Gaza dopo Hamas. Che fare?
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Conflitto israelo-palestinese: la pratica terapeutica per la pace
Ogni autore di terrorismo si considera una vittima. Questo è il caso non solo dei singoli, ma anche dei gruppi terroristici e degli Stati nazionali.
Il terrorismo è una guerra psicologica e quindi richiede una risposta psicologicamente informata.
Chi studia il trauma sa che “le persone ferite feriscono le persone”, ovviamente questo vale anche per i terroristi. Le persone che vivono in uno stato di ansia esistenziale sono inclini a disumanizzare gli altri. Hamas, ad esempio, chiama gli israeliani “infedeli“. Mentre il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha definito i membri di Hamas “animali umani“. Ed entrambe le parti hanno chiamato gli altri “nazisti“.
Conflitto israelo-palestinese e terrorismo
È possibile allora, rinunciare all’impulso di punire indiscriminatamente, è possibile superare l’impulso umano alla rappresaglia? Per farlo è necessario che i leader siano in grado di raggiungere le comunità divise e di fornire speranza in un momento apparentemente senza speranza. È necessario comprendere che un’eredità di traumi rende gli ebrei israeliani e i palestinesi vulnerabili alla violenza reattiva, portando a un ciclo apparentemente senza fine di spargimento di sangue.
Sebbene i terroristi raramente raggiungano i loro obiettivi politici, spesso riescono a raggiungere un obiettivo: costringere il nemico a reagire in modo eccessivo. I terroristi cercano di provocare una risposta sproporzionata, sperando di ottenere simpatia e radicalizzare una nuova generazione di giovani vittime. Hamas ha esemplificato questa strategia quando ha attaccato Israele il 7 ottobre, scatenando in molti israeliani la memoria intergenerazionale dei traumi dei pogrom, dell’Olocausto e delle espulsioni da Paesi europei, Egitto, Iran, Iraq e Yemen. Gli attacchi aerei di rappresaglia indiscriminati di Israele a Gaza, che hanno ucciso migliaia di persone e ne hanno sfollate altre centinaia di migliaia, hanno fatto rivivere ai palestinesi la nakba (in arabo “catastrofe“), il violento sfollamento dei palestinesi durante la formazione dello Stato di Israele nel 1948.
Il conflitto israelo-palestinese è una trappola
Entrambi, israeliani e palestinesi sono ora bloccati in una trappola creata da Hamas. Un abbraccio traumatico di morte e disperazione, in cui ciascuna parte – che si vede comprensibilmente come una vittima – prova una giusta rabbia e desidera una punizione, si contende la simpatia globale.
Per Israele è troppo tardi per una risposta limitata. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, Israele ha ucciso più di 15.000 persone, oltre due terzi delle quali sono donne e bambini. I costi del conflitto israelo-palestinese perdureranno a lungo, sia nelle vittime immediate sia nei bambini sopravvissuti, le cui menti in via di sviluppo saranno modellate per sempre dall’esposizione a questa immane violenza e dalla perdita di persone care.
Questo vale sia per gli israeliani che per i palestinesi. Non c’è solo un motivo morale per un cessate il fuoco, ma anche uno strategico, nato dalle intuizioni della psicologia del trauma.
La violenza porta altra violenza
Le popolazioni che subiscono il terrorismo si coalizzano naturalmente intorno alle loro identità nazionali, tribali o religiose e chiedono ai loro leader vendetta. Ma raramente una punizione massiccia funziona. Di solito, infatti, una risposta sproporzionata al terrorismo genera ancora più attacchi terroristici.
Nel 1986, ad esempio, i terroristi che agivano per conto del governo libico bombardarono un locale notturno in Germania molto frequentato dai militari statunitensi, uccidendo tre persone e ferendone più di 200. Per rappresaglia, gli Stati Uniti uccisero decine di persone in una campagna di bombardamenti contro la Libia che aveva come obiettivo strutture militari e la residenza del leader libico Muammar Gheddafi. Secondo uno studio del politologo Stephen Collins, il raid di rappresaglia degli Stati Uniti ha portato a un aumento di quattro volte delle vittime. I terroristi sostenuti dalla Libia hanno ucciso 599 persone nei quattro anni successivi alla risposta statunitense, rispetto alle 136 persone dei quattro anni precedenti.
Il caso dell’IRA
Anche l’Esercito Repubblicano Irlandese ha prosperato di fronte all’aggressiva repressione statale. Nel 1968, l’IRA (Irish Republican Army) sembrava essere al capolinea, ma nei due decenni successivi sarebbe cresciuta fino a diventare il gruppo terroristico maggiormente finanziato dell’Occidente. Nel 1969, i cattolici si ribellarono alla discriminazione dilagante da parte della maggioranza protestante nell’Irlanda del Nord. La rivolta fu istigata, in parte, dall’IRA. Nei quattro anni successivi, gli estremisti protestanti cacciarono circa 6.000 cattolici dalle loro case, in quello che all’epoca era il più grande caso di pulizia etnica in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. Lo sfollamento aumentò il sostegno alla causa dell’IRA.
Secondo lo studioso di terrorismo Andrew Silke, “l’IRA stessa si adoperò per provocare misure dure da parte delle forze di sicurezza, consapevoli dei benefici che ne sarebbero derivati in termini di sostegno e reclutamento“. Quando nel 1970 il gruppo provocò una rivolta nel quartiere di Ballymurphy a Belfast, ad esempio, le forze di sicurezza risposero con l’uso diffuso di gas lacrimogeni, alienando i cattolici della zona. Silke osserva che le forze di sicurezza “non ebbero la moderazione necessaria per vincere la guerra di propaganda“. Come scrisse Seán MacStiofáin, un leader dell’IRA, nel 1975, “la maggior parte delle rivoluzioni non sono causate dai rivoluzionari, ma dalla stupidità e dalla brutalità dei governi“. Aveva ragione. Rispondendo in modo così aggressivo, le forze britanniche e la polizia nordirlandese caddero in una trappola tesa dall’IRA.
Combattere l’Idra
I governi continuano a cadere in trappole simili. Gli accademici spesso paragonano le organizzazioni terroristiche a un’Idra, il serpente della mitologia greca. Ogni volta che lo Stato cerca di tagliare la testa dell’ Idra, al suo posto ne crescono altre due.
Più di 20 anni fa, Ismail Abu Shanab, fondatore e membro di alto livello di Hamas, disse a Jessica Stern, che il “genio” del conflitto israelo-palestinese è che si nutre delle “atrocità” di Israele. Se Israele intensifica la lotta contro Hamas, non farà altro che eccitare Hamas e altri gruppi terroristici palestinesi. Rischiando così di coinvolgere gli Hezbollah, il gruppo militante libanese, o addirittura l’Iran.
Come resistere
I leader di Hamas sono sempre stati disposti a lasciar morire giovani palestinesi per compiere attentati suicidi. Nel 1996, i servizi di sicurezza israeliani uccisero Yahya Ayyash, il miglior artificiere di Hamas, con un telefono cellulare dotato di trappola esplosiva. In seguito, il suo vice, Hassan Salameh, organizzò la più letale serie di attentati suicidi che Israele avesse conosciuto fino a quel momento, uccidendo più di 60 persone. Salameh spiegò di non provare alcun rimorso per le vite dei giovani palestinesi morti negli attentati, affermando: “Le cose terribili che sono accadute al popolo palestinese sono molto più grandi e molto più forti del dispiacere o del senso di colpa“.
Gli attentati suicidi sono aumentati nuovamente durante la seconda intifada, iniziata nel 2000. Gli attacchi terroristici palestinesi hanno ucciso circa 1.000 israeliani nei cinque anni successivi. Mentre gli israeliani hanno ucciso circa 3.000 palestinesi in risposta. Sempre in reazione alla seconda intifada, Israele ha costruito un muro apparentemente impenetrabile al confine con la Cisgiordania. Attirando così la condanna della Corte internazionale di giustizia e delle Nazioni Unite per aver isolato i palestinesi, portando all’accusa che Israele abbia creato uno Stato di apartheid simile al Sudafrica suprematista bianco.
Escalation di violenza nel conflitto israelo-palestinese
Hamas è disposto a sacrificare la vita non solo di singoli attentatori suicidi, ma anche di migliaia di civili. Hamas ha pubblicamente previsto che l’attacco del 7 ottobre avrebbe portato alla morte di numerosi palestinesi. Khalil al-Hayya, un alto funzionario di Hamas, ha dichiarato al New York Times a novembre che il gruppo sapeva che la reazione al suo attacco “sarebbe stata grande”. Hamas voleva disperatamente infrangere lo status quo e riportare la questione palestinese sulla scena mondiale.
Molti analisti avevano avvertito che la violenza sarebbe esplosa sotto il governo del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il più di destra nella storia di Israele. Ad aprile, Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami hanno sostenuto su Foreign Affairs che “il rischio di scontri violenti su larga scala cresce ogni giorno che i palestinesi sono bloccati in questo sistema di oppressione legalizzata e di invasione israeliana in continua espansione“. L’attacco del 7 ottobre è stato orribile e prevedibile.
Il terrorismo è una guerra psicologica e quindi richiede una risposta psicologicamente informata
Gli interessi dei palestinesi probabilmente, sarebbero assolti meglio se i loro leader scegliessero la resistenza nonviolenta piuttosto che il terrorismo. Lo storico Rashid Khalidi ha notato che, anche se il popolo ebraico ha un “legame indiscutibile” con la Terra Santa, “Israele è stato fondato come progetto coloniale europeo“.
Sebbene tutti i popoli nativi resistano alla colonizzazione – siano essi algerini, irlandesi o nativi americani – la lotta dei palestinesi è complicata dalla storia della persecuzione contro il popolo ebraico. A causa di questa storia, la resistenza armata sembra essere particolarmente controproducente nel conflitto israelo-palestinese, nonostante abbia funzionato in altre guerre anticoloniali. Come ha sostenuto lo studioso Edward Said, i palestinesi sono “le vittime delle vittime, i rifugiati dei rifugiati”.
Nonviolenza
In generale, la nonviolenza tende a essere il mezzo di resistenza più efficace. Secondo uno studio delle politologhe Erica Chenoweth e Maria Stephan, tra il 1900 e il 2006, le campagne di resistenza nonviolenta hanno avuto il doppio delle probabilità di raggiungere gli obiettivi dichiarati rispetto a quelle violente. Ma queste strategie possono funzionare solo se i palestinesi rifiutano la violenza a favore della protesta nonviolenta e se Israele lascia che i palestinesi protestino in modo nonviolento.
Prendiamo ad esempio l’African National Congress, il partito politico che ha posto fine al regime di apartheid in Sudafrica. L’ANC si è ampiamente astenuto dal terrorismo contro i civili. Ispirato dalla resistenza nonviolenta del Mahatma Gandhi in India, il movimento era intimamente legato alla consapevolezza che un Paese concepito nello spargimento di sangue sarebbe rimasto intrappolato in un ciclo infinito di violenza etnica. Come ha sostenuto il giornalista Peter Beinart, “si è rifiutato di terrorizzare e traumatizzare i sudafricani bianchi perché non stava cercando di costringerli ad andarsene. Stava cercando di conquistarli verso una visione di una democrazia multirazziale“.
Hamas, a differenza dell’ANC, non ha una visione di uno Stato multietnico, da cui deriva il suo disinteresse per la resistenza non violenta. L’obiettivo del gruppo, secondo i suoi documenti di fondazione, è distruggere Israele, sterminare gli ebrei e stabilire uno Stato teocratico. Anche l’attuale governo di destra israeliano sembra disinteressato a creare uno Stato multietnico con pari diritti per gli ebrei israeliani e i palestinesi, garantendo così un conflitto continuo.
Terrorismo e conseguenze psicologiche
Il modo migliore per un governo di combattere i movimenti terroristici è evitare di uccidere i civili, altrimenti il ciclo di vittimizzazione non fa altro che generare altri terroristi. Per interrompere il ciclo intergenerazionale della violenza sarà necessario un approccio israeliano che eviti scrupolosamente le vittime civili. Anche la pressione dei governi stranieri può essere utile. Gli Stati Uniti, ad esempio, dovrebbero esigere la protezione dei civili come condizione per l’invio di armi a Israele. E dovrebbero negare i visti agli israeliani che vivono negli insediamenti illegali.
Quando le persone hanno vissuto un’esperienza di terrore cronico, la loro mente diventa rapida nell’individuare il pericolo e tendono a reagire con forza anche a provocazioni minori. Il trauma condiviso crea forti legami tra i sopravvissuti. Inoltre, porta a un orientamento “noi contro loro“, in cui il mondo esterno è percepito (spesso a ragione) come ostile. E solo le persone che appartengono alla stessa tribù, religione o etnia sono considerate degne di fiducia e lealtà.
Crescere nel terrore, sia esso causato dalla violenza domestica o politica, lascia tracce profonde nelle menti, nei cervelli e nelle identità in via di sviluppo. Individuare e affrontare le minacce diventa una preoccupazione centrale a scapito della capacità di lavorare e giocare. Per interrompere il ciclo intergenerazionale dei traumi è necessario fermare la violenza e sviluppare l’empatia in coloro che hanno subito il trauma.
Qualunque sia la prossima mossa, sarà importante tenere a mente che, dopo essere stati feriti, l’odio può essere enormemente attivante. Mentre il lutto, la reciprocità e la riconciliazione sono processi profondamente complessi e laboriosi. Ma sono l’unica speranza per interrompere la trasmissione intergenerazionale della violenza.
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