Che cosa significa affermare l’ingiustizia di un certo trattamento repressivo quando questo è giuridicamente configurato e consolidato? Questa, che potrebbe sembrare una domanda di poca sostanza, è – in realtà – più ostica di quanto appare. Infatti, contestare una certa legge e, di rimando, un assetto istituzionale, comporta una precisa scelta. Dentro o contro? Dentro le regole del gioco istituzionale, fatto di uno specifico codice linguistico oltre che procedurale, oppure fuori di esso e quindi prima – ed oltre – ogni formulazione che coinvolga il diritto positivo? Dunque, a che cosa appellarsi..?
Guardiamoci attorno: CPR, sorveglianza speciale, arresti contro giovani attivisti sociali e studenti, carcere violento e vendicativo, repressione delle lotte dei lavoratori e dei sindacalisti di base, intimidazioni poliziesche… Una lista infinita. Ma soffermiamoci sull’attuale italiano. Ci sono paesi in cui questioni e vicende di repressione politica passano semplicemente in terzo piano. Nessun dibattito, nessuna dialettica, nessuna opinione pubblica, niente clamore o disappunto a nessun livello. Ma se in Italia, invece, la questione del carcere è arrivata ad interrogare una così larga parte di società, e decisamente non soltanto quella dei “senza potere”, è perché rappresenta un “che” di dirimente alla natura giuridica dello Stato. E qui, allora, i frazionamenti, le fazioni, le parti (qui, la magistratura..) che per interessi spesso divergenti si esprimono, sgomitando in una sala da ballo del potere in cui qualcuno dovrà pur ripulire… E a ripulire, spesso, sono coloro i quali lottano mettendosi in gioco. Tuttavia, per quanto possiamo, non mettiamoci a fare il “lavoro sporco” del potere. E diciamo a gran voce che lottare significa restare ed esserci anche a riflettori spenti. Restare è poter continuare a portare avanti le proprie idee ed argomenti senza temere le strumentalizzazioni che pur sempre piovono addosso.
Più che di rabbia abbiamo bisogno di intelligenza, e molta, per affrontare con lucidità le dinamiche di potere a cui l’agire politico e solidale è quotidianamente sottoposto. Serve accortezza. Perché, pur con le migliori ragioni, esiste sempre il rischio, da riconoscere nitidamente, dell’ “utile” e “funzionale” capro espiatorio. Repressione non è solo bastone, altrimenti quanto sarebbe facile evidenziarne gli scempi! Può esistere infatti, entro il campo sociale, una “tolleranza repressiva”; ossia quella forma di velato compiacimento riguardo alle espressioni di piazza che fa il bene massimo delle istituzioni, sempre bisognose di elementi facilmente etichettabili per ripulire se stesse dall’irresponsabilità sociale per eccellenza. E’ questa che dobbiamo avere la forza di continuare con intelligenza a tematizzare. Insieme ad Alessandra Algostino vi invitiamo ad un incontro pubblico che, muovendo da questi spunti, vuole allargare il discorso a tutti coloro che non accettano il gioco sfalsato del potere.
Domenica 12 marzo alle ore 16
Viale Monza 255 Milano