Quando Emma Goldman chiese a Lenin del trattamento riservato agli anarchici ( e altro ancora ).

Quando Emma Goldman chiese a Lenin del trattamento riservato agli anarchici ( e altro ancora ).

La scena si svolge nel marzo del 1920

Quando Angelica Balabanoff mi aveva suggerito di parlare con Lenin, avevo deciso di redarre un memorandum sulle contraddizioni più salienti della vita sovietica, ma poiché non avevo sentito più nulla riguardo a quell’eventuale incontro, non me ne ero più occupata. Mi trovai perciò in grande imbarazzo quando, una mattina, arrivò la telefonata di Angelica la quale ci informava che “ll’ic” stava aspettando me e Sasha e che la sua auto sarebbe venuta a prenderci. Sapevamo che Lenin era così occupato da essere quasi inaccessibile, per cui l’eccezione che veniva fatta in nostro favore andava colta al volo. Ritenevamo comunque che anche senza il memorandum saremmo riusciti a trovare la prospettiva giusta da cui affrontare la discussione e inoltre ci veniva offerta l’occasione per presentargli le risoluzioni che ci avevano affidato i nostri compagni di Mosca.
L’auto di Lenin attraversò di corsa le strade affollate ed entrò a gran velocità nel Cremlino, senza che le sentinelle ci fermassero per controllare i propusk [lasciapassare]. Ci fu chiesto di scendere davanti all’ingresso di uno degli antichi edifici che si erigevano a una certa distanza dagli altri. Accanto all’ascensore c’era una guardia armata, evidentemente già informata del nostro arrivo.
Senza dire una parola, aprì la porta chiusa a chiave e ci fece cenno di entrare, poi la richiuse e si mise la chiave in tasca. Sentimmo il soldato al primo piano gridare i nostri nomi, e lo stesso avvenne al secondo, e poi ancora al successivo. Mentre l’ascensore saliva lentamente, un vero e proprio coro annunciava il nostro arrivo. In cima una guardia ripeté la cerimonia dell’apertura e della chiusura della porta dell’ascensore, dopo di che ci introdusse in un ampio salone annunciando: «Tovarishtchy Goldman e Berkman».
Ci fu chiesto di aspettare un attimo, ma passò quasi un’ora prima che riprendesse la cerimonia del nostro avvicinamento al seggio del sommo. Finalmente un giovane ci fece cenno di seguirlo. Attraversammo un certo numero di uffici dove ferveva una grande attività, tra ticchettii delle macchine da scrivere e va e vieni di corrieri. Fummo fatti fermare davanti a una porta di legno massiccio, ornata da motivi finemente scolpiti dietro alla quale, dopo essersi scusato, sparì il nostro accompagnatore. Poco dopo la porta si aprì e la nostra guida ci invitò ad entrare, per poi chiuderla alle nostre spalle e sparire. Restammo sulla soglia, in attesa di altre istruzioni su come procedere. A un tratto ci rendemmo conto di due occhi che ci stavano fissando come a volerci trapassare. L’uomo a cui appartenevano era seduto dietro a un’enorme scrivania, dove tutto era disposto con assoluta precisione, mentre anche il resto della stanza dava la stessa impressione di meticolosità. Alle sue spalle c’era un pannello con numerosi interruttori del telefono e una cartina geografica del mondo che ricopriva l’intera parete; ai lati contenitori di vetro colmi di pesanti volumi. Poi un grande tavolo oblungo ricoperto di rosso, dodici sedie dallo schienale dritto e parecchie poltrone alle finestre: nient’altro a ravvivare l’ordinata monotonia dell’insieme, se non quel po’ di rosso fiammante.
Era uno sfondo molto adatto a un uomo noto per le sue rigide abitudini di vita e il suo atteggiamento pratico. Lenin, l’uomo più idolatrato al mondo, ma anche il più odiato e il più temuto, sarebbe stato fuori posto in un ambiente meno austero.
«Il’ic non spreca tempo coi preliminari, va dritto allo scopo» mi aveva detto una volta Zorin con evidente orgoglio e in effetti ogni mossa che aveva fatto a partire dal 1917 lo testimoniava. Tuttavia, se fossimo stati in dubbio, il modo in cui ci ricevette e le modalità del colloquio ci avrebbero rapidamente convinto del risparmio emotivo che lo caratterizzava. Straordinaria era non solo la velocità con cui valutava l’emotività altrui, ma anche l’abilità con cui la utilizzava per i propri scopi.
Non meno stupefacente era lo scoppio di allegria con cui sottolineava tutto ciò che riteneva buffo in sé o nei visitatori e, soprattutto se poteva mettere l’altro in posizione di svantaggio, il grande Lenin si metteva a tremare tutto per il gran ridere, come se volesse costringere anche gli altri a ridere con lui.
Dopo che ci ebbe trapassato da parte a parte con lo sguardo, fummo sottoposti a una tempesta di domande che si susseguivano una all’altra come frecce scoccate da un arco di precisione. Prima l’America, con le sue condizioni politiche ed economiche: che probabilità c’erano di una rivoluzione nell’immediato futuro? Poi l’American Federation of Labour: era intrisa di ideologia borghese, oppure lo erano solo Gompers e la sua cricca? E la massa degli iscritti, poteva costituire un terreno fertile con cui aprirsi un varco dall’interno? Poi gli I.W.W.: qual era la loro forza? E gli anarchici erano davvero tanto efficaci come pareva indicare il nostro recente processo?
“Anarchici in carcere? Sciocchezze” disse Lenin

Aveva appena finito di leggere i discorsi che avevamo tenuto in aula. «Ben fatto! Chiara analisi del sistema capitalistico, splendida propaganda!». Peccato che non avessimo potuto restare negli Stati Uniti, non importa a che prezzo. Certamente eravamo i benvenuti nella Russia sovietica, ma persone combattive come noi erano estremamente necessarie in America, dove avrebbero potuto dare il loro apporto all’imminente rivoluzione, «così come molti dei vostri migliori compagni hanno fatto con la nostra». «E voi, tovarishch Berkman, che abile organizzatore dovete essere, proprio come Shatoff. Di vero acciaio, il vostro compagno Shatoff: non si tira indietro davanti a niente e lavora come dodici uomini messi insieme. Adesso è in Siberia, Commissario alle ferrovie della Repubblica Estremo-Orientale. Molti altri anarchici hanno avuto cariche importanti con noi. Tutte le porte sono spalancate se sono disposti a collaborare come veri anarchici ideiny [idealisti]. Voi, tovarishch Berkman, troverete presto il vostro posto. Peccato, però, che siate stato strappato via dall’America in questo momento prodigioso.
E voi, tovarishch Goldman? Che spazio avevate! Avreste potuto restare. Perchè non l’avete fatto, anche se il compagno Berkman era cacciato via? Beh, adesso siete qui. Avete pensato a che tipo di lavoro vi piacerebbe fare? Siete entrambi anarchici ideiny [idealisti], lo vedo dalla vostra posizione sulla guerra, dalla vostra idea dell’“Ottobre”, la lotta che avete condotto in nostro favore e la fede nei soviet. Proprio come il vostro grande compagno Malatesta, che è al fianco della Russia sovietica. Che cosa preferite fare?».
Sasha fu il primo a recuperare l’uso della parola. Cominciò a parlare in inglese, ma Lenin lo bloccò immediatamente con un’allegra risata. «Credete che capisca l’inglese? Neanche una parola. E neanche le altre lingue. Non sono bravo, anche se sono vissuto all’estero molti anni. Strano, no?». Altri scoppi di risa. Sasha proseguì in russo. Era orgoglioso di sentir lodare i suoi compagni, disse, ma perché c’erano degli anarchici nelle prigioni russe? «Anarchici?» lo interruppe Lenin. «Sciocchezze! Chi vi ha riferito simili fandonie, e come avete potuto crederci? In prigione abbiamo banditi e seguaci di Machno, ma non anarchici ideiny [idealisti]».
«Anche l’America capitalista divide gli anarchici in due categorie, i filosofi e i criminali» intervenni a quel punto. «I primi sono ben accetti anche nella migliore società ed uno di loro è tenuto in grande considerazione perfino dall’amministrazione Wilson. La seconda categoria, alla quale abbiamo l’onore di appartenere, viene perseguitata e spesso chiusa in prigione. Anche voi pare che facciate una distinzione senza che vi sia una reale differenza. Non vi sembra?». Ragionavo in modo sbagliato, replicò Lenin, facevo una gran confusione e tiravo conclusioni simili da premesse differenti. «La libertà di parola è un pregiudizio borghese, un cataplasma buono per tutti i mali sociali. Nella Repubblica dei lavoratori il benessere economico parla con voce più forte dei semplici discorsi e la sua libertà è molto più sicura.
La dittatura del proletariato sta seguendo questa rotta. Proprio adesso si trova di fronte a gravissimi ostacoli, il principale dei quali è l’opposizione dei contadini. Hanno bisogno di chiodi, sale, tessili, trattori, elettricità. Quando riusciremo a dar loro tutto questo, saranno con noi e nessun potere controrivoluzionario li farà tornare indietro. Nello stato attuale della Russia qualsiasi chiacchiera oziosa sulla libertà serve solo ad alimentare la reazione che vuole atterrare la Russia. Solo i banditi si macchiano di una simile colpa e devono essere tenuti sotto chiave».
Sasha gli consegnò le risoluzioni del convegno anarchico e sottolineò quanto i compagni di Mosca assicuravano, e cioè che i compagni imprigionati erano ideiny [idealisti], non banditi. «Il fatto che la nostra gente chieda di essere legalizzata prova che sono al fianco della Rivoluzione e dei soviet» sostenemmo. Lenin prese il documento e promise di sottoporlo alla prossima riunione dell’esecutivo del partito. Saremmo stati informati delle decisioni prese, ma in ogni caso si trattava di una questione di poco conto, niente che valesse la pena per un vero rivoluzionario. C’era qualcosa d’altro?
Lenin entusiasta del nostro progetto…

Gli dicemmo che in America avevamo combattuto perfino per i diritti politici dei nostri avversari e che pertanto il fatto che questi diritti fossero negati ai nostri compagni non era cosa di poco conto per noi. Per quanto mi riguardava personalmente, lo informai, non me la sentivo di collaborare con un regime che perseguitava gli anarchici o altri per le loro idee. C’erano poi dei mali ancora più gravi: come potevamo conciliarli con l’alto obiettivo cui lui stesso aspirava? Gliene citai alcuni. Mi rispose che il mio atteggiamento denotava sentimentalismo borghese. La dittatura del proletariato era impegnata in una lotta mortale e i fattori secondari non potevano essere presi in considerazione. La Russia stava facendo passi da gigante sia al proprio interno che all’estero. Stava innescando la rivoluzione mondiale ed io mi lamentavo di qualche piccolo spargimento di sangue. Era assurdo, dovevo superarlo. «Fate qualcosa», consigliò, «è il metodo migliore per recuperare il vostro equilibrio rivoluzionario».
Forse Lenin aveva ragione, mi dissi. Avrei seguito il suo consiglio. Gli dissi quindi che avrei cominciato subito, non con qualche attività interna alla Russia, ma piuttosto con qualcosa che avesse un valore di propaganda negli Stati Uniti. Mi sarebbe piaciuto organizzare un’associazione di amici russi della libertà americana, che svolgesse attività a sostegno della lotta per la libertà che si svolgeva in America, così come gli amici americani della Russia avevano appoggiato la Russia e la sua battaglia contro il regime zarista.
Per tutta la durata del colloquio Lenin non si era mosso dalla sedia, ma ora poco ci mancava che facesse un balzo in avanti. Fece un giro su se stesso, poi si parò davanti a noi. «Ecco un’idea brillante!» esclamò, sfregandosi le mani con un sorrisino. «Una bella proposta pratica. Dovete darvi da fare per attuarla subito. E voi, tovarishch Berkman; collaborerete anche voi?»
Sasha rispose che ne avevamo già parlato tra di noi e avevamo già elaborato i dettagli del progetto. Potevamo iniziare subito se avessimo avuto l’attrezzatura necessaria. Nessun problema, ci assicurò Lenin, avremmo avuto tutto: un ufficio, l’attrezzatura per stampare, corrieri, e tutti i fondi necessari. Dovevamo però fargli avere un prospetto con il dettaglio delle spese preventivate. Se ne sarebbe occupata la Terza Internazionale. Era il canale adatto per il nostro progetto e ci avrebbe fornito ogni aiuto necessario.
Muti per lo stupore, ci guardammo l’un l’altro e poi rivolgemmo lo sguardo verso Lenin. Parlando insieme, cominciammo a spiegare che i nostri sforzi sarebbero stati efficaci solo se fossimo stati liberi da qualsiasi affiliazione alle organizzazioni bolsceviche. Dovevamo condurre il progetto a modo nostro: conoscevamo la psicologia degli americani e qual era il sistema per svolgere il lavoro al meglio. Prima però che potessimo addentrarci in ulteriori dettagli, ricomparve improvvisamente la nostra guida, con la stessa discrezione con cui era sparita, e Lenin ci porse la mano in gesto di commiato. «Non dimenticatevi di farmi avere il prospetto» ripeté mentre già lasciavamo la stanza.

Emma Goldman

Presentazione del libro di Paolo Morando “La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito”

Nell’anniversario della strage di Bologna, vi riproponiamo la presentazione del libro di Paolo Morando “La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito” che si è tenuta al Ponte il 5 marzo.
Oltre all’autore era presente Saverio Ferrari dell’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre.

L’arringa per la difesa di Gaetano Bresci nel processo per il regicidio

La sera di domenica 29 luglio 1900, l’anarchico Gaetano Bresci uccise il re d’Italia Umberto I sparandogli con una rivoltella. Dopo il rifiuto di Filippo Turati, Bresci fu difeso al processo dall’avvocato Francesco Merlino. Abbiamo recuperato sulla rivista “Il Pensiero” (25 dicembre 1903) l’arringa difensiva pronunciata da Merlino: uno straordinario documento storico, che vi riportiamo qui di seguito in versione integrale.


UNA DIFESA IN CORTE D’ASSISE

(Processo contro GAETANO BRESCI, Milano, 29 agosto 1900)

Avv. Merlino. — Signor Presidente, prima di cominciare, io sono costretto di pregarla di voler far prendere nota nel verbale, che il Rappresentante il P. M., nella sua requisitoria, ha affermato che il Bresci ebbe un complice, ed ha parlato di un telegramma e di atti i quali si riferiscono precisamente al processo contro i complici del Bresci. Siccome questa circostanza può avere un’influenza sulla sorte del gravame che noi interporremo contro una precedente ordinanza di questa Corte; adempio ad un compito della difesa chiedendo che si prenda nota di essa nel verbale.

Presidente. — Sarà fatto

Avv. Merlino. — Cittadini giurati. Il cortese saluto che il Rappresentante del P. M, ha voluto indirizzare non solo al mio collega quale rappresentante del Foro Milanese, ma anche a me, mi dispensa dal dire troppe parole per spiegarvi la mia presenza a questo banco.

Io non vengo qui a portare le mie convinzioni politiche: vengo ad adempiere ad un sacro dovere qual è quello della difesa. Purtroppo, in certe circostanze, si è corrivi agli eccessi ed alle esagerazioni. Ed uno degli eccessi, una delle esagerazioni, che si sono fatte strada in questa circostanza, è che si dovesse fare a meno di tutte le formalità solite di un giudizio, che si dovesse trasandare alle esigenze della legge, che quasi non occorresse un difensore, non occorresse dibattimento, che il giudizio e la condanna dovessero seguire ratte come il fulmine al delitto. (Movimenti del pubblico).

Ora questa esagerazione è, lasciatemelo dire, indegna di uomini seri e di un popolo civile. (Nuovi movimenti nel pubblico).

Noi dobbiamo serbare in tutte le circostanze, anche nelle più gravi, la nostra calma e la nostra dignità, e dobbiamo dare al mondo civile la prova che noi sappiamo rispettare i diritti della giustizia, che sappiamo assolvere il compito nostro, senza lasciarci sopraffare da sentimenti di odio o di vendetta, da nessuna passione, che possa velare la nostra mente e fuorviare il nostro giudizio.

Purtroppo l’intromissione di passioni estranee nella causa presente si è rivelata, anche nella requisitoria che or ora avete udita.

Imperocchè il Procuratore Generale ha creduto di dovervi dire che la vostra indulgenza sarebbe una nota stridente nel plebiscito italiano di dolore. Egli ha creduto di dover alludere ad altri precedenti simili processi, e qua e là ha dato a di vedere una certa preoccupazione d’indole politica. Voi dovete scacciare queste preoccupazioni dagli animi vostri: voi dovete amministrare giustizia con calma e serenità. E quella stessa moderazione che a noi ci veniva raccomandata dal banco dell’accusa, io oso raccomandarla a voi.

Imperocchè non crediate che coi verdetti eccessivi, colle condanne atroci si reprima il delitto. Noi abbiamo la prova del contrario, appunto nei fatti precedenti all’attuale, ai quali ha alluso il P. M. No! I gravi delitti non trovano un freno nella repressione. Certi gravi delitti, come l’attuale, rispondono a gravi problemi sociali. (Movimenti nel pubblico).

E questi problemi sociali devono essere studiati e risoluti con amore, con coscienza da tutti i buoni cittadini. No, non è la pena grave che cada sopra costui che possa trattenere altri disposti a sagrificare la propria esistenza, per un’idea anche errata che sia nella loro mente, dal compiere i loro propositi; ed è una pericolosa illusione il credere come noi facciamo, che colpendo severamente un reato, noi ne impediamo altri. Pericolosa illusione perché essa ci distoglie dall’avvisare ai veri rimedii dei mali sociali che ci travagliano e che nel delitto si velano.

Il P. M. ha detto che egli non sarebbe entrato nella discussione delle teorie anarchiche; ciò non dimeno egli ha fatto delle affermazioni che io non posso lasciar passare, per le conseguenze che egli ne ha tratte, e che anche voi potreste trarne nei riguardi del vostro verdetto.

Egli ha detto che il delitto di oggi è delitto dell’anarchia, che il cammino dell’anarchia è tracciato da atroci misfatti, che colui il quale fu il capo, l’ispiratore, il maestro dell’anarchismo aveva un solo scopo: la distruzione; che il partito anarchico si può paragonare alla sètta degli ascisci, capitanata dal Vecchio della Montagna; che Paterson è addirittura la cittadella degli anarchici; che ivi si tengono pubbliche conferenze ove discutesi il fatto individuale, che vi si pubblica un giornale intitolato l’Aurora e che in questo giornale si fa apertamente l’apologia del regicidio.

Ora, tutte queste affermazioni non sono confortate di prova alcuna e non rispondono al vero. Il regicidio non è, non può essere un principio anarchico. Ammazzare un uomo, sia un re, sia un capo di governo, sia un avversario qualsiasi, non può risolvere nessun problema sociale.

Il regicidio, prima, e molto prima che fosse praticato dagli anarchici, e notate bene, da alcuni anarchici soltanto (or ora vi dirò le ragioni per cui questi anarchici ricorrono a questo mezzo di lotta), il regicidio, prima ancora che dagli anarchici, è stato praticato da tutti gli altri partiti politici.

Voi conoscete la storia meglio di me, e non ho bisogno di ricordarvi che al regicidio hanno ricorso i monarchici contro i capi di governo repubblicano, i repubblicani contro i capi di governo monarchico, i cattolici contro i protestanti, i protestanti contro i cattolici: al regicidio hanno ricorso le sètte le quali intendevo, a un qualsiasi fine politico; il regicidio è stato in certe circostanze considerato, bene o male, come un atto di buona guerra. Esso non è un’invenzione degli anarchici, è un’idea che ricorre alla mente di uomini che lottano contro un dato ordine sociale, che si illudono di poter colpire quest’ordine sociale in colui che esteriormente lo rappresenta.

Io non voglio allungare questa discussione, leggendovi per intiero un discorso di un deputato italiano pronunciato in pieno Parlamento Subalpino nel 1858, all’indomani del tentato regicidio contro Napoleone III da parte di Felice Orsini. Quel deputato era il Brofferio. Egli pronunciò quel suo discorso (che è una vera apologia del regicidio) fra gli applausi di un buon numero dei sui colleghi.

E citò tutti coloro i quali nella storia hanno fatto l’apologia del regicidio. E sapete chi citò? Citò, gente di tutte le condizioni sociali, scrittori politici, poeti, perfino padri della chiesa: citò la Bibbia, dove Giuditta è glorificata per aver ucciso Oloferne, citò Cicerone. Ed infine a queste citazioni si trova nel discorso la dichiarazione fatta dal Brofferio della propria opinione intorno al regicidio, la quale è questa: «Ben più seria querela — dice Brofferio — muoverei all’on. Della Margherita. Voi udiste, o signori, le sue parole sopra Felice Orsini. Felice Orsini ha potuto trovare a Parigi un francese che con nobili accenti ha evocato, prima di morire, sopra il suo capo, le simpatie dell’Europa. Felice Orsini aveva attentato alla vita di Napoleone III e Brofferio dice che il suo difensore Jules Fàvre, con nobili accenti, aveva chiamato sul suo capo le simpatie dell’Europa, «E si doveva — aggiunge il Brofferio — in un Parlamento italiano, trovare un italiano che ai piedi del patibolo lo chiamasse malfattore!» Brofferio negava che Felice Orsini fosse un malfattore.

E dopo ciò, verrete voi a dirmi che sono gli anarchici che hanno inventato il regicidio?

È vero, alcuni anarchici hanno attentata alla vita dell’uno o dell’altro capo di Stato. E noi continuamente ci poniamo questo problema: «Come è che costoro sono anarchici, ma più particolarmente anarchici italiani, ed ancor più particolarmente anarchici italiani emigrati dal loro paese? I principii anarchici sono gli stessi, siano essi professati da inglesi, tedeschi, francesi o da italiani: ciò non di meno noi vediamo questa grande differenza: gli anarchici degli altri paesi non ricorrono al regicidio: vi ricorrono i soli italiani.

Qui è necessario che noi discorriamo delle cagioni di questi fatti, perché da esse noi potremo trarre gli elementi per un giudizio più equo, meno esagerato, anche nei riguardi dell’attuale accusato.

Per taluni la spiegazione è semplice. Gli anarchici italiani sono sanguinarii più degli anarchici appartenenti alle altre nazioni, per la stessa ragione per la quale in Italia si commette un maggior numero di omicidii che non negli altri paesi.

Questa spiegazione non mi persuade. È vero che nel nostro paese si commettono, disgraziatamente, più omicidi che non negli altri paesi; ma sono omicidi di impeto, passionali, mentre quelli premeditati, i grandi delitti, i grandi assassinii sono forse più frequenti in altri paesi che non da noi; certamente più in Francia che non in Italia.

Ora noi siamo precisamente nel caso di un omicidio non passionale, ma premeditato, nel caso, se mi è permessa l’espressione, del grande delitto.

Una seconda spiegazione che da taluno si dà, è stata anche accennata dall’attuale accusato: il disagio economico dei nostri operai, disagio che li inasprisce, li eccita e li induce ad atti di ribellione.

Ora io mi permetto di non convenire neppure in questo. Non ascrivo sia le cause di questo reato il disagio economico degli operai, per la semplice ragione che operai i quali versino in tristissime condizioni ve ne sono pur troppi in altri paesi; operai emigranti più poveri degli Italiani sono gli Ungheresi, gli Scandinavi, i Cinesi, gli Irlandesi, che pure si incontrano nei paesi di grande immigrazione come gli Stati Uniti. Non si spiegherebbe come fra tutti questi operai di diversi paesi, i quali si trovano tutti in grande disagio economico, semplicemente agli italiani venga in mente di ricorrere a questo mezzo per reagire contro le proprie tristi condizioni economiche.

Queste ragioni quindi non spiegano il fatto, ed il problema sussiste.

Ve ne sono altre, le quali ci danno la chiave dello enigma, ed a me corre il debito di dirle.

Avanti tutto, per parlare particolarmente del regicidio, dobbiamo tenere in considerazione due fattori: lo storico ed il politico. Il fattore storico è questo: in Italia sopravvivono ancora le tradizioni dei diversi governi assoluti, quindi la tendenza nella popolazione, in generale, di personificare il governo dello Stato nel Re: noi italiani non abbiamo ancora l’educazione politica degli altri popoli: non comprendiamo quanto sia complicato l’ingranaggio sociale: abbiamo bisogno di semplificare la nostra concezione dello Stato e lo Stato lo vediamo nel capo di esso. Quindi se altri hanno bisogno di un soccorso, crede opportuno di rivolgersi alla munificenza reale; se altri riceve un torto, ragiona e dice che alla fine dei conti l’autore primo e principale di questo torto deve essere il capo dello Stato.

E questo convincimento, che ci viene dalla tradizione, è pur troppo confortato da una propaganda che giorno per giorno si va facendo per il ritorno ad aboliti regimi di governo: la propaganda assolutista… (Movimenti nell’uditorio) …di cui si fa eco una certa stampa, e che non incontra da parte dell’autorità giudiziaria, nessuna repressione. Nei giornali voi leggete spesso volte frasi di questo genere: Quanto sarebbe bene che il Re mandasse a casa i deputati e governasse lui solo!

Quale altro effetto possono produrre nella mente delle persone non molto istruite queste affermazioni se non quello di confermarlo nel pregiudizio che il Re, volendo, possa egli solo provvedere a tutte le faccende del bel paese d’Italia, regolandole tutte secondo un principio ideale di equità e di giustizia che valga a rimuovere ogni ragione di lamento?

È la propaganda assolutista quella che ha contribuito a rafforzare la persuasione che il Re debba rispondere di tutti i mali che soffrono le popolazioni. (Movimenti nell’uditorio)

A questo bisogna aggiungere un altro fatto importantissimo, e voi vedrete e direte nel vostro verdetto se effettivamente l’errore che è nella mente di colui (accennando all’accusato) sia imputabile soltanto a lui o lo sia anche ad altri, e direi quasi all’universalità dei cittadini d’Italia. (Agitazione nell’uditorio).

E questo altro fatto è che noi effettivamente abbiamo attraversato un periodo acuto della nostra vita politica. Vi è stato un momento in cui, come diceva l’imputato, pareva che le nostre libertà fossero in pericolo; pareva che la gran legge dello Stato fosse solo in salvezza del Governo: fu proclamato che per una ragione suprema di necessità e di difesa della propria esistenza, il governo avesse il diritto di manomettere le leggi, di violarne lo Statuto, di creare tribunali straordinarii, di mettere stati d’assedio e fare tutto quello che venisse in mente al presidente del Consiglio dei ministri. (L’agitazione nel pubblico va crescendo).

Noi siamo usciti fuori dal terreno delle libertà, abbiamo ricorso alle violenze; sì! il Governo ricorse alla violenza; e non dovete meravigliarvi se l’esempio della violenza, venendo dall’alto, provocasse una reazione dal basso della società, se c’è stato chi ha creduto ad un’altra necessità, a quella cioè di opporre alla violenza del Governo la violenza privata. (Segni mal repressi di disapprovazione nel pubblico).

Procuratore generale. — Mi pare che questo…

Avv. Merlino. — Questo è il fattore politico della delinquenza anarchica in Italia. Ma un’altra ragione più speciale, deve essere addotta in difesa dell’accusato: il trattamento che è stato fatto agli anarchici nel nostro paese. Perché, notatelo bene, o signori giurati, per quanto si vogliano dipingere a foschi colori i principii degli anarchici, ciò non pertanto in Inghilterra ognuno è libero di esporre le sue teorie, di tenere quelle conferenze cui accennava il P. M., e la polizia non interviene, ed in Inghilterra non accadono attentati anarchici, come da noi.

Da noi, invece, si è stabilito in principio, che l’anarchico non ha il diritto né di pubblicare giornali, né di parlare in pubblico, né di esporre in modo alcuno le proprie convinzioni, né di costituirsi in associazione coi suoi compagni di fede. Gli anarchici non hanno il diritto di esistere come partito, e come individui sono perseguitati quali belve feroci dalla polizia, che crede… (viva agitazione nel pubblico)

Presidente, — Avvocato, veda di mantenersi strettamente nei limiti della causa (approvazioni vivissime dal pubblico — tentativi di applausi)

Avv. Merlino (concitato), — Io faccio appello alla civiltà…

Presidente. — Avverto il pubblico che non sono permessi segni di approvazione o di disapprovazione, e che, rinnovandosi, farò sgombrare immediatamente la sala, e si procederà a porto chiuse.

Avv. Merlino. — Signor presidente, io credo di essere precisamente nei limiti della causa, quando rispondo alle argomentazioni del rappresentante l’accusa. Il P.M. ha parlato di una cittadella di anarchici, Paterson: io posso spiegarvi coi documenti alla mano, come essa si sia formata. In Italia, e propriamente ad Ancona, si pubblicava un giornale intitolato L’Agitazione, e direttore o redattore capo ne era un uomo che voi tutti conoscete di nome e di cui si è fatto anche parola in questo processo: Errico Malatesta. Ebbene, in questo giornale — e ne ho qui i numeri, che posso passare al rappresentante l’accusa (anche perché il problema è gravissimo e merita di essere studiato sotto molti riguardi, non solo in quelli del processo attuale) — in questo giornale il Malatesta diceva espressamente: noi anarchici non domandiamo che di poter fare la nostra propaganda nei limiti che ci sono consentiti dalla legge: di poterci costituire in associazione e di poter partecipare ai tentativi che fanno le classi operaie per il miglioramento delle loro condizioni economiche e di essere rispettati come tutti gli altri partiti politici nell’esercizio delle pubbliche libertà.

Sapete come si rispose alla propaganda strettamente pacifica del Malatesta e dei suoi compagni in Ancona? Si rispose con un processo per associazione a delinquere; e quando i magistrati di Ancona, in prima istanza, e poi in di appello, assolvettero gl’imputati dichiarando tra altre cose che risultava luminosamente provata la loro alte moralità, il Governo non si peritò di mandarli a prendere e confinarli nelle isole!

Il Malatesta dovette arrischiare la vita per riacquistare la sua, libertà, e si recò prima a Londra, poi a Paterson. lo sono convinto che egli non ha fatto l’apologia del regicidio; ma nello stesso tempo credo bene che egli, non avrà cantato le lodi del governo italiano. Ecco come si spiega la cittadella degli anarchici.

Presidente, — La prego nuovamente, avvocato: venga alla causa.

Avv. Merlino, — Questa è la causa.

Presidente, — No, non è la causa.

Avv. Merlino, — Con le sue persecuzioni, la polizia spinge alcuni di questi anarchici, i più impulsivi, a reagire; li caccia dal proprio paese; toglie ad essi i mezzi di lottare nel campo politico e legale e crea loro un ambiente.

Presidente. — Io non posso lasciarla continuare di questo passo: venga alla parte legale della causa e veda di stringere e possibilmente di conchiudere.

Avv. Merlino, — La parte legale della causa è precisamente questa. L’ambiente artificiale a cui ha accennato il P. M. nel quale questa gente è costretta a vivere…

Pubblico Ministero, — Io non ho parlato di questo! Ho detto: la difesa potrà dire che l’ambiente di Paterson abbia potuto contribuire a demoralizzare l’accusato…

Avv. Merlino. — La mia tesi difensiva è legalissima ed è questa: noi tutti ormai conosciamo che il delitto collettivo va misurato ad una stregua diversa del delitto individuale. Si è parlato molto del delitto della folla e ci sono non solo autori, ma anche sentenze di magistrati, le quali ritengono che il delitto commesso in una folla abbia in questo stesso fatto un’attenuante. Ma, se io vi dimostro che effettivamente vi è un ambiente artificiale, nel quale questi anarchici si trovano insieme, stretti da una comune persecuzione, e vi si esaltano a vicenda e qualcuno di essi viene a propositi di questo genere, io dico: voi non potete essere severi con costui, perché se riandate le cause del suo delitto, la causa, la causa prima la rinverrete nell’azione di coloro che, avversando le sue idee, gli hanno negato il diritto che deve essere riconosciuto ad ogni cittadino di professare i principii, che crede giusti, di lottare per l’attuazione pacifica dei proprii ideali. (Rumori nel pubblico).

Presidente, — Avvocato non si fermi davvantaggio su queste argomentazioni: la prego un’altra volta di venire alla conclusione.

Avv. Merlino, — Signor presidente, io credo di dovervi insistere.

Presidente. — Ella non ha il diritto di insistere. Ella non può venir qui ad accusare: non può venir qui a far della propaganda.

Avv. Merlino. — Io sono nella causa, io non faccio propaganda. Ella vede che non ho discussi i principii.

Presidente — Se non sarà propaganda sarà apologia. Ella su certe argomentazioni si ferma un po’ troppo e con troppa passione; quindi veda di trattare la causa nei limiti strettamente necessari alla difesa dell’accusato. (Approvazioni vivissime e mal represse da parte del pubblico)

Avv. Merlino, — La troppa passione è segno della profondità della mia convinzione.

Presidente, — E sia; ma si tenga strettamente alla causa.

Avv. Merlino, — Del resto mi permetto di osservare che questa tesi fu anche sostenuta dinanzi alla Corte d’assise di Napoli dall’illustre avv. Tarantini, in un processo perfettamente identico.

Procuratore generale. — Il Tarantini sostenne proprio il contrario,

Avv. Merlino. — Precisamente ; ciò nondimeno io ho ragione di invocare il suo esempio… E spiego subito questa apparente contraddizione. Anche l’illustre avvocato napoletano sostenne che dal fatto bisognasse rimontare alla causa; se non che rinveniva la causa del regicidio nella troppa libertà e nella troppa istruzione, ed io la ritengo invece nella poca o nessuna libertà lasciata ad alcuni cittadini e ad alcuni partiti. Dunque, se era nei limiti della causa l’avv. Tarantini, mi pare di esservi anch’io.

Presidente, — Al contrario.

Avv. Merlino. — Signor Presidente, signori Giurati: che cosa è il delitto politico? È l’insorgere che un individuo o pochi individui fanno contro il regime di cose esistente. Ed io sono il primo a riconoscere (in ciò discorde dall’opinione di ben noti autori), che il delitto politico abbia in sé un vero contenuto morale; perché non si ha il diritto di insorgere contro la volontà della maggioranza della nazione è di imporle un mutamento di regime colla violenza. Questo deve essere riconosciuto in qualunque regime politico, anche domani, se ne avessimo un altro, puta caso), il socialista. È necessario che coloro i quali hanno opinioni contrarie al vigente ordinamento dello Stato facciano valere le loro opinioni per mezzo della propaganda pacifica, finché quelle opinioni guadagnino il consenso universale e si impongano. Questo però importa, che si consenta una tale propaganda. Per impedire il delitto politico non vi è che un solo metodo: libertà per tutte le opinioni.

Quando negate libertà a certe opinioni, quando voi maggioranza commettete abusi ed ingiustizie, allora necessariamente, inducete la minoranza ad uscire anch’essa dal terreno della legalità, e violare in voi quella libertà che voi violate in essa.

Presidente. — Signor Avvocato: qui non vi sono abusi né violenze di sorta. Veda, per carità, di attenersi alla causa, di stringere gli argomenti, di abbandonare certe sue teorie: le potrà spiegare in altra sede. Qui deve trattare legalmente la causa, lasciando da parte certe teorie elastiche.

Avv., Merlino (concitato). — Lei, signor Presidente, non ha interrotto il P. M. quando anch’egli ha accennato a teorie.

Presidente, — Il P.M. non ha mai esorbitato.

Procuratore generale. — Io ho parlato di fatti, non di teorie.

Avv., Morlino, — E di fatti sto parlando anch’io.

Procuratore generale. — Lei mi viene a ragionare del delitto politico, e mi viene a confondere il delitto politico con l’assassinio del Re!

Avv. Morlino, — Precisamente, si tratta di un assassinio politico.

Procuratore generale. — Uccidere un uomo è sempre un assassinio. (Benissimo! Approvazioni vivissime da porte del pubblico — Rumori mal repressi).

Presidente. — Facciamo silenzio — La prego un’altra volta, avvocato, di stringere e di conchiudere. Ella ha parlato abbastanza su questa questione. Venga nella parte legale, se crede, e poi conchiuda; altrimenti io sarò obbligato a richiamarla un’altra volta nell’ordine e di ricorrere ad altri provvedimenti che lei conosce.

Avv. Merlino (eccitatissimo) — Prima che il Presidente venga a questo provvedimento, desidero che sia inserita a verbale la mia tesi.

Procuratore generale. — Crede che non sia morale, secondo lui, ma ha sostenuto la giustificazione del delitto politico!! Lo chiedo anch’io che lo si inserisca a verbale.

Presidente, — S’inserisca a verbale che l’avv. Merlino tratta lungamente di teoriche intese a giustificare il delitto politico, e che il Presidente lo richiama all’ordine per la seconda e per la terza volta.

Avv. Merlino. — Prego anche s’ inserisca: L’avv. Merlino chiede e fa istanza perché sia inserito a verbale che egli sostiene questa tesi: che tra le cause del delitto attribuito al Bresci vi sono cause di indole generale e che queste cause d’indole generale debbono essere tenute in considerazione nel misurare la responsabilità da attribuirsi al Bresci medesimo.

Presidente, — Si dia atto all’avv. Merlino di questa sua dichiarazione, e poi basta.

Avv. Merlino. — Come voi vedete, mi è impossibile di svolgere il concetto che io avevo tentato di tar penetrare nelle vostre menti, vale a dire che voi dovete in questa causa tener conto di tutti i fattori i quali hanno potuto determinare il Bresci a commettere il regicidio; pur essendo la mia tesi perfettamente legale, mi è vietato di svolgerla, perché necessariamente alcune mie frasi hanno urtato le convinzioni del P. M.

Non mi rimane, dunque, che a conchiudere. Noi dobbiamo distinguere due cose perfettamente diverse; la vendetta dalla giustizia.

La vendetta è una semplice ritorsione dell’ingiuria, la giustizia è una riaffermazione del diritto mediante l’esame calmo, freddo, rigoroso e minuto di tutte le responsabilità.

Ora in questa causa viene continuamente in conflitto il sentimento della vendetta col sentimento della giustizia. Forse questo accade in tutte le cause, ma un po’ più in questa — l’idea corre alla necessità di vendicare in modo esemplare il delitto.

Ma voi dovete preservarvi da questa influenza, voi dovete essere compenetrati del vostro dovere di rendere puramente e semplicemente giustizia.

Se si dovesse fare vendetta, oh! allora certamente non ci sarebbe stato bisogno della solennità di questo dibattimento.

Se si dovesse fare vendetta oh! allora sarebbe giustificato che oltre al Bresci si siano colpiti anche il fratello, il cognato, gli amici, i correligionarii, gli abitanti del suo paese nativo, che si siano fatti arresti in massa per l’Italia (Rumori vivissimi — Agitazione crescente nel pubblico), e si fabbrichino processi per associazione di malfattori contro persone innocenti…

Presidente (vivamente). — Ma questo non si fa in Italia.

Avv. Merlino. — Questa è vendetta. Ma voi dovete fare giustizia in questo senso: che voi dovete assegnare a costui la sua vera responsabilità, egli è colpevole, sì; ha commesso un delitto, non lo nego, e deve farne l’espiazione. Ma dati i suoi precedenti, date le cause che brevemente vi ho esposte, date tutte le influenze che hanno agito sull’animo di lui, gli negherete voi quello che tante volte avete concesso anche ai parricidi, anche ad accusati che non avevano i suoi buoni precedenti, non erano stati trascinati da una erronea idea politica, anche ad individui a delinquere nati, ad nomini perversi i quali, se avessero potuto avere ancora un’ora di libertà avrebbero commesso altri atroci delitti?

Di qui non si esce: o voi applicate a costui i principii del diritto comune, della giustizia ordinaria e non dovete fare sì che gli sia inflitta la massima delle pene, non inferiore a quella tale pena di morte, della cui abolizione di mena vanto, anzi molto più barbara e crudele, perché è un’agonia perpetua.

Se, invece, il vostro verdetto sarà quale lo chiede il P.M., non farete giustizia, farete vendetta, farete cosa non degna di un popolo civile (Movimenti diversi – Rumori nel pubblico.)

SAVERIO MERLINO.

N.B. – Il lettore tenga presente che il pubblico era composto di soli funzionari dello Stato e di guardie di pubblica sicurezza; così è spiegabilissimo il suo contegno verso il difensore.

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