ERRICO MALATESTA FRA CONTADINI DIALOGO SULL’ANARCHIA

ERRICO MALATESTA FRA CONTADINI DIALOGO SULL’ANARCHIA

Questa ristampa del “Fra Contadini” riproduce fedelmente quella curata dalle Edizioni RL di Napoli nel 1948,
compresa la nota che segue:

Questo piccolo gioiello della letteratura rivoluzionaria ed anarchica., come lo definì Luigi Fabbri, non ha bisogno di una particolare presentazione. Basterà ricordare che fu scritto da Errico Malatesta nel 1883, a Firenze, nel tempo in cui il nostro compagno compilava il periodico La Questione Sociale. La prima edizione uscì appunto in Firenze nel 1884 e ben presto si apre la serie delle traduzioni. Pietro Kropotkine ne curò l’edizione francese, nel 1887, e nel 1891 uscì l’edizione inglese. Moltissime sono le edizioni nelle diverse lingue: spagnola, tedesca, rumena, olandese, norvegese, boema ecc. ecc. Se ne hanno traduzioni in ebraico, in armeno e in fiammingo. A Parigi, nel 1898, fu stampata la prima edizione cinese. Innumerevoli sono le edizioni pubblicate in Italia. Nel 1923, a cura del periodico Fede, se ne ebbe una edizione riveduta dallo stesso Malatesta ed è quello il testo da noi riprodotto nella edizione presente. Il successo dell’opuscolo testimonia da sè l’importanza dello scritto e la sua grande efficacia per la propaganda. Vi parlano due contadini, nel limpido dialogo spoglio di frasi retoriche, così semplice e umano, ed è perciò
specialmente adatto alla propaganda fra il proletariato delle campagne. Ma la lettura dell’opuscolo è utile a tutti i lavoratori indistintamente poichè vi si affronta l’intero problema sociale, sotto tutti gli aspetti. E le argomentazioni conquidono ben presto il lettore perchè Malatesta, con l’arte garbata del dialogo, dopo aver parlato al cuore sa far ragionare convenientemente il cervello. Tutti gli scritti di Errico Malatesta, come è ben noto, hanno il sorprendente pregio di sembrare scritti oggi, per i problemi attuali . Anche questo dialogo darà perciò, ai contadini ed ai lavoratori, l’impressione di trattare argomenti sommamente aderenti alla realtà contemporanea, tanto vivi e veri sono i ragionamenti di Giorgio, l’anarchico che con fede di apostolo spiega al proprio compagno di lavoro che cosa vogliono gli anarchici e che cosa è l’anarchia.

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fracontadini

L’arringa per la difesa di Gaetano Bresci nel processo per il regicidio

La sera di domenica 29 luglio 1900, l’anarchico Gaetano Bresci uccise il re d’Italia Umberto I sparandogli con una rivoltella. Dopo il rifiuto di Filippo Turati, Bresci fu difeso al processo dall’avvocato Francesco Merlino. Abbiamo recuperato sulla rivista “Il Pensiero” (25 dicembre 1903) l’arringa difensiva pronunciata da Merlino: uno straordinario documento storico, che vi riportiamo qui di seguito in versione integrale.


UNA DIFESA IN CORTE D’ASSISE

(Processo contro GAETANO BRESCI, Milano, 29 agosto 1900)

Avv. Merlino. — Signor Presidente, prima di cominciare, io sono costretto di pregarla di voler far prendere nota nel verbale, che il Rappresentante il P. M., nella sua requisitoria, ha affermato che il Bresci ebbe un complice, ed ha parlato di un telegramma e di atti i quali si riferiscono precisamente al processo contro i complici del Bresci. Siccome questa circostanza può avere un’influenza sulla sorte del gravame che noi interporremo contro una precedente ordinanza di questa Corte; adempio ad un compito della difesa chiedendo che si prenda nota di essa nel verbale.

Presidente. — Sarà fatto

Avv. Merlino. — Cittadini giurati. Il cortese saluto che il Rappresentante del P. M, ha voluto indirizzare non solo al mio collega quale rappresentante del Foro Milanese, ma anche a me, mi dispensa dal dire troppe parole per spiegarvi la mia presenza a questo banco.

Io non vengo qui a portare le mie convinzioni politiche: vengo ad adempiere ad un sacro dovere qual è quello della difesa. Purtroppo, in certe circostanze, si è corrivi agli eccessi ed alle esagerazioni. Ed uno degli eccessi, una delle esagerazioni, che si sono fatte strada in questa circostanza, è che si dovesse fare a meno di tutte le formalità solite di un giudizio, che si dovesse trasandare alle esigenze della legge, che quasi non occorresse un difensore, non occorresse dibattimento, che il giudizio e la condanna dovessero seguire ratte come il fulmine al delitto. (Movimenti del pubblico).

Ora questa esagerazione è, lasciatemelo dire, indegna di uomini seri e di un popolo civile. (Nuovi movimenti nel pubblico).

Noi dobbiamo serbare in tutte le circostanze, anche nelle più gravi, la nostra calma e la nostra dignità, e dobbiamo dare al mondo civile la prova che noi sappiamo rispettare i diritti della giustizia, che sappiamo assolvere il compito nostro, senza lasciarci sopraffare da sentimenti di odio o di vendetta, da nessuna passione, che possa velare la nostra mente e fuorviare il nostro giudizio.

Purtroppo l’intromissione di passioni estranee nella causa presente si è rivelata, anche nella requisitoria che or ora avete udita.

Imperocchè il Procuratore Generale ha creduto di dovervi dire che la vostra indulgenza sarebbe una nota stridente nel plebiscito italiano di dolore. Egli ha creduto di dover alludere ad altri precedenti simili processi, e qua e là ha dato a di vedere una certa preoccupazione d’indole politica. Voi dovete scacciare queste preoccupazioni dagli animi vostri: voi dovete amministrare giustizia con calma e serenità. E quella stessa moderazione che a noi ci veniva raccomandata dal banco dell’accusa, io oso raccomandarla a voi.

Imperocchè non crediate che coi verdetti eccessivi, colle condanne atroci si reprima il delitto. Noi abbiamo la prova del contrario, appunto nei fatti precedenti all’attuale, ai quali ha alluso il P. M. No! I gravi delitti non trovano un freno nella repressione. Certi gravi delitti, come l’attuale, rispondono a gravi problemi sociali. (Movimenti nel pubblico).

E questi problemi sociali devono essere studiati e risoluti con amore, con coscienza da tutti i buoni cittadini. No, non è la pena grave che cada sopra costui che possa trattenere altri disposti a sagrificare la propria esistenza, per un’idea anche errata che sia nella loro mente, dal compiere i loro propositi; ed è una pericolosa illusione il credere come noi facciamo, che colpendo severamente un reato, noi ne impediamo altri. Pericolosa illusione perché essa ci distoglie dall’avvisare ai veri rimedii dei mali sociali che ci travagliano e che nel delitto si velano.

Il P. M. ha detto che egli non sarebbe entrato nella discussione delle teorie anarchiche; ciò non dimeno egli ha fatto delle affermazioni che io non posso lasciar passare, per le conseguenze che egli ne ha tratte, e che anche voi potreste trarne nei riguardi del vostro verdetto.

Egli ha detto che il delitto di oggi è delitto dell’anarchia, che il cammino dell’anarchia è tracciato da atroci misfatti, che colui il quale fu il capo, l’ispiratore, il maestro dell’anarchismo aveva un solo scopo: la distruzione; che il partito anarchico si può paragonare alla sètta degli ascisci, capitanata dal Vecchio della Montagna; che Paterson è addirittura la cittadella degli anarchici; che ivi si tengono pubbliche conferenze ove discutesi il fatto individuale, che vi si pubblica un giornale intitolato l’Aurora e che in questo giornale si fa apertamente l’apologia del regicidio.

Ora, tutte queste affermazioni non sono confortate di prova alcuna e non rispondono al vero. Il regicidio non è, non può essere un principio anarchico. Ammazzare un uomo, sia un re, sia un capo di governo, sia un avversario qualsiasi, non può risolvere nessun problema sociale.

Il regicidio, prima, e molto prima che fosse praticato dagli anarchici, e notate bene, da alcuni anarchici soltanto (or ora vi dirò le ragioni per cui questi anarchici ricorrono a questo mezzo di lotta), il regicidio, prima ancora che dagli anarchici, è stato praticato da tutti gli altri partiti politici.

Voi conoscete la storia meglio di me, e non ho bisogno di ricordarvi che al regicidio hanno ricorso i monarchici contro i capi di governo repubblicano, i repubblicani contro i capi di governo monarchico, i cattolici contro i protestanti, i protestanti contro i cattolici: al regicidio hanno ricorso le sètte le quali intendevo, a un qualsiasi fine politico; il regicidio è stato in certe circostanze considerato, bene o male, come un atto di buona guerra. Esso non è un’invenzione degli anarchici, è un’idea che ricorre alla mente di uomini che lottano contro un dato ordine sociale, che si illudono di poter colpire quest’ordine sociale in colui che esteriormente lo rappresenta.

Io non voglio allungare questa discussione, leggendovi per intiero un discorso di un deputato italiano pronunciato in pieno Parlamento Subalpino nel 1858, all’indomani del tentato regicidio contro Napoleone III da parte di Felice Orsini. Quel deputato era il Brofferio. Egli pronunciò quel suo discorso (che è una vera apologia del regicidio) fra gli applausi di un buon numero dei sui colleghi.

E citò tutti coloro i quali nella storia hanno fatto l’apologia del regicidio. E sapete chi citò? Citò, gente di tutte le condizioni sociali, scrittori politici, poeti, perfino padri della chiesa: citò la Bibbia, dove Giuditta è glorificata per aver ucciso Oloferne, citò Cicerone. Ed infine a queste citazioni si trova nel discorso la dichiarazione fatta dal Brofferio della propria opinione intorno al regicidio, la quale è questa: «Ben più seria querela — dice Brofferio — muoverei all’on. Della Margherita. Voi udiste, o signori, le sue parole sopra Felice Orsini. Felice Orsini ha potuto trovare a Parigi un francese che con nobili accenti ha evocato, prima di morire, sopra il suo capo, le simpatie dell’Europa. Felice Orsini aveva attentato alla vita di Napoleone III e Brofferio dice che il suo difensore Jules Fàvre, con nobili accenti, aveva chiamato sul suo capo le simpatie dell’Europa, «E si doveva — aggiunge il Brofferio — in un Parlamento italiano, trovare un italiano che ai piedi del patibolo lo chiamasse malfattore!» Brofferio negava che Felice Orsini fosse un malfattore.

E dopo ciò, verrete voi a dirmi che sono gli anarchici che hanno inventato il regicidio?

È vero, alcuni anarchici hanno attentata alla vita dell’uno o dell’altro capo di Stato. E noi continuamente ci poniamo questo problema: «Come è che costoro sono anarchici, ma più particolarmente anarchici italiani, ed ancor più particolarmente anarchici italiani emigrati dal loro paese? I principii anarchici sono gli stessi, siano essi professati da inglesi, tedeschi, francesi o da italiani: ciò non di meno noi vediamo questa grande differenza: gli anarchici degli altri paesi non ricorrono al regicidio: vi ricorrono i soli italiani.

Qui è necessario che noi discorriamo delle cagioni di questi fatti, perché da esse noi potremo trarre gli elementi per un giudizio più equo, meno esagerato, anche nei riguardi dell’attuale accusato.

Per taluni la spiegazione è semplice. Gli anarchici italiani sono sanguinarii più degli anarchici appartenenti alle altre nazioni, per la stessa ragione per la quale in Italia si commette un maggior numero di omicidii che non negli altri paesi.

Questa spiegazione non mi persuade. È vero che nel nostro paese si commettono, disgraziatamente, più omicidi che non negli altri paesi; ma sono omicidi di impeto, passionali, mentre quelli premeditati, i grandi delitti, i grandi assassinii sono forse più frequenti in altri paesi che non da noi; certamente più in Francia che non in Italia.

Ora noi siamo precisamente nel caso di un omicidio non passionale, ma premeditato, nel caso, se mi è permessa l’espressione, del grande delitto.

Una seconda spiegazione che da taluno si dà, è stata anche accennata dall’attuale accusato: il disagio economico dei nostri operai, disagio che li inasprisce, li eccita e li induce ad atti di ribellione.

Ora io mi permetto di non convenire neppure in questo. Non ascrivo sia le cause di questo reato il disagio economico degli operai, per la semplice ragione che operai i quali versino in tristissime condizioni ve ne sono pur troppi in altri paesi; operai emigranti più poveri degli Italiani sono gli Ungheresi, gli Scandinavi, i Cinesi, gli Irlandesi, che pure si incontrano nei paesi di grande immigrazione come gli Stati Uniti. Non si spiegherebbe come fra tutti questi operai di diversi paesi, i quali si trovano tutti in grande disagio economico, semplicemente agli italiani venga in mente di ricorrere a questo mezzo per reagire contro le proprie tristi condizioni economiche.

Queste ragioni quindi non spiegano il fatto, ed il problema sussiste.

Ve ne sono altre, le quali ci danno la chiave dello enigma, ed a me corre il debito di dirle.

Avanti tutto, per parlare particolarmente del regicidio, dobbiamo tenere in considerazione due fattori: lo storico ed il politico. Il fattore storico è questo: in Italia sopravvivono ancora le tradizioni dei diversi governi assoluti, quindi la tendenza nella popolazione, in generale, di personificare il governo dello Stato nel Re: noi italiani non abbiamo ancora l’educazione politica degli altri popoli: non comprendiamo quanto sia complicato l’ingranaggio sociale: abbiamo bisogno di semplificare la nostra concezione dello Stato e lo Stato lo vediamo nel capo di esso. Quindi se altri hanno bisogno di un soccorso, crede opportuno di rivolgersi alla munificenza reale; se altri riceve un torto, ragiona e dice che alla fine dei conti l’autore primo e principale di questo torto deve essere il capo dello Stato.

E questo convincimento, che ci viene dalla tradizione, è pur troppo confortato da una propaganda che giorno per giorno si va facendo per il ritorno ad aboliti regimi di governo: la propaganda assolutista… (Movimenti nell’uditorio) …di cui si fa eco una certa stampa, e che non incontra da parte dell’autorità giudiziaria, nessuna repressione. Nei giornali voi leggete spesso volte frasi di questo genere: Quanto sarebbe bene che il Re mandasse a casa i deputati e governasse lui solo!

Quale altro effetto possono produrre nella mente delle persone non molto istruite queste affermazioni se non quello di confermarlo nel pregiudizio che il Re, volendo, possa egli solo provvedere a tutte le faccende del bel paese d’Italia, regolandole tutte secondo un principio ideale di equità e di giustizia che valga a rimuovere ogni ragione di lamento?

È la propaganda assolutista quella che ha contribuito a rafforzare la persuasione che il Re debba rispondere di tutti i mali che soffrono le popolazioni. (Movimenti nell’uditorio)

A questo bisogna aggiungere un altro fatto importantissimo, e voi vedrete e direte nel vostro verdetto se effettivamente l’errore che è nella mente di colui (accennando all’accusato) sia imputabile soltanto a lui o lo sia anche ad altri, e direi quasi all’universalità dei cittadini d’Italia. (Agitazione nell’uditorio).

E questo altro fatto è che noi effettivamente abbiamo attraversato un periodo acuto della nostra vita politica. Vi è stato un momento in cui, come diceva l’imputato, pareva che le nostre libertà fossero in pericolo; pareva che la gran legge dello Stato fosse solo in salvezza del Governo: fu proclamato che per una ragione suprema di necessità e di difesa della propria esistenza, il governo avesse il diritto di manomettere le leggi, di violarne lo Statuto, di creare tribunali straordinarii, di mettere stati d’assedio e fare tutto quello che venisse in mente al presidente del Consiglio dei ministri. (L’agitazione nel pubblico va crescendo).

Noi siamo usciti fuori dal terreno delle libertà, abbiamo ricorso alle violenze; sì! il Governo ricorse alla violenza; e non dovete meravigliarvi se l’esempio della violenza, venendo dall’alto, provocasse una reazione dal basso della società, se c’è stato chi ha creduto ad un’altra necessità, a quella cioè di opporre alla violenza del Governo la violenza privata. (Segni mal repressi di disapprovazione nel pubblico).

Procuratore generale. — Mi pare che questo…

Avv. Merlino. — Questo è il fattore politico della delinquenza anarchica in Italia. Ma un’altra ragione più speciale, deve essere addotta in difesa dell’accusato: il trattamento che è stato fatto agli anarchici nel nostro paese. Perché, notatelo bene, o signori giurati, per quanto si vogliano dipingere a foschi colori i principii degli anarchici, ciò non pertanto in Inghilterra ognuno è libero di esporre le sue teorie, di tenere quelle conferenze cui accennava il P. M., e la polizia non interviene, ed in Inghilterra non accadono attentati anarchici, come da noi.

Da noi, invece, si è stabilito in principio, che l’anarchico non ha il diritto né di pubblicare giornali, né di parlare in pubblico, né di esporre in modo alcuno le proprie convinzioni, né di costituirsi in associazione coi suoi compagni di fede. Gli anarchici non hanno il diritto di esistere come partito, e come individui sono perseguitati quali belve feroci dalla polizia, che crede… (viva agitazione nel pubblico)

Presidente, — Avvocato, veda di mantenersi strettamente nei limiti della causa (approvazioni vivissime dal pubblico — tentativi di applausi)

Avv. Merlino (concitato), — Io faccio appello alla civiltà…

Presidente. — Avverto il pubblico che non sono permessi segni di approvazione o di disapprovazione, e che, rinnovandosi, farò sgombrare immediatamente la sala, e si procederà a porto chiuse.

Avv. Merlino. — Signor presidente, io credo di essere precisamente nei limiti della causa, quando rispondo alle argomentazioni del rappresentante l’accusa. Il P.M. ha parlato di una cittadella di anarchici, Paterson: io posso spiegarvi coi documenti alla mano, come essa si sia formata. In Italia, e propriamente ad Ancona, si pubblicava un giornale intitolato L’Agitazione, e direttore o redattore capo ne era un uomo che voi tutti conoscete di nome e di cui si è fatto anche parola in questo processo: Errico Malatesta. Ebbene, in questo giornale — e ne ho qui i numeri, che posso passare al rappresentante l’accusa (anche perché il problema è gravissimo e merita di essere studiato sotto molti riguardi, non solo in quelli del processo attuale) — in questo giornale il Malatesta diceva espressamente: noi anarchici non domandiamo che di poter fare la nostra propaganda nei limiti che ci sono consentiti dalla legge: di poterci costituire in associazione e di poter partecipare ai tentativi che fanno le classi operaie per il miglioramento delle loro condizioni economiche e di essere rispettati come tutti gli altri partiti politici nell’esercizio delle pubbliche libertà.

Sapete come si rispose alla propaganda strettamente pacifica del Malatesta e dei suoi compagni in Ancona? Si rispose con un processo per associazione a delinquere; e quando i magistrati di Ancona, in prima istanza, e poi in di appello, assolvettero gl’imputati dichiarando tra altre cose che risultava luminosamente provata la loro alte moralità, il Governo non si peritò di mandarli a prendere e confinarli nelle isole!

Il Malatesta dovette arrischiare la vita per riacquistare la sua, libertà, e si recò prima a Londra, poi a Paterson. lo sono convinto che egli non ha fatto l’apologia del regicidio; ma nello stesso tempo credo bene che egli, non avrà cantato le lodi del governo italiano. Ecco come si spiega la cittadella degli anarchici.

Presidente, — La prego nuovamente, avvocato: venga alla causa.

Avv. Merlino, — Questa è la causa.

Presidente, — No, non è la causa.

Avv. Merlino, — Con le sue persecuzioni, la polizia spinge alcuni di questi anarchici, i più impulsivi, a reagire; li caccia dal proprio paese; toglie ad essi i mezzi di lottare nel campo politico e legale e crea loro un ambiente.

Presidente. — Io non posso lasciarla continuare di questo passo: venga alla parte legale della causa e veda di stringere e possibilmente di conchiudere.

Avv. Merlino, — La parte legale della causa è precisamente questa. L’ambiente artificiale a cui ha accennato il P. M. nel quale questa gente è costretta a vivere…

Pubblico Ministero, — Io non ho parlato di questo! Ho detto: la difesa potrà dire che l’ambiente di Paterson abbia potuto contribuire a demoralizzare l’accusato…

Avv. Merlino. — La mia tesi difensiva è legalissima ed è questa: noi tutti ormai conosciamo che il delitto collettivo va misurato ad una stregua diversa del delitto individuale. Si è parlato molto del delitto della folla e ci sono non solo autori, ma anche sentenze di magistrati, le quali ritengono che il delitto commesso in una folla abbia in questo stesso fatto un’attenuante. Ma, se io vi dimostro che effettivamente vi è un ambiente artificiale, nel quale questi anarchici si trovano insieme, stretti da una comune persecuzione, e vi si esaltano a vicenda e qualcuno di essi viene a propositi di questo genere, io dico: voi non potete essere severi con costui, perché se riandate le cause del suo delitto, la causa, la causa prima la rinverrete nell’azione di coloro che, avversando le sue idee, gli hanno negato il diritto che deve essere riconosciuto ad ogni cittadino di professare i principii, che crede giusti, di lottare per l’attuazione pacifica dei proprii ideali. (Rumori nel pubblico).

Presidente, — Avvocato non si fermi davvantaggio su queste argomentazioni: la prego un’altra volta di venire alla conclusione.

Avv. Merlino, — Signor presidente, io credo di dovervi insistere.

Presidente. — Ella non ha il diritto di insistere. Ella non può venir qui ad accusare: non può venir qui a far della propaganda.

Avv. Merlino. — Io sono nella causa, io non faccio propaganda. Ella vede che non ho discussi i principii.

Presidente — Se non sarà propaganda sarà apologia. Ella su certe argomentazioni si ferma un po’ troppo e con troppa passione; quindi veda di trattare la causa nei limiti strettamente necessari alla difesa dell’accusato. (Approvazioni vivissime e mal represse da parte del pubblico)

Avv. Merlino, — La troppa passione è segno della profondità della mia convinzione.

Presidente, — E sia; ma si tenga strettamente alla causa.

Avv. Merlino, — Del resto mi permetto di osservare che questa tesi fu anche sostenuta dinanzi alla Corte d’assise di Napoli dall’illustre avv. Tarantini, in un processo perfettamente identico.

Procuratore generale. — Il Tarantini sostenne proprio il contrario,

Avv. Merlino. — Precisamente ; ciò nondimeno io ho ragione di invocare il suo esempio… E spiego subito questa apparente contraddizione. Anche l’illustre avvocato napoletano sostenne che dal fatto bisognasse rimontare alla causa; se non che rinveniva la causa del regicidio nella troppa libertà e nella troppa istruzione, ed io la ritengo invece nella poca o nessuna libertà lasciata ad alcuni cittadini e ad alcuni partiti. Dunque, se era nei limiti della causa l’avv. Tarantini, mi pare di esservi anch’io.

Presidente, — Al contrario.

Avv. Merlino. — Signor Presidente, signori Giurati: che cosa è il delitto politico? È l’insorgere che un individuo o pochi individui fanno contro il regime di cose esistente. Ed io sono il primo a riconoscere (in ciò discorde dall’opinione di ben noti autori), che il delitto politico abbia in sé un vero contenuto morale; perché non si ha il diritto di insorgere contro la volontà della maggioranza della nazione è di imporle un mutamento di regime colla violenza. Questo deve essere riconosciuto in qualunque regime politico, anche domani, se ne avessimo un altro, puta caso), il socialista. È necessario che coloro i quali hanno opinioni contrarie al vigente ordinamento dello Stato facciano valere le loro opinioni per mezzo della propaganda pacifica, finché quelle opinioni guadagnino il consenso universale e si impongano. Questo però importa, che si consenta una tale propaganda. Per impedire il delitto politico non vi è che un solo metodo: libertà per tutte le opinioni.

Quando negate libertà a certe opinioni, quando voi maggioranza commettete abusi ed ingiustizie, allora necessariamente, inducete la minoranza ad uscire anch’essa dal terreno della legalità, e violare in voi quella libertà che voi violate in essa.

Presidente. — Signor Avvocato: qui non vi sono abusi né violenze di sorta. Veda, per carità, di attenersi alla causa, di stringere gli argomenti, di abbandonare certe sue teorie: le potrà spiegare in altra sede. Qui deve trattare legalmente la causa, lasciando da parte certe teorie elastiche.

Avv., Merlino (concitato). — Lei, signor Presidente, non ha interrotto il P. M. quando anch’egli ha accennato a teorie.

Presidente, — Il P.M. non ha mai esorbitato.

Procuratore generale. — Io ho parlato di fatti, non di teorie.

Avv., Morlino, — E di fatti sto parlando anch’io.

Procuratore generale. — Lei mi viene a ragionare del delitto politico, e mi viene a confondere il delitto politico con l’assassinio del Re!

Avv. Morlino, — Precisamente, si tratta di un assassinio politico.

Procuratore generale. — Uccidere un uomo è sempre un assassinio. (Benissimo! Approvazioni vivissime da porte del pubblico — Rumori mal repressi).

Presidente. — Facciamo silenzio — La prego un’altra volta, avvocato, di stringere e di conchiudere. Ella ha parlato abbastanza su questa questione. Venga nella parte legale, se crede, e poi conchiuda; altrimenti io sarò obbligato a richiamarla un’altra volta nell’ordine e di ricorrere ad altri provvedimenti che lei conosce.

Avv. Merlino (eccitatissimo) — Prima che il Presidente venga a questo provvedimento, desidero che sia inserita a verbale la mia tesi.

Procuratore generale. — Crede che non sia morale, secondo lui, ma ha sostenuto la giustificazione del delitto politico!! Lo chiedo anch’io che lo si inserisca a verbale.

Presidente, — S’inserisca a verbale che l’avv. Merlino tratta lungamente di teoriche intese a giustificare il delitto politico, e che il Presidente lo richiama all’ordine per la seconda e per la terza volta.

Avv. Merlino. — Prego anche s’ inserisca: L’avv. Merlino chiede e fa istanza perché sia inserito a verbale che egli sostiene questa tesi: che tra le cause del delitto attribuito al Bresci vi sono cause di indole generale e che queste cause d’indole generale debbono essere tenute in considerazione nel misurare la responsabilità da attribuirsi al Bresci medesimo.

Presidente, — Si dia atto all’avv. Merlino di questa sua dichiarazione, e poi basta.

Avv. Merlino. — Come voi vedete, mi è impossibile di svolgere il concetto che io avevo tentato di tar penetrare nelle vostre menti, vale a dire che voi dovete in questa causa tener conto di tutti i fattori i quali hanno potuto determinare il Bresci a commettere il regicidio; pur essendo la mia tesi perfettamente legale, mi è vietato di svolgerla, perché necessariamente alcune mie frasi hanno urtato le convinzioni del P. M.

Non mi rimane, dunque, che a conchiudere. Noi dobbiamo distinguere due cose perfettamente diverse; la vendetta dalla giustizia.

La vendetta è una semplice ritorsione dell’ingiuria, la giustizia è una riaffermazione del diritto mediante l’esame calmo, freddo, rigoroso e minuto di tutte le responsabilità.

Ora in questa causa viene continuamente in conflitto il sentimento della vendetta col sentimento della giustizia. Forse questo accade in tutte le cause, ma un po’ più in questa — l’idea corre alla necessità di vendicare in modo esemplare il delitto.

Ma voi dovete preservarvi da questa influenza, voi dovete essere compenetrati del vostro dovere di rendere puramente e semplicemente giustizia.

Se si dovesse fare vendetta, oh! allora certamente non ci sarebbe stato bisogno della solennità di questo dibattimento.

Se si dovesse fare vendetta oh! allora sarebbe giustificato che oltre al Bresci si siano colpiti anche il fratello, il cognato, gli amici, i correligionarii, gli abitanti del suo paese nativo, che si siano fatti arresti in massa per l’Italia (Rumori vivissimi — Agitazione crescente nel pubblico), e si fabbrichino processi per associazione di malfattori contro persone innocenti…

Presidente (vivamente). — Ma questo non si fa in Italia.

Avv. Merlino. — Questa è vendetta. Ma voi dovete fare giustizia in questo senso: che voi dovete assegnare a costui la sua vera responsabilità, egli è colpevole, sì; ha commesso un delitto, non lo nego, e deve farne l’espiazione. Ma dati i suoi precedenti, date le cause che brevemente vi ho esposte, date tutte le influenze che hanno agito sull’animo di lui, gli negherete voi quello che tante volte avete concesso anche ai parricidi, anche ad accusati che non avevano i suoi buoni precedenti, non erano stati trascinati da una erronea idea politica, anche ad individui a delinquere nati, ad nomini perversi i quali, se avessero potuto avere ancora un’ora di libertà avrebbero commesso altri atroci delitti?

Di qui non si esce: o voi applicate a costui i principii del diritto comune, della giustizia ordinaria e non dovete fare sì che gli sia inflitta la massima delle pene, non inferiore a quella tale pena di morte, della cui abolizione di mena vanto, anzi molto più barbara e crudele, perché è un’agonia perpetua.

Se, invece, il vostro verdetto sarà quale lo chiede il P.M., non farete giustizia, farete vendetta, farete cosa non degna di un popolo civile (Movimenti diversi – Rumori nel pubblico.)

SAVERIO MERLINO.

N.B. – Il lettore tenga presente che il pubblico era composto di soli funzionari dello Stato e di guardie di pubblica sicurezza; così è spiegabilissimo il suo contegno verso il difensore.

Fonte

 

123 anni fa Gaetano Bresci uccideva Umberto primo, re d’Italia

123 anni fa Gaetano Bresci uccideva Umberto primo, re d’Italia

Nelle righe che seguono un famoso articolo di Errico Malatesta su quel fatto.

La tragedia di Monza

Un altro fatto di sangue è venuto ad addolorare gli animi sensibili … ed a ricordare ai potenti che non è senza pericoli il mettersi al di sopra del popolo e calpestare il grande precetto dell’uguaglianza e della solidarietà umana.
Gaetano Bresci, operaio ed anarchico, ha ucciso Umberto re. Due uomini: uno morto immaturamente, l’altro condannato ad una vita di tormenti, che è mille volte peggiore della morte! Due famiglie immerse nel dolore!
Di chi la colpa?
Quando noi facciamo la critica delle istituzioni vigenti e ricordiamo i dolori ineffabili e le morti innumeri che esse producono, noi non manchiamo mai di avvertire che esse istituzioni sono dannose non solo alla grande massa proletaria che per causa loro è immersa nella miseria, nell’ignoranza ed in tutti i mali che dalla miseria e dall’ignoranza derivano, ma anche alla stessa minoranza privilegiata che soffre, fisicamente e moralmente, dell’ambiente viziato che essa crea, e sta in continua paura che l’ira popolare le faccia pagare caro i suoi privilegi.
Quando auguriamo la rivoluzione redentrice, noi parliamo sempre del bene di tutti quanti gli uomini senza distinzione; ed intendiamo che, quali che siano le rivalità di interessi e di partito che oggi li dividono, tutti debbano dimenticare gli odi ed i rancori, e diventare fratelli nel comune lavoro per il benessere di tutti.
Ed ogni volta che i capitalisti ed i governi commettono un atto eccezionalmente malvagio, ogni volta che degli innocenti sono torturati, ogni volta che la ferocia dei potenti si sfoga in opere di sangue, noi deploriamo il fatto, non solo per i dolori che direttamente produce e per il senso di giustizia e di pietà in noi offeso, ma anche per gli strascichi di odii che esso lascia, per il senso di vendetta che esso mette nell’animo degli oppressi.
Ma i nostri ammonimenti restano inascoltati; sono anzi pretesto a persecuzioni.
E poi, quando l’ira accumulata dai lunghi tormenti scoppia in tempesta, quando un uomo ridotto alla disperazione, o un generoso commosso dai dolori dei suoi fratelli ed impaziente di attendere una giustizia tarda a venire, alza il braccio vendicatore e colpisce dove crede che sia la causa del male, allora i colpevoli, i responsabili … siam noi.
È sempre l’agnello che ha la colpa!
Si sognano complotti assurdi, ci si addita come un pericolo sociale, si finge di crederci – e forse da alcuni ci si crede davvero – dei mostri assetati di sangue, dei delinquenti per i quali non vi dovrebbe esser scelta che la galera e il manicomio criminale …
D’altronde è naturale che sia così. In un paese in cui vivono liberi, potenti, onorati, i Crispi, i Rudinì, i Pelloux e tutti i massacratori e gli affamatori del popolo, non ci può esser posto per noi, che contro i massacri e contro la fame protestiamo e ci ribelliamo!
Ma lasciamo da parte l’incorreggibile gente di polizia; lasciamo da parte gli interessati che mentono sapendo di mentire; lasciamo da parte i vili che si scagliano addosso a noi per evitare i colpi che potrebbero cadere anche su di loro, e ragioniamo un poco colla gente di buona fede e di buon senso.

Prima di tutto riduciamo le cose alle loro giuste proporzioni.
Un re è stato ucciso; e poiché un re è pur sempre un uomo, il fatto è da deplorarsi. Una regina è stata vedovata; e poiché una regina è anch’essa una donna, noi simpatizziamo col suo dolore.
Ma perché tanto chiasso per la morte di un uomo e per le lacrime di una donna quando si accetta come una cosa naturale il fatto che ogni giorno tanti uomini cadono uccisi, e tante donne piangono, a cause delle guerre, degli accidenti sul lavoro, delle rivolte represse a fucilate, e dei mille delitti prodotti dalla miseria, dallo spirito di vendetta, dal fanatismo e dall’alcoolismo?
Perché tanto sfoggio di sentimentalismo a proposito di una disgrazia particolare, quando migliaia e milioni di esseri umani muoiono di fame e di malaria fra l’indifferenza di coloro che avrebbero i mezzi di rimediarvi? Forse perché questa volta le vittime non sono dei volgari lavoratori, non un onest’uomo ed una onesta donna qualunque, ma un re ed una regina?… Veramente, noi troviamo il caso più interessante, ed il nostro dolore è più sentito, più vivo, più vero, quando si tratta di un minatore schiacciato da una frana mentre lavora, e di una vedova che resta a morir di fame coi suoi figlioletti!
Nullameno anche quelle dei reali sono sofferenze umane e vanno deplorate. Ma sterile resta il lamento se non se ne indagano le cause e non si cerca di eliminarle.

Chi è che provoca la violenza? Chi è che la rende necessaria, fatale?
Tutto il sistema sociale vigente è basato sulla forza brutale messa a servizio di una piccola minoranza che sfrutta ed opprime la grande massa; tutta l’educazione che si da ai ragazzi si riassume in una continua apoteosi della forza brutale; tutto l’ambiente in cui viviamo è un continuo esempio di violenza, una continua suggestione alla violenza.
Il soldato, cioè l’omicida professionale, è onorato, e sopra di tutti è onorato il re, la cui caratteristica storica è quella di essere a capo dei soldati.
Colla forza brutale si costringe il lavoratore a farsi derubare del prodotto del suo lavoro; colla forza brutale si strappa l’indipendenza alle nazionalità deboli.
L’imperatore di Germania eccita i suoi soldati a non dar quartiere ai cinesi; il governo inglese tratta da ribelli i Boeri che rifiutano di sottomettersi alla potenza straniera, e brucia le fattorie e caccia le donne dalle case e perseguita anche i non combattenti e rinnova le gesta orribili della Spagna in Cuba; il Sultano fa assassinare gli Armeni a centinaia di migliaia; il governo americano massacra i Filippini dopo averli vilmente traditi.
I capitalisti fan morire gli operai nelle miniere, nelle ferrovie, nelle risaie per non fare le spese necessarie alla sicurezza del lavoro, e chiamano i soldati per intimidire e fucilare all’occorrenza i lavoratori che domandano di migliorare le loro condizioni.
Ancora una volta, da chi viene dunque la suggestione, la provocazione alla violenza? Chi fa apparire la violenza come la sola via d’uscita dallo stato di cose attuale, come il solo mezzo per non subire eternamente la violenza altrui?
Ed in Italia è peggio che altrove. Il popolo soffre perennemente la fame, i signorotti spadroneggiano peggio che nel Medioevo, il governo, a gara coi proprietari, dissangua i lavoratori per arricchire i suoi e sperperare il resto in imprese dinastiche; la polizia è arbitra della libertà dei cittadini, ed ogni grido di protesta, ogni benché sommesso lamento è strozzato in gola dai carcerieri e soffocato nel sangue dai soldati.
Lunga è la lista dei massacri: da Pietrarsa a Conselice, a Calatabiano alla Sicilia, ecc.
Solo due anni orsono le truppe regie massacrarono il popolo inerme; solo alcuni giorni orsono le regie truppe han portato ai proprietari di Molinella il soccorso delle loro baionette e del loro lavoro forzato, contro i lavoratori famelici e disperati.
Chi è il colpevole della ribellione, chi è il colpevole della vendetta che di tanto in tanto scoppia; il provocatore, l’offensore, o chi denunzia l’offesa e vuole eliminare le cause?
Ma, dicono, il re non è responsabile.
Noi non pigliamo certo sul serio la burletta delle funzioni costituzionali. I giornali “liberali” che ora argomentano sulla irresponsabilità del re, sapevano bene, quando si trattava di loro, che al disopra del parlamento e dei ministri, vi era un’influenza potente, un’alta sfera a cui i regi procuratori non permettevano di fare troppo chiare allusioni. Ed ora i conservatori, che aspettano una “nuova era” dall’energia del nuovo re, mostrano di sapere che il re, almeno in Italia, non è poi quel fantoccio che ci vorrebbero far credere quando si tratta di stabilire le responsabilità. E d’altronde, anche se non fa il male direttamente, è sempre responsabile di esso, un uomo che, potendo, non lo impedisce – ed il re è capo dei soldati e può sempre, per lo meno, impedire che i soldati facciano fuoco sopra popolazioni inermi. Ed è pur anche responsabile chi, non potendo impedire un male, lascia che si faccia in nome suo, piuttosto che rinunziare ai vantaggi del posto.
È vero che se si prendono in conto le considerazioni di eredità, di educazione, di ambiente, la responsabilità personale dei potenti si attenua di molto e forse sparisce completamente. Ma allora, se è irresponsabile il re dei suoi atti e delle sue omissioni, se malgrado l’oppressione, lo spogliamento, il massacro del popolo fatto in suo nome, egli avrebbe dovuto restare al primo posto del paese, perché mai sarebbe responsabile il Bresci? Perché mai dovrebbe il Bresci scontare con una vita di inenarrabili patimenti un atto che, per quanto si voglia giudicare sbagliato, nessuno può negare essere stato ispirato da intenzioni altruistiche?
Ma questa questione della ricerca delle responsabilità c’interessa mediocremente.
Noi non crediamo nel diritto di punire, noi respingiamo l’idea di vendetta come un sentimento barbaro: noi non intendiamo essere né giustizieri né vendicatori. Più santa, più nobile, più feconda ci pare la missione di liberatori e di pacificatori.
Al re, agli oppressori, agli sfruttatori noi stenderemmo volentieri la mano, quando soltanto essi volessero tornare a essere uomini fra gli uomini, uguali tra gli uguali. Ma intanto che essi si ostinano a godere dell’attuale ordine di cose ed a difenderlo con la forza, producendo così il martirio, l’abbruttimento e la morte per stenti a milioni di creature umane, noi siamo nella necessità, noi siamo nel dovere di opporre la forza alla forza.

Opporre la forza alla forza!
Vuol dire ciò che noi ci dilettiamo in complotti melodrammatici e siamo sempre nell’atto e nell’intenzione di pugnalare un oppressore?
Niente affatto. Noi aborriamo dalla violenza per sentimento e per principio, e facciamo sempre il possibile per evitarla; solo la necessità di resistere al male con mezzi idonei ed efficaci ci può indurre a ricorrere alla violenza.
Sappiamo che questi fatti di violenza singola, senza sufficiente preparazione nel popolo restano sterili e spesso, provocando reazioni a cui si è incapaci di resistere, producono dolori infiniti e fanno male alla causa stessa a cui intendevano servire.
Sappiamo che l’essenziale, l’indiscutibilmente si è, non già uccidere la persona di un re, ma l’uccidere tutti i re – quelli delle corti, dei parlamenti e delle officine – nel cuore e nella mente della gente; di sradicare cioè la fede nel principio di autorità a cui presta culto tanta parte di popolo.
Sappiamo che meno la rivoluzione è matura e più essa riesce sanguinosa ed incerta.
Sappiamo che, essendo la violenza sorgente di autorità, anzi essendo in fondo tutta una cosa col principio di autorità, più la rivoluzione sarà violenta e più vi sarà pericolo ch’essa dia origine a nuove forme di autorità.
E perciò ci sforziamo di acquistare, prima di adoperare le ultime ragioni degli oppressi, quella forza morale e materiale che occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad abbattere il regime di violenza a cui oggi l’umanità soggiace.
Ci si lascerà in pace al nostro lavoro di propaganda, di organizzazione, di preparazione rivoluzionaria?
In Italia c’impediscono di parlare, di scrivere, di associarci. Proibiscono agli operai di unirsi e lottare pacificamente, nonché per l’emancipazione, nemmeno per migliorare in minime proporzioni le loro incivili ed inumane condizioni di esistenza. Carceri, domicilio coatto, repressioni sanguinose sono i mezzi che si oppongono non solo a noi anarchici, ma a chiunque osa pensare ad una più civile condizione di cose.
Che meraviglia se, perduta la speranza di poter combattere con profitto per la propria causa, degli animi ardenti si lasciano trasportare ad atti di giustizia vendicativa?

Le misure di polizia, di cui sono sempre vittime i meno pericolosi; la ricerca affannosa di inesistenti istigatori, che appare grottesca a chiunque conosce un poco lo spirito dominante tra gli anarchici; le mille buffe proposte di sterminio avanzate da dilettanti di poliziottismo, non servono che a mettere in evidenza il fondo selvaggio che cova nell’animo delle classi dominanti.
Per eliminare totalmente la rivolta sanguinosa delle vittime non v’è altro mezzo che l’abolizione dell’oppressione, mediante la giustizia sociale.
Per diminuirne ed attenuarne gli scoppi, non v’è altro mezzo che lasciare a tutti libertà di propaganda e di organizzazione; che lasciare ai diseredati, agli oppressi, ai malcontenti, la possibilità di lotte civili; che dar loro la speranza di poter conquistare, sia pur gradualmente, la propria emancipazione per vie incruenti.
Il governo d’Italia non ne farà nulla; continuerà a reprimere… e continuerà a raccogliere quello che semina.
Noi, pur deplorando la cecità dei governanti che imprime alla lotta un’asprezza non necessaria, continueremo a combattere per una società in cui sia eliminata ogni violenza, in cui tutti abbiano pane, libertà, scienza, in cui l’amore sia la legge suprema della vita.

Errico Malatesta