle persone come tutte le altre, che eravamo dei ragazzi con molte idee in testa e molti progetti per il nostro futuro.
In tutti questi anni oltre ad essere stati “spoliticizzati” siamo anche stati “disumanizzati”.
Quello che abbiamo vissuto allora, il linciaggio pubblico, l’onta di quella accusa allucinante, le violenze della polizia e dei magistrati inquirenti (non solo contro noi ma anche verso i nostri familiari), non sono cose che possono cancellarsi col tempo. Possono essere tenute sopite dentro noi, ma poi, anno dopo anno ci sono sempre quegli stessi giorni e numeri sui calendari – le fatidiche date del 12 dicembre e del 15 e 16 dicembre – che ritornano. In quelle ricorrenze, non è possibile non ricordare le nostre sofferenze e tanto meno l’assassinio, il volo dalla finestra della Questura di Milano di Pino Pinelli.
In quelle occasioni subiamo una sorta di metamorfosi: noi siamo, o meglio torniamo ad essere, gli stessi ragazzi di allora. Riviviamo con la stessa intensità il dolore di quei momenti, piangiamo i nostri morti e ricordiamo l’ingiustizia e la pavidità di questo stato che non ha avuto il coraggio di fare giustizia vera (ma d’altronde può lo stato condannare se stesso?) sia nel condannare i fascisti che i servizi (non deviati, sia ben chiaro, ma che obbedivano a ben precisi ordini), ma ancor più per non aver avuto il coraggio di riconoscere la nostra totale estraneità a quei fatti tanto abominevoli quanto lontani dalla nostra ideologia, e darci una assoluzione piena, che ci togliesse di dosso ogni ombra di dubbio. Questo semplice dato di fatto brucia dentro di noi, ci ricorda chi siamo e cosa è stato fatto contro di noi. E’ inutile girarci attorno: le nostre vite sono state spezzate, interrotte violentemente e nulla può cambiare questo fatto, questa realtà.

7. cosa significava e cosa significa ancora oggi per te essere anarchico?
Il mio modo di essere anarchico allora e quello di oggi non sono molto dissimili. Anche in questo mi sento in qualche modo “congelato” nel tempo. D’altronde per me essere un anarchico non è altro che aver fatto una scelta di vita, perché anarchici non lo si è solo per una questione di testa.
Essere anarchico vuol dire cercare di costruire nella quotidianità spazi per quanto possibile autonomi, liberati. Un tentativo di immaginare e applicare le idee anarchiche nella vita quotidiana. Quello che è interessante – per noi anarchici e libertari – è l’adozione di metodi di consenso orizzontale, autogestito, senza delega. Basta vedere quel che accade in Val di Susa, con il movimento NoTav per capire il nostro modello.
Sono ancora insofferente ad ogni forma di potere e di gerarchia, odio ogni forma di burocrazia, mi disgusta ogni forma e idea di sottomissione di ogni essere umano, sia esso persona o animale, sogno la distruzione di ogni carcere, di ogni CIE o luogo di costrizione fisica e psichica. L’anarchia è l’ordine senza il potere, è la realizzazione di una società autoregolata dove bisogni e diritti di tutti sono rispettati. E’, usando un vecchio slogan un “assalto al cielo” continuo, senza interruzioni e senza costrizioni.

8. che messaggio lasceresti ai giovani che non sanno nulla del periodo che hai vissuto?
Per favore, non caricarmi di una tale, troppo grande per me, responsabilità. Io posso solo suggerire le stesse cose che dico anche a mia figlia. Prima di tutto di non credere fideisticamente a nessuno, me compreso. Secondo, che fra l’enorme quantità di articoli e libri scritti su di noi, quelli passabili si possono contare sulle dita di una mano e anche quei pochi – per quanto riguarda noi in particolare – danno dei racconti parziali.
Ad oggi ancora non è stato scritto un libro con il ricordo e la testimonianza degli ex del circolo 22 marzo.
Se si sceglie di leggere l’enorme mole di atti processuali (qualcosa come 800mila pagine) bisogna ricordarsi che sono stati scritti da magistrati, da poliziotti, da vari servizi segreti, per cui sono solo materiali manipolati “geneticamente”. E’ fondamentale imparare a leggere in maniera critica prima di iniziare a …leggere. Nonostante queste difficoltà è un bene, anzi è dovere di ogni compagn@, conoscere a fondo quel periodo storico e quegli anni meravigliosi (pur se violenti). Stanno cercando di riscrivere la storia per cui solo conoscendola sarà possibile vedere, scegliere con coscienza e maturità, il proprio percorso politico e umano.
Quello che è successo a noi, non è un fatto isolato e lontano come sembra, ma è la strada che ha permesso che ancora oggi innocenti possano finire in galera per le loro idee, che le manifestazioni si incontrino di fronte a muri di celerini che fanno uso di violenza indiscriminata, che ancora oggi sia possibile a delle persone di entrare vive in un Commissariato ed uscirne morte…
Senza giustizia (non quella dei tribunali ovviamente) non vi è verità, e senza verità non si raggiunge la libertà (liberazione). Io credo che molti giovani lo sappiano già questo, e che non abbiano bisogno di “messaggi” in bottiglia di persone come me.

9. secondo me un ruolo preponderante deve essere assunto dalla memoria. bisogna ricordare sempre. far emergere l’esistenza di una storia altra che è il risultato della fusione di tanti microcosmi che in quel periodo decisero di fondersi in una unica galassia di solidarietà, di lotte e giuste rivendicazioni. bisogna andare oltre la storia ufficale, che di ufficiale ha solo il sangue delle vittime innocenti, dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine e dai neofascisti, dalle bombe dello stato stragista. bisogna smontare i luoghi comuni che il potere uscito vincitore dallo scontro ha condensato nella definizione “anni di piombo” affinché di quegli anni passasse un determinato messaggio. è in atto da tempo un processo di cancellazione della memoria privata ma soprattutto collettiva. cosa pensi del ruolo della memoria?
Quando tre anni fa il “giornalista investigativo” Cucchiarelli, ha tirato fuori il suo libro di disinformazione sistematica per gettarci nuovamente in pasto alle belve, le nostre ferite si sono riaperte e hanno ricominciato a sanguinare.
Non so se puoi immaginare cosa significhi, a livello emotivo, a 44 anni dai fatti, essere nuovamente posti all’indice come i colpevoli di quella orribile, vigliacca e ignobile strage
Io non credo ci sia nulla di casuale, e che non sia un caso che si sia atteso vigliaccamente la morte di Pietro Valpreda, che quindi non può più difendersi, per gettargli/gettarci nuovamente addosso tutto questo fango. Come non credo sia casuale che si sia fatto un film per cercare di perpetuare l’immagine falsa e deformata che lo stato stragista ci ha confezionato addosso.
Questo tentativo di riscrittura revisionistica della storia non poteva che riaprire quelle vecchie ferite obbligandoci a ricordare tutti i giorni. Per poterci difendere, per far conoscere la verità, da quattro anni a questa parte non ricordiamo più quello che avvenne il 12 dicembre solo in quella ricorrenza, ma lo dobbiamo fare tutti i giorni dell’anno. Siamo costretti a leggere atti, documenti, le manipolazioni, invenzioni e illazioni dei giornali e dei nuovi “testimoni” per poter trovare quello che serve a dimostrare la falsità di queste vecchie e nuove infamanti menzogne. Leggere quelle bassezze, vedere riflessa negli atti giudiziari la crassa ignoranza degli investigatori sulla cultura di quel tempo e sulle idee anarchiche ha fatto si che il dolore, la sofferenza ora sono nuovamente un fattore quotidiano con cui dobbiamo convivere. E’ come se le lancette dell’orologio fossero tornate indietro nel tempo!
Il paradosso di questa situazione è che dobbiamo perfino difenderci da accuse e reati che la stessa magistratura – una magistratura ed una giustizia in cui noi non crediamo – ha ritenuto in maniera chiara e definitiva che non abbiamo commesso!
Oltre il dolore, oggi si aggiunge anche la rabbia verso delle persone che sulla base di quanto raccontano fascisti e agenti segreti che depistarono fin da subito le indagini verso di noi, senza neppure aver letto tutti gli atti (le circa 800mila pagine di atti sono state recuperate e rese pubbliche solo un anno fa), ci vorrebbero nuovamente colpevoli. Persone che con estrema leggerezza si fanno giudici e carnefici e giocano con la vita degli altri, le nostre vite. L’incubo si ripresenta seppur sotto forma di tragica farsa. Ma questa volta noi non taceremo, non permetteremo a nessuno di infangare nuovamente le nostre storie e le nostre vite.
Finché uno di noi resterà in vita la nostra lotta per la Verità e la Giustizia continuerà senza soste.
La Memoria è un bene prezioso che deve essere non solo difesa ma anche vissuta nelle lotte di oggi, per impedire che certe schifezze si ripetano e che altri giovani soffrano le nostre stesse pene, ed evitino i nostri errori. Sono ben cosciente e molto preoccupato di quello che sta avvenendo in particolare in questi ultimi anni. Il tentativo di riscrittura storica, di manomissione e cancellazione storica – come tu correttamente l’hai definito – non riguarda ovviamente solo noi: vogliono cancellare e riscrivere un intero periodo storico che parte grosso modo dalla fine degli anni sessanta ad oggi. Nessuno di noi può vincere isolato o difendendo la sua particolare “memoria”, la Memoria è un fatto collettivo ed appartiene a tutti noi. Se solo uno dei pezzi di questo mosaico subisce variazioni e viene riscritto, tutto il mosaico cambia. Questa lotta deve essere combattuta da tutti, sia da coloro che quella stagione di lotte e sconfitte hanno vissuto e sopportato sulle proprie spalle, che dalle giovani generazioni le quali, senza il supporto di quella memoria, si troverebbero disarmate ad affrontare il futuro.

Chantal Briganterossa Castiglione

Fonte http://briganterossa.blogspot.com/2013/12/la-memoria-intervista-ad-enrico-di-cola.html