UN FEMMINISMO ANARCHICO CHE CONTESTI IL POTERE STESSO

Vi proponiamo la lettura di questo saggio di Chiara Bottici: è molto utile per comprendere il nesso naturale tra femminismo e anarchismo.

UN FEMMINISMO ANARCHICO CHE CONTESTI IL POTERE STESSO
di Chiara Bottici

UN FEMMINISMO ANARCHICO CHE CONTESTI IL POTERE STESSO

Una delle argomentazioni più ricorrenti nel dibattito femminista contemporaneo è l’idea che per combattere l’oppressione delle donne si deve cercare di smantellare il modo in cui le diverse fonti di tale oppressione si intersecano l’una con l’altra. Non vi è singolo fattore – sia esso naturale o sociale, sfruttamento economico o soggezione culturale – che, preso da solo, possa assurgere allo stato di causa singola, di archè, per dirlo con un termine filosofico di origine greca, in grado di spiegare le diverse fonti del sessismo e della patriarchia. Di conseguenza, il concetto di intersezionalità è divenuto di recente il principio guida per un crescente numero di femminismi di sinistra.

Eppure, all’interno di questa sempre più vasta letteratura, non vi è alcuna menzione della tradizione che, nel passato, ha più sistematicamente insistito proprio su questo stesso punto: l’anarco-femminismo. La tradizione anarco-femminista, così sistematicamente messa in ombra e trascurata, è invece oggi di particolare attualità.

Insieme al lavoro di smantellamento del binarismo di genere iniziato dalla queer theory, mi sembra importante rivendicare il bisogno di una forma di femminismo che si oppone all’oppressione di coloro che sono percepite come donne e che vengono assoggettate proprio su questa base. Mentre infatti, per un certo periodo almeno, sembrava che la teoria queer avesse riassorbito dentro di sé le rivendicazioni del femminismo classico, negli ultimi anni si è assistito ad un’inversione di marcia. Per quanto importante sia infatti, seguendo le intuizioni fondamentali della teoria queer, mettere in evidenza le trappole di qualsiasi semplicistica categorizzazione di genere, ed in particolare di quelle che oppongono dicotomicamente “donne” ed “uomini”, mi sembra cruciale non perdere di vista il fatto che certi corpi sono sistematicamente oggetto di discriminazione perché percepiti come corpi di donna. Si noti, tuttavia, che, proprio facendo tesoro delle riflessioni queer, vorrei usare il termine “donna” in un modo che include tutti i tipi di donne: le donne femmine, le donne maschio, le donne lesbiche, le donne-trans ed anche le donne queer. Soprattutto se si adotta una prospettiva globale, ineludibile ai nostri giorni, diventa ben presto evidente che le donne sono ancora oggetto di sistematica discriminazione, come emerge dalle ben note statistiche sulle differenze salariali e, forse più macroscopico di tutte, quelle su prostituzione e human trafficking.

Lungi dall’essere una battaglia del passato, l’agenda femminista è quindi di primissima attualità. Ma si tratta di una battaglia che deve essere accompagnata da un’articolazione dei suoi assunti fondamentali che non implichi ricadute in ulteriori gerarchie, inclusi i binarismi di genere o quelli di classe: è su questo punto qui che la tradizione anarco-femminista può essere di aiuto. Mentre certi femminismi del passato sono ceduti alla tentazione di far ricorso a un unico fattore, sia esso economico o culturale, nello spiegare il patriarcato e la misoginia, le anarco-femministe sono sempre state assai sistematiche nel mettere in evidenza il bisogno di guardare a una pluralità di fattori e al modo in cui si intersecano nei singoli contesti, creando costellazioni di volta in volta diverse e particolari.

La marginalizzazione della tradizione anarco-femminista è certamente la conseguenza dell’ostracismo di cui l’anarchismo ha sofferto all’interno dell’accademia, in particolare, e del dibattito pubblico, in generale, dove l’anarchismo continua ad essere percepito come sinonimo di violenza e distruzione. Tuttavia, si tratta di un ostracismo che è avvenuto, e continua ad avvenire, a scapito dell’accuratezza storica, come emerge tramite uno sguardo attento rivolto al passato, e dell’efficacia politica, se ci guarda invece verso il presente ed il futuro.

Lo scopo di questo progetto è quello appunto di individuare le coordinate teoriche di un possibile approccio anarco-femminista adatto alle sfide del nostro tempo. Lo scopo non è quindi solo quello di dare visibilità a un importante componente delle battaglie femministe del passato: al di là dell’accuratezza storica, recuperare alcune intuizioni anarca-femministe ha la funzione di allargare il repertorio di strategie proprio in un momento in cui, come il femminismo intersezionalista ha dimostrato, molteplici fattori convergono sempre di più nell’intensificare l’oppressione delle donne, creando ulteriori gerarchie, siano esse di classe o razziali.

Nel momento in cui il femminismo è stato accusato di essere nient’altro che un’altra forma di white priviledge, questo compito mi pare più importante che giammai in passato. L’emancipazione delle donne nel nord del mondo rischia infatti di avvenire a spese di quelle al sud (o all’est) del mondo che le rimpiazzano sempre più di sovente nei lavori di cura domestici. È proprio quando si adotta una tale prospettiva globale, tanto più necessaria a causa della crescente mobilità del capitale e della forza lavoro, che la catena della cosiddetta global care diventa visibile, e l’attualità della anarca-femminismo evidente. Abbiamo bisogno di un approccio plurale al problema della dominazione delle donne, uno che sia in grado di includere diversi fattori nell’analisi e quindi anche voci provenienti da diverse parti del globo. Come l’anarco-femminista cinese He Zhen scriveva già all’inizio del ventesimo secolo nel suo Problems of Women’s Liberation:

“La maggioranza delle donne è già oppressa dal governo e dagli uomini. Il sistema elettorale semplicemente accresce la loro oppressione aggiungendo un terzo livello di governo: le donne dell’élite. Anche se l’oppressione rimane la stessa, la maggioranza delle donne è ancora sfruttata da una minoranza, in questo caso appunto di donne. […] Quando poche donne al potere dominano la maggioranza di coloro che dal potere ne sono invece escluse, ne insorge la lotta di classe con le sue opposizioni. Se la maggior parte delle donne non vuole essere governate da uomini, perchè accetterebbero invece di esserlo da una poche donne delle élite? Perciò, invece di competere con gli uomini per il potere, le donne dovrebbero lottare per abolire il governo stesso (degli uomini). Nel momento in cui gli uomini saranno privati del loro privilegio, allora si troveranno davvero in una situazione di parità con le donne. Solo in quel momento non ci saranno più nè donne nè uomini sottomessi. Questa sola può essere la liberazione delle donne.”.

L’attualità di queste parole, scritte nel 1907, mostra quanto profetico sia stato il movimento anarco-femminista. E qui, si trova anche una risposta alla nostra domanda fondamentale: perché riproporre l’anarca-femminismo proprio oggi? Perché, a mio avviso, proprio in esso possiamo trovare il miglior antidoto contro la possibilità che il femminismo diventi mero privilegio di classe o di razza, e quindi lo strumento nelle mani di poche donne che dominano la maggioranza di esse. In un epoca in cui la possibile elezione di una singola donna alla carica di presidente di uno stato viene presentata come la strada per la liberazione di tutte le donne, in un epoca in cui Ivanka Trump può presentarsi come campione del femminismo trasformando l’hashtag #womenwhowork nell’etichetta tramite cui promuovere la sua fashion brand, il messaggio fondamentale dell’anarca-femminismo è più attuale che mai:

“Femminismo non significa accesso delle donne al corporate power né fare una donna presidente: significa nessun corporate power e nessun presidente” (Kornegger 2012: 25, traduzione mia).

In altri termini, femminismo non può voler dire liberazione di alcune privilegiate, ma deve voler dire liberazione di tutte le donne.

Fonte

Sono l’unica mia: quando il mailbombing colpisce nel segno

A proposito di femminismo, vi consigliamo la lettura di questa storia: fa capire quanto ci sia ancora da fare.

SLUM, progetto eterogeneo e meticcio che cammina sulle gambe di chi lo popola, supporta le persone trans nel loro cammino contro la transfobia e la transmisoginia Ebbene sì, la tolleranza verso l’ideologia TERF (acronimo di trans exclusionary radical feminist) non è ancora finita o almeno messa in dubbio dalle realtà italiane più importanti e visibili, è addirittura considerata legittima nonostante invalidi le voci e le vite delle persone trans. Succede che, il 29 Febbraio, il Circolo Ricreativo Ohibò dell’ARCI provinciale di Milano ospiterà la docente universitaria femminista Sheila Jeffreys, la quale ha dichiarato nel 2018 davanti al parlamento inglese che le donne transessuali sono “parassiti” e che è stata accusata dalla comunità indigena australiana di lanciare accuse razziste contro la comunità transgender, poiché “essere trans è come un blackface”.

Noi di Sono l’unica mia. (SLUM) pensiamo che non debbano essere concesse piattaforme a persone che usano linguaggi violenti ed escludenti e a chi viola i diritti umani, così abbiamo lanciato un mailbombing che è partito oggi, 10 febbraio – potete trovare il testo per il mailbombing qui – allegando al post diversi link che testimoniano chiaramente la veridicità di tali informazioni e accuse.

Fatto sta che ARCI ha risposto con il nome di Maso Notarianni, conosciuto, tra i molti motivi, per essere tra i fondatori di Mediterranea Saving-Humans, presidente dal novembre 2019 dell’ARCI Milano e dal 2018 componente del Consiglio Nazionale ARCI. Una risposta uguale per tutt*, di default.

“Caro/a X,
Perché sarebbe sbagliato discutere partendo da posizioni diverse su un tema così importante?
La studiosa Jeffreys* è una studiosa, femminista, lesbica, con delle sue opinioni con cui credo valga la pena di confrontarsi.
L’Arci è fatta anche di discussioni difficili, per fortuna.
Il Presidente di Arci Milano,
Maso Notarianni”
*allegate all’asterisco delle brevi note in inglese che riassumono la biografia di Jeffreys senza citarne il linguaggio terfico e violento

Il nostro compagno attivista Nicholas Vitiello, da anni attivista in particolare con le realtà Il Grande Colibrì e a Gruppo Trans, ha deciso di replicare con un’email che spiega, per filo e per segno, esattamente perché non dovremmo “confrontarci” con una persona che predica odio in un evento che vuol chiamarsi “Voci femministe – Voci transfemministe”, una contraddizione in termini.

Non faccio attivismo da anni insieme ad Il Grande Colibrì e a Gruppo Trans, due realtà che sono per me la mia famiglia, per poi sentirmi dire che devo stare zitto e accettare un contraddittorio alla mia vita.

La mail di Vitiello

“Carissim* Maso e collegh*,

Non vi ho scritto per mettere in discussione il curriculum lavorativo della professoressa Jeffreys – lungi da me criticare le competenze professionali altrui. Vi scrivo in quanto identità trans*, quella stessa identità che la Jeffreys in più di un’occasione ha preteso di sovradeterminare con le sue opinioni. Vi ricordo infatti che la suddetta, rendendosi in quel momento portavoce di tutto il movimento TERF, ha definito le donne trans «uomini omosessuali che non si sentono in grado di convivere con la propria omossessualità nel corpo di un uomo» o «uomini eterosessuali con interesse sessuale nell’indossare vestiti femminili e apparire femminili» e che secondo tale visione gli uomini trans, come il sottoscritto, sarebbero «traditrici del femminismo» poichè ci siamo, presumibilmente, fatti convincere ad abbandonare la causa per convertirci al patriarcato e usufruire dei privilegi maschili – e questa è una frase che mi sono sentito dire in faccia sul serio da una TERF, nonostante non siano parole esatte della professoressa Jeffreys.
Non ho tradito il femminismo quando ho iniziato a transizionare, non ho tradito nessuno. Se proprio, è stato il femminismo radicale trans-escludente a tradire me.

Sul vostro evento avete scritto che il ciclo di conferenze è «dedicato ad approfondire i temi del femminismo radicale e del transfemminismo con l’obiettivo di offrire, a chi non è interno a questi movimenti, la possibilità di conoscere meglio i punti del dibattito in corso. […] “Studi senza frontiere” vuole proporsi come luogo in cui diverse posizioni possano trovare spazio, affinché ognuno possa avere gli elementi necessari per una riflessione autonoma e consapevole».
Avete detto che ritenete le istanze trans un tema importante: benissimo!
Allora vi faccio io una domanda: perchè avete volutamente deciso di non interloquire con una persona trans* per parlare di questioni trans*? Perchè scegliere una persona apertamente transfobica, transescludente e violenta?
Noi comunità trans* siamo perfettamente in grado di parlare per noi, senza bisogno di interpreti, di preti, di medici e soprattutto di contraddittori: quindi perchè vi ostinate nel non volerci dare spazio quando lo chiediamo a gran voce?

La libertà di parola finisce nel momento in cui viene lesa l’identità altrui: in quel momento diventa abuso. Non è una questione di “discussioni difficili”. Non posso esistere discussioni con le persone violente, non esistono discussioni con i fascisti. E le opionioni dei violenti e dei fascisti non vanno “prese in considerazione”. Non è possibile contemplare un dialogo basato sul fatto che una delle due parti, quella minoritaria, quella che subisce quotidianamente soprusi e violenze e abusi, debba ritrovarsi a giustificare e legittimare la propria esistenza. Noi identità trans* esistiamo, punto.
In quanto soggettività trans* non ho intenzione di accettare un contraddittorio alla mia vita e alla mia esistenza. In quanto attivista femminista intersezionale non posso tollerare un comportamento tale nei confronti della mia identità, dell’identità delle mie sorelle trans*, dell’identità delle persone non binarie e di genere non conforme, per cui ripeto: DARE UN PULPITO A CHI SEMINA ODIO È UN ERRORE.

Viviamo in una società che è già sufficientemente complicata e pericolosa – nel caso non vi foste informati sugli sviluppi recenti, la comunità trans* sta affrontanto tantissime difficoltà legali, in quanto ci troviamo ostaggi della legge 164 del 1982, che prevedeva la sterilizzazione obbligatoria dell’individuo, fino a che nel 2015 grazie alla Corte Costituzionale e alla Corte di Cassazione siamo riusciti a far decadere l’obbligatorietà in quanto lesiva dei diritti e dell’integità della persona, che prevede lo scioglimento automatico del matrimonio, che prevede un iter legale lungo, costoso e umiliante per potersi veder rettificati i propri documenti. Siamo vittima di un Sistema Sanitario Nazionale che si deresponsabilizza, rimbalzando la nostra presa in carico a centri di comunità convenzionati esterni al SSN (e ne esistono una dozzina scarsa in tutta Italia di centri simili), nonchè di protocolli medici obsoleti, umilianti, deumanizzanti, che costringono la persona a sottoporsi al giudizio di uno psicoterapeuta che deve valutare, sulla base di criteri insensati e sterotipati, che la persona che ha davanti sia “abbastanza trans”. L’Agenzia Italiana del Farmaco non ci ha mai considerati in quanto persone trans* all’interno dei sistemi di accesso ai farmaci, costringendoci a dover usufruire di Piani Terapeutici contenti diagnosi false o inesistenti per poter ottenere farmaci a base di ormoni dei quali abbiamo bisogno, e quando nel corso di questo ultimo anno e mezzo i suddetti farmaci sono a più riprese usciti dalla produzione, non ci ha offerto alcuna tutela, nessun piano B alternativo. Non abbiamo tutele sui luoghi di lavoro e nelle scuole – per fare un esempio, recentemente la poetessa trans Giovanna Cristina Vivinetto è stata licenziata dal suo ruolo di docente in una scuola superiore romana, e in moltissimi Atenei Universitari d’Italia manca la Carriera Alias che tutela i dati sensibili degli studenti e delle studentesse trans*. Le atlete trans* vengono sistematicamente escluse dalle competizioni sportive, sulla base di un ipotetico “vantaggio biologico” dato dai loro corpi trans* e non conformi, anche quanto tutti i loro valori ai controlli medici sono perfettamente nella norma dei requisiti richiesti dalle federazioni sportive.

Detto ciò, vi invito nuovamente a pensare alla scelta di interlocuzione che avete fatto. Vi invito, se avete intenzione di parlare di temi trans* di farlo con le persone trans*.
Se volete informarvi di più, vi consiglio inoltre di dare una lettura al dossier che ho redatto in collaborazione ad altre associazioni riguardo le istanze della comunità trans* nei riguradi delle problematiche che affrontiamo – le istanze VERE, non quelle decise per noi dalle persone cis – che puoi trovare a questo link. Prenditi pure la libertà di inoltrare questo link anche ad altre realtà milanesi interessate a creare un dialogo con la comunità trans*, invece che SULLA comunità trans*.

Leggi

Sperando in una Vostra risposta soddisfacente ed in una riflessione sulla scelta delle soggettività con le quali interloquire,
Vi saluto cordialmente,

Nicholas Vitiello”

SLUM, progetto eterogeneo e meticcio che cammina sulle gambe di chi lo popola, supporta le persone trans nel loro cammino contro la transfobia e la transmisoginia, perché, come probabilmente anche il presidente ARCI Milano condividerà, non esistono “persone di serie A e persone di serie B”.
SONO L’UNICA MIA. (SLUM)

Fonte

Il mailbombing ha avuto successo!

Vedere qui sotto la risposta dell’Arci Ohibò