I n una delle scene più note di Jurassic Park, il patron del parco di dinosauri clonati mostra ai suoi ospiti un cartone animato che spiega al pubblico come siano riusciti a ricostruire il DNA di queste creature preistoriche. Il protagonista del cartone è Mister DNA, un personaggio con le fattezze da doppia elica che inizia a raccontare: “una sola goccia del tuo sangue contiene miliardi di filamenti di DNA, i mattoni coi quali è costruita la vita. Un filamento di DNA come me costituisce il progetto di costruzione di un essere vivente”.
Che la vita sia iscritta nel DNA è d’altra parte una delle concezioni più popolari e diffuse quando si parla di genetica. Secondo il biologo Jean-Jacques Kupiec, però, le cose potrebbero stare diversamente. Il suo ultimo libro, La concezione anarchica del vivente, uscito quest’anno per Elèuthera (con la traduzione di Carlo Milani), cerca proprio di smontare l’idea che il DNA sia un progetto di costruzione del vivente e mette in critica quello che Evelyn Fox Keller chiama “il discorso della genetica”.
L’idea è radicale, discussa e forse a tratti ignorata, ma negli ultimi anni si è mossa al di fuori della teoria epistemologica, della critica di una scienza, e ha dato via a una serie di studi sperimentali in biologia, in area francese, pubblicati peer-reviewed.
È una suggestione che muove i passi da lontano, dall’inizio degli anni Ottanta. Kupiec aveva cominciato la sua carriera come biologo molecolare all’Institut national de la santé et de la recherche médicale di Parigi. “Lavoravo in laboratorio sui virus, DNA, RNA e proteine” mi racconta, “e ho clonato dei genomi interi di virus nella mia carriera”. Nel frattempo portava avanti riflessioni sulla biologia, sul darwinismo, sulla genetica, finché verso la fine della carriera si è dedicato solo alla pratica epistemologica, al centro Cavaillès della Scuola Normale di Parigi. A partire dal differenziarsi delle cellule e dal loro organizzarsi, Kupiec ha sviluppato una domanda epistemologica. Davvero il DNA determina, dà istruzioni, mette ordine nel vivente? Oppure è partecipe di un processo più complesso, dove c’entrano il caso e l’adattamento delle cellule al proprio ambiente?
Già l’epigenetica dà un ruolo all’influenza dell’ambiente nell’espressione dei geni. Questa scienza giovane studia le alterazioni molecolari che avvengono sopra il DNA ma che non ne modificano la sequenza, alterazioni capaci di favorire o impedire l’espressione di un gene e dovute all’ambiente: un trauma ambientale come trovarsi a vivere in una carestia, per esempio, lascerebbe una sua traccia sulla superficie del DNA. Ma Kupiec si spinge oltre.
Per Kupiec l’espressione dei geni è dovuta al caso, è stocastica, e il processo che porta dall’uovo fecondato, all’embrione, quindi all’individuo (lo chiamiamo ontogenesi), “non è una diversificazione dell’azione dei geni, bensì una riduzione del loro potenziale di variabilità” (ci torniamo più avanti). Su quest’ipotesi ha collaborato sperimentalmente con diversi ricercatori, tra cui il fisico Bertrand Laforge e il biologo molecolare Olivier Gandrillon. Nel 2009 era già uscito in Italia un altro suo testo scritto con Pierre Sonigo, biologo, citato a più riprese da Bruno Latour. Il titolo era audace, Né Dio né genoma: per una nuova teoria dell’ereditarietà (Elèuthera), che riprendeva l’adagio anarchico “né Dio né padrone”.
Kupiec prosegue sullo stesso filone, attraversa e decostruisce la storia del discorso della genetica e avanza un modello “darwinista anarchico” del vivente, fino a ridiscutere del concetto di specie: quali sono i confini tra una specie e un’altra? la specie esiste o è solo un concetto utile per i nostri cataloghi? Con Kupiec parliamo di questo, del flusso del vivente o del determinismo, del caso, dei geni.
Lei parla di teoria determinista della genetica. Cosa significa?
La genetica dice che siamo determinati dai geni. Con la biologia molecolare, venuta poi, è apparso il concetto di programma genetico. Si è detto: i geni formano un programma genetico, nel DNA, un programma che governa il funzionamento degli esseri viventi e che soprattutto governa lo sviluppo embrionale, cioè come dall’uovo fecondato, una cellula sola, si costruisca l’embrione, fatto di miliardi di cellule, che a sua volta si sviluppa fino a diventare un essere adulto; tutto quanto governato da un programma. Questo è il determinismo della genetica: lo sviluppo dell’individuo è programmato ancor prima di esistere.
Per come la racconta sembra quasi il vangelo secondo Giovanni, “in principio era il logos e il logos era presso Dio…”
Ma è così: è una versione materialista, in apparenza, ma di una teoria idealista ben più antica. In fisica l’uomo si credeva al centro dell’universo fisico ed è servito Galileo e poi altri per ribaltare quest’idea. In biologia si immagina che l’individuo adulto sia il centro e la finalità della biologia stessa. Quando guardiamo all’embrione che si sviluppa, la nostra idea è che ciascuna delle cellule non esista per se stessa hic et nunc, qui e ora, ma esiste in vista di un progetto futuro che è l’adulto, quella totalità che siamo noi stessi. Insomma, si dice che c’è un piano dell’organismo che si realizza nel corso dello sviluppo, per un fine. La teoria è anche finalista. È un’ontologia ben più antica: quella della “forma” di Aristotele, l’eidos. La causa formale che è ciò che mette in atto, ed è anche il progetto con un fine; e il programma genetico è la stessa cosa e il suo fine è costruire l’essere. Se parliamo con un genetista, dirà che no, le cose sono in effetti più complicate ma quel doppio discorso della genetica di cui parlavo prima dura da un secolo. La teoria che invece propongo è che le cellule esistono all’inizio per loro stesse, reagiscono alle loro condizioni di esistenza locali, qui e ora. È attraverso le relazioni sociali tra cellule che si costruisce un individuo. Noi siamo persuasi che ci siamo solo noi, ma siamo società cellulari.
Si legge spesso sui titoli di giornale: scoperto il gene di… seguito da qualsiasi cosa: malattie, comportamenti, tratti distintivi. Su Google, in italiano, si ottengono 4 milioni di risultati per la frase “trovato il gene”. Qual è l’idea che si muove dietro questa fiducia? Perché ci piace pensare che i nostri geni possano essere responsabili di ogni tratto della nostra vita?
Vado dritto al punto, brutale, anche se andrebbe approfondito: credo sia un’ideologia della genetica diffusa nella società. C’è un ordine naturale che si propaga nella società e ciascuno è al suo posto in funzione dei geni che ha. Certo, i genetisti non dicono questo, ma sono le conseguenze della teoria. La genetica è però una spiegazione che è stata utile ai biologi per avere un quadro entro cui lavorare, perciò dobbiamo fare un passo indietro e capire che cos’è. È un discorso che si fonda su ciò che i genetisti chiamano leggi, le leggi di Mendel. Tutti ne abbiamo sentito parlare, penso, quando andavamo a scuola: è la storia dei piselli e di Mendel il monaco che faceva ibridazioni con quelli. Sono leggi molto precise e dicono che gli esseri – all’inizio, erano solo i piselli ma poi è stato generalizzato – sono così come sono in funzione della distribuzione dei geni.
I semi dei piselli erano lisci o rugosi, le persone sono alte o basse, hanno questo o quel colore della pelle, degli occhi, eccetera. In queste leggi l’ambiente non c’è. Da tempo sappiamo che non va così e si sono moltiplicate le esperienze per cui quelle leggi non funzionano. Si è perciò tentato di dare spiegazioni di compromesso, del tipo: c’entra il gene ma anche l’ambiente e i genetisti dicono che non siamo determinati solo dai geni, ma ci sono per esempio fattori epigenetici. Convivono dunque due discorsi della genetica: una genetica in senso forte, causale, quella delle leggi di Mendel, e una concezione debole della genetica, l’epigenetica. Oggi, da una parte si parla sempre più della genetica nel senso debole, la genetica e l’epigenetica, ma poi si torna a dire: “ecco il gene della schizofrenia, ecco il gene di quell’altra malattia”. E i programmi di ricerca sono il più delle volte centrati sulla genetica dura, cioè cercare quel gene.
Eppure negli ultimi dieci anni si sosteneva di saper bene che non sono solo i geni a contare, ma che c’è la biologia dei sistemi. Oscilliamo costantemente tra i due discorsi. Perché? Il mio parere è perché c’è sotto un’ideologia che ha un ruolo nella società. C’è un livello politico e dei media, e poi uno più profondo, filosofico che riguarda la paura di rinunciare all’idea che ci siano forme stabili, soggiacenti a tutto. Tutto il medioevo ne aveva già discusso, in quella che chiamiamo “disputa degli universali”: le specie esistono davvero o no, sono solo nomi? Perché rinunciare a queste forme significa rinunciare a un’identità di specie che ci mette in cima alla creazione. È l’aspetto meno scientifico e meno sperimentale del mio lavoro, ma siamo obbligati a chiederci se sia così.
Non c’è forse in genetica un discorso simile a quello che vale per la fisica? Lì abbiamo da un lato abbiamo la relatività, dall’altro la meccanica quantistica. Da anni si fanno sforzi per unificare le due teorie, ma nel frattempo nei loro domini funzionano e dunque ci si dice, bene possiamo comunque procedere. Qui invece c’è la teoria genetica e c’è l’epigenetica, un campo che sembra promettente. Nella ricerca antitumorale, per esempio, si sperimentano farmaci che intervengano proprio su quelle alterazioni molecolari sulla superficie del DNA, studiate dall’epigenetica. Non è invece che il “discorso della genetica”, che lei contesta, regge perché in fondo funziona?
Vero. Le biotecnologie esistono e hanno un’efficacia, non lo nego. Certo, se abbiamo osservato il DNA e i nuclei è grazie alla teoria genetica. Ma penso sia anche grazie allo sviluppo tecnologico generale che permette di guardare al vivente con strumenti sempre più precisi. Il fatto è che possiamo avere efficacia tecnica anche con una teoria erronea. I romani sapevano fare catapulte molto efficaci, ma non sapevano di gravità o meccanica, era fisica pre-galileiana. Penso che valga lo stesso discorso. Qui abbiamo certi saperi empirici che si sviluppano e che conducono a un saper fare tecnico, come un meccanico di automobili che è capace di riparare egregiamente il funzionamento di un’auto, o di migliorarlo. Perciò le biotecnologie funzionano, certo, e poi però le mettiamo sul conto della genetica, cioè servono a dimostrare che questa funziona.
Penso poi a un altro campo di ricerca: il cancro, un problema legato alla multi-cellularità. Nella storia abbiamo isolato, per così dire, il primo “gene del cancro” nel 1976, grazie a due ricercatori, Varmus e Bishop, che hanno preso il Nobel. Quando è stato scoperto si diceva che era straordinario e che avremmo trovato la causa del cancro. Non è andata così. Oggi accumuliamo nuovi geni del cancro, un altro e un altro ancora, e non siamo più così certi. Tuttavia, ci sono stati dei progressi nel trattamento delle malattie, trattamenti fatti su saperi empirici, per esempio migliorando le radiazioni, i trattamenti chimici. E però sono passati 45 anni e guardate oggi ai “geni del cancro”: tutti i geni sono geni del cancro e non ne siamo ancora venuti a capo.
La chiama “anarchia del vivente”. Perché e in che modo queste “società cellulari” sono secondo lei anarchiche?
Credo che sia letteralmente una concezione anarchica: anarchia vuol dire senza archos, ‘potere’, ma anche senza arché, cioè ‘principio originario’, ciò che viene prima. In un individuo ci sono miliardi di cellule, tutte derivate da una sola cellula, l’uovo fecondato, che si moltiplica, generando milioni di cellule, e poi miliardi e sono tutte differenti e si specializzano: muscolari, del cuore, nervose, del cervello, del sangue. La grande domanda è sapere come succede questo, come si specializzano e si organizzano? Nella teoria genetica odierna il ruolo del DNA è quello di un principio direttore che dirige e che è anteriore a noi e tutto lo sviluppo è regolato dall’informazione genetica. Invece, la concezione che sviluppo afferma che non c’è principio d’ordine, ma le società cellulari si organizzano sulla base di quello che succede localmente. Le cellule – semplifico – secondo un processo probabilistico esprimono delle proteine; in un primo momento, per così dire vanno a tentoni. Quando trovano la buona combinazione, cioè dei geni che permettono loro di essere in relazione con il loro ambiente, si stabilizzano.
Una cellula ha bisogno di molte cose per poter sopravvivere, metaboliti. Immaginiamo una cellula da sola: ha accesso diretto ai nutrienti che si trovano nel suo ambiente. Ma se si moltiplica, ne nasce una piccola sfera di cellule e avremo cellule all’esterno dell’embrione e cellule al suo interno. Le cellule dentro non avranno più accesso ai nutrienti dell’ambiente esterno, ma solo a ciò che è trasmesso dalle altre cellule in superficie. Dunque più la popolazione ingrandisce, più le cellule devono cambiare, non perché c’è un programma ma perché l’espressione dei loro geni può cambiare in maniera casuale e questa espressione viene selezionata dalle condizioni dell’ambiente interno, dai suoi vincoli. Grazie a questo processo aleatorio si adattano al loro ambiente interno e sulla base di questo processo decentralizzato, locale, di relazioni tra cellule, costruiamo il grande tutto dell’organismo.
Quindi ogni cellula non ha bisogno di un principio che la diriga, ogni cellula però è tributaria di ciò che fanno le altre, esistono dunque vincoli, gradi di libertà, relazioni, perché ci sono scambi tra cellule che si formano, come in una società. Semplicemente tutti questi scambi non sono diretti da uno stato centrale, che è davvero un paragone usato del fisico Schrödinger, occupatosi anche di biologia. Nel suo libro What is life, uscito nel ’44 e considerato antesignano della biologia molecolare, paragona i cromosomi agli uffici centrali di un governo.
E invece sostengo che non c’è governo. Ecco perché è una concezione anarchica. Ci sono molte versioni di anarchia, è una parola a geometrie variabili, ma non si tratta di libertà assoluta o perfetto individualismo. Io faccio riferimento alla concezione del filosofo e naturalista Kropotkin che spiegava che anche Robinson Crusoe sulla sua isola non era del tutto libero, perché c’era un ambiente e delle relazioni con questo e altri esseri.
E il DNA cos’è, se non è un principio d’ordine?
Il DNA esiste e ha un ruolo. È evidente che gioca un ruolo nella fabbricazione delle proteine, e questa è un’acquisizione della biologia molecolare. Credo che l’espressione dei geni – abitualmente parliamo di espressione dei geni, ma preferisco parlare di sequenze di DNA che permettono di fabbricare le proteine, perché gene è un concetto molto carico – avvenga a caso, cioè un gene ha sempre una probabilità di esprimersi, più o meno. Gli stimoli, ciò che il DNA riceve dalla cellula che a sua volta riceve dall’esterno, non inducono la fabbricazione delle proteine, ma stabilizzano qualcosa che si produce inizialmente secondo il caso.
Nel nucleo delle cellule il DNA non è nudo, ma è in interazione con altre molecole e si forma una struttura che chiamiamo cromatina. A seconda della configurazione, può prodursi la fabbricazione di una proteina oppure no in una determinata regione del DNA. Ma questa struttura non è rigida, si muove in continuazione perché tutte le interazioni molecolari, fisiche e chimiche, sono fondamentalmente aleatorie. Dunque, spontaneamente il DNA nella cromatina può esprimere dei geni a caso e si formano configurazioni che si stabilizzano grazie all’ambiente del nucleo, che è posto nell’ambiente della cellula, posta in quello dell’individuo, posto nell’ecosistema.
Con la teoria anarchica possiamo quindi fare una previsione precisa: quando le cellule si differenziano produrranno proteine a caso e poi, una volta trovata la buona combinazione, adattate, si stabilizzeranno e fabbricheranno solo quelle che gli permettono di essere in relazione con l’ambiente. Oggi abbiamo gli strumenti tecnici per osservare le cellule una per una e quale gene si esprime e a quale livello di espressione; poi possiamo fare un trattamento statistico e vedere in una popolazione di cellule qual è la variabilità dell’espressione dei geni, la varianza. Se misuriamo la variabilità della fabbricazione delle proteine possiamo prevedere prima un picco, seguito da una restrizione, che corrisponde alla fase di adattamento all’ambiente. Abbiamo testato questa previsione con un’equipe di biologi molecolari, sono lavori pubblicati. Molti biologi obiettano che c’è un margine di fluttuazione aleatoria in un fenomeno che resta di fatto determinista, cioè si tratta di rumore. Ma se fosse rumore dovrebbe essere costante nel tempo, e invece quando studiamo la differenziazione vediamo che c’è un picco.
Sotto una sua intervista video su YouTube, in cui spiega queste cose, ho trovato un commento critico, che immagino le rivolgeranno in molti. Recita: confondete il caso con ciò che non conosciamo. Faccio l’avvocato del diavolo: e se fosse così?
È una questione di cui parlo nel libro. Ci sono persone che si chiedono se il caso è ontologico, oppure se è il limite della nostra conoscenza. Il dibattito è antico e anche Einstein ne dibatteva con i teorici della meccanica quantistica, quando diceva loro che Dio non gioca a dadi, e dunque che il caso era solo il limite di ciò che ancora non sappiamo.
La mia prima impressione è che la variazione casuale sia costitutiva del mondo e penso che sia Darwin ad aver introdotto una prima teoria del genere. Ma non credo che risolveremo il dibattito ora. D’altronde poco importa: sappiamo oggi che nella natura ci sono un molte cose che non possiamo trattare se non in maniera probabilistica. Intendiamoci: quando diciamo che un sistema è probabilistico, non diciamo che è caotico e che non ci siano condizioni materiali che determinano le probabilità; in un dado la probabilità è data dalla struttura del dado. Le condizioni materiali d’esistenza e produzione dei fenomeni determinano le probabilità e così appaiono certe regolarità, una media con una varianza. Se lanciate un dado, il dado segue delle leggi fisiche ma è più semplice studiarlo in maniera probabilistica. Un giorno forse avremo strumenti così precisi da prevedere tutte le traiettorie possibili,ma oggi il dado è addirittura l’archetipo del fenomeno probabilistico. A me al momento basta questo: per trattare casi in cui abbiamo cellule, molecole, macromolecole, e ciò che accade in tale complessità, non possiamo fare altrimenti. È dimostrato sperimentalmente che c’è una variabilità nell’espressione dei geni e per descriverla, credo, siamo obbligati a usare dei modelli probabilistici. Poi, se è il limite della nostra ignoranza, può essere, ma nel giro di duecento anni non ci sarò più, lasceremo allora ai nostri discendenti la discussione.
Nel suo libro racconta di un essere immaginato dal matematico Laplace, il demone di Laplace, capace di vedere passato, presente e futuro assieme. Secondo lo scienziato il demone vedrebbe tutto l’universo riassunto in una sola formula. Lei invece parla di variazione fondamentale: secondo lei cosa vede il demone?
Noi pensiamo spesso agli oggetti che hanno una forma e sono statici: ecco la tazza di caffè dove ho bevuto il mio caffè all’italiana. Ma la realtà è in movimento e varia. Eraclito diceva non potrete mai bagnarvi nello stesso fiume. È qualcosa di contro-intuitivo: io penso che prima venga il movimento, non l’essere statico. La struttura del reale è fluttuante, non c’è determinismo, c’è variazione aleatoria fondamentale e però ci sono delle condizioni materiali che complicano la faccenda.
A questo proposito, scrive che “il vivente è un flusso continuo che fa variare gli esseri” e che questo è l’aspetto più radicale di Darwin. Nell’immaginario comune, colleghiamo spesso Darwin al concetto di specie, un concetto che però ha confini porosi se non è un grattacapo.
Sì, se leggiamo Darwin, ci è chiaro che non era tra quelli che pensavano che le classificazioni fossero oggettive. Era anzi nominalista cioè pensava che le classificazioni siano delle astrazioni, e lo dice esplicitamente. La genetica ha invece reintrodotto il realismo della specie, cioè la specie è un insieme di individui che condividono gli stessi geni. Questo modo di pensare c’era già prima di Darwin e Darwin l’aveva del tutto accantonato. Ma di questa parte del suo pensiero ci siamo sbarazzati, questo aspetto che è il più sovversivo è andato perduto.
La domanda è perché? Darwin con il suo nominalismo diceva che le specie non esistono oggettivamente. Ecco, credo che abbandonare l’idea dell’essenzialismo significhi abbandonare l’idea che noi in quanto esseri umani abbiamo un’essenza umana. Qui, come diceva Gaston Bachelard, salta fuori un ostacolo epistemologico o quello che chiamo il “punto cieco della biologia”: si tratta della messa in gioco della nostra identità umana in quanto specie umana. E questo rimette in causa profondamente lo statuto privilegiato che ci siamo forgiati e il nostro posto nell’ecosistema.
Professore, lei scrive che ci vediamo come la finalità del vivente e siamo ciechi di fronte alle esistenze cellulari. Forse allora la difesa di un’idea determinista è anche una difesa dell’uomo e dell’ordine delle specie?
Sì, certo, nei confronti delle altre specie, ma anche una difesa di noi in quanto individui. Perché facciamo fatica ad accettare l’idea che ci siano dei miliardi di piccoli individui autonomi in noi, che anzitutto vivono per loro stessi e non per noi. Che se ne infischiano di noi, non sanno nemmeno che esistiamo.
Ma la domanda mi fa pensare oltre, in rapporto all’aspetto politico e ideologico a cui accennavamo. Nell’Ottocento abbiamo compreso che gli esseri umani erano fatti di cellule – teoria che chiamiamo teoria cellulare. Nelle tappe dello sviluppo di questa teoria, un biologo tedesco, Rudolf Virchow, ha scritto un libro molto importante, considerato come la versione definitiva della teoria cellulare. Anche lui paragonava gli insiemi di cellule a una società, scriveva che in noi è pieno di piccoli individui e che c’è una vita sociale. Detto ciò, non aggiungeva però di che tipo di società si trattasse, per così dire. Ma, chiaramente, dall’inizio della teoria in maniera egemonica si sono poi affermate metafore autoritarie e gerarchiche. C’è il paragone di Schrödinger fatto prima ma potremmo moltiplicare le citazioni. Insomma c’è un’interferenza: le nostre società sono delle società gerarchizzate, che siano più o meno democratiche o autoritarie, e credo che questa egemonia abbia forse influenzato il pensiero degli scienziati. Tant’è che quando pensiamo al vivente, pensiamo automaticamente a una società gerarchica. Perciò ciò che succede è questo: sono 150 anni che tutte le metafore per descrivere il vivente sono autoritarie, ma se proponete che no, le cellule sono anarchiche, che funzionino in un altro modo, mutualistico, si replica: oh la là, stai facendo politica. Finché usiamo metafore, per così dire, reazionarie non ci sono problemi e sembra normale. Credo invece che dobbiamo concepire il vivente altrimenti.
Accanto a Darwin, lei fa riferimento a un altro studioso dell’Ottocento, il medico Claude Bernard, e alla sua visione decentrata del corpo per cui la vita risiede in ogni cellula e non è centralizzata in nessun luogo. Bernard scrive “ciò che definisce il vivente è quello di avere un ambiente interno”.
Claude Bernard, sperimentatore e teorico, ha fatto molte cose e la sua opera non è omogenea, ma dice alcune cose che mi interessano. Una delle grandi invenzioni concettuali di Bernard è il concetto di “ambiente interiore”. Oggi è stato ridotto, il più delle volte, all’idea di omeostasi, cioè semplificando al fatto che l’ambiente interiore resti costante. Ma lui piuttosto constatava soprattutto che le cellule si adattano al loro ambiente interno, anche se non pensava che ci fosse una variazione aleatoria nel funzionamento delle cellule. Diciamo, ho preso i principi generali di Darwin nell’idea di funzionamento delle cellule in rapporto all’ambiente interno, introdotta da Bernard.
Sembra diventare una questione di ecologia.
Esattamente. Ci sono dei passaggi dove Claude Bernard fa il paragone con l’economia: gli organi sarebbero fabbriche che forniscono ai loro vicini certi prodotti e si creano degli scambi ed è così che l’organismo si costruisce. Nel libro Né dio né genoma che ho scritto con Pierre Sonigo, Pierre sviluppava invece l’idea che si tratti di ecologia, facendo un’analogia proprio con gli ecosistemi. È come se ci fosse un ecosistema interiore. E l’ecosistema è un concetto che troviamo inizialmente già in Darwin, anche se non lui utilizzava questa parola, ma ciò che descriveva era quello.
Di fronte a quest’idea del vivente, dovremmo ripensare il cancro? So che lei e altri avete provato a lavorare all’ipotesi.
Sì, con un collega fisico, Bertrand Laforge, abbiamo fatto delle modellizzazioni su questa questione – un modello è ovviamente una semplificazione che cerca di cogliere certi tratti pertinenti per comprendere il reale. Così abbiamo usato un automa cellulare, non vere cellule: un’esperienza informatica che però ci può servire da esperimento mentale. Ci siamo chiesti se le cellule che si comportano col modello darwinista anarchico siano capaci di creare strutture organizzate come i tessuti e abbiamo osservato che, anche con un funzionamento dei geni aleatorio, le cellule creano strutture organizzate che sembrano tessuti. In qualche modo si raggiunge un equilibrio tra una tendenza aleatoria e la selezione operata dall’ambiente. Non solo, creando una perturbazione, modificando certi parametri della simulazione, la proliferazione delle cellule riprendeva e si formavano stati che somigliavano a tessuti cancerogeni. Ciò ci permette di pensare diversamente la questione del cancro: cioè non semplicemente come a delle mutazioni in un gene, ma piuttosto come a un equilibrio che viene per varie ragioni sconvolto. C’è un ecosistema in noi e quando c’è un incidente, uno squilibrio in questo ecosistema può succedere che una specie proliferi più di un’altra, come accade fuori da noi negli ecosistemi. Penso che questo sia importante, perché ci viene chiesto a che serve concepire in modo diverso il vivente.