Riceviamo da M. e R. questo contributo
Un medico con ali d’angelo che culla una nazione. Un medico donna con ali d’angelo che culla una nazione. Una donna con ali d’angelo che culla una nazione. Digitale Pietà contemporanea creata e consumata per dare sfogo a un effimero bisogno di dire grazie e diffusa da servitori-protettori e professionisti della saggezza per insegnare l’unità nel sacrificio e nella sopportazione. Bene. Grazie. Non è stato male dissolvere ogni angoscia privata nell’angoscia pubblica e sospendere ogni speranza individuale nella speranza collettiva del “tutto, prima o poi, andrà bene”. Non è stato male sentirsi improvvisamente chiamati a qualcosa di più grande, a una guerra che avremmo combattuto tanto più valorosamente quanto più fossimo rimasti buoni, zitti, tranquilli, pazienti. C’erano gli eroi, altrove. C’erano i morti, altrove. In un fronte vicino, a volte vicinissimo, eppure reso quasi mitologico dal divieto di esserci, salutare, seppellire. E reso, al tempo stesso, diffuso e immaterialmente tangibile nell’orrore del contatto, nella paura del contagio. Di nuovo, grazie. Non è stato male sentirsi bambini iper-responsabilizzati – “non muoverti, stai a casa, difendi nell’isolamento te stesso e gli altri” ma sollevati da quelle responsabilità da adulti che spaventano: esserci davvero per gli altri, prendersi cura di loro, guardare e sopportare la loro sofferenza. Grazie a quella madre-medico-eroina che da pagine e profili virtuali ci ha permesso di credere che il nostro silenzio fosse rispetto, che la nostra rinuncia a comprendere fosse un atto doloroso ma necessario, che sospendere o rinviare il giudizio sulle cause e gli effetti fosse il solo gesto possibile in un tempo come questo. Grazie, madre-medico-eroina che non hai quel volto ma ne hai e ne hai avuti molti. Grazie davvero, non c’è sacrificio più grande che far sentire speciali figli mediocri. E se ora è arrivato il tempo di parlare, non pensare sia contro di te. È anche per riconoscere ciò che hai fatto e le colpe non tue di cui ti hanno fatto sentire il peso che ora si deve ricominciare a dire e a denunciare. È perché nessuno si debba più sacrificare che ogni cosa deve essere nuovamente chiamata con il nome che le è proprio, con quel nome che permette di non confondersi e confondere e di fare in modo che niente e nessuno possano stare per qualcosa o per qualcun altro.
Ad esempio, è tempo di dire che un virus non è un nemico. Un virus è una forma di vita priva di visioni del mondo e di intenzioni, forzata a replicarsi all’interno di altre forme di vita. È un parassita senza altre possibilità, né intelligente né stupido, una minuscola porzione di materia su cui possiamo fare esercizi di cattiva filosofia o di cattiva poesia, ma non certo un nemico che dichiara guerra. Produce morte e sofferenza, certo, ma nella più totale e innocente indifferenza. Farneticare sull’invisibile ma terribile e furbissimo nemico che dovrebbe trovarci sempre uniti, muti e obbedienti serve solo a nascondere la nostra totale mancanza di una visione del mondo e di un’intenzione superiori. Si dirà che salvaguardare la salute di tutti e proteggere i più fragili sono intenzioni sufficientemente superiori. Ma arrivati a questo punto sappiamo che chi avrebbe dovuto compiere scelte coerenti e mettere in atto piani di potenziamento delle strutture sanitarie e di aiuto concreto agli eroi onorati solo a parole, ha tragicamente fallito. I colpi del recente passato, il dimezzamento del numero di ospedali negli ultimi vent’anni, il trionfo della retorica dell’eccellenza raccolta in pochi, selezionati, luoghi sotto cui hanno continuato a proliferare corruzione e mediocrità (umana prima che professionale), l’avanzata del privato benedetta dal pubblico e, su altri fronti, le infrastrutture del futuro su un paesaggio di ponti pronti a crollare e di scuole insicure sono macigni che neppure la classe politica più illuminata avrebbe potuto rimuovere dal cammino in poco tempo. Ma non poter porre rimedio a danni che arrivano da lontano non dà il diritto di ignorarli, di nasconderli sotto le bare allontanate da una città o dietro i volti distrutti di chi ha fatto tutto ciò che poteva con ciò che aveva. L’ignavia del politico, la sua pochezza, la sua impreparazione dovrebbero ora indignarci, invece di farci ancora più docili. Così come dovrebbe ormai indignarci la sua abdicazione al sapere tecnico-scientifico e al potere economico-finanziario in un gioco che, mentre mostra i limiti del primo e non potrebbe essere altrimenti poiché nessuna conoscenza è assoluta , lascia il secondo libero di correre nel caos potenziato dal virus. E ancora di più dovrebbe indignarci la distruzione della sola declinazione della parola “vita” che abbia senso considerare: quella singolare, quella che nessun nome collettivo potrà mai raccogliere o raccontare. Quella in cui ciascuno di noi sta senza comprensione della fragilità di quella singolarità quando a trionfare è l’appello al noi.
Lo stesso appello che ci invita a portare avanti ciò che facciamo in altre forme, in altri modi: non si vorrà forse, ci viene chiesto, mancare di rispetto ai tanti morti piangendo per ciò che non si può più fare. No. Ciò che si vorrebbe è quei morti venissero rispettati fino in fondo. Che ci si domandasse cosa davvero ci ha condotti qui e in che modo vogliamo continuare. Che si sospendesse, realmente, la vita per comprendere che niente e nessuno possono stare per qualcosa e qualcun altro, che non tutto può essere convertito e che è criminale silenziare ciò che non appare come immediatamente produttivo. Che si dicesse, chiaramente, che non è il virus ad averci portato qui. Ci si è trovato in mezzo a noi e senza colpe ha fatto la sola cosa che sa fare. È l’asservimento al nulla generato dalla vita ridotta a produzione e consumo ad averci portato qui. È l’aver creduto che bastasse differenziare diligentemente i propri rifiuti e affidarsi ad allevamenti felici per dare sollievo al pianeta e tregua agli altri animali ad averci portato qui. È la piccola e infelice coscienza del perfetto soldato da capitalismo green ad averci portato qui. Ed è il sì detto senza neppure saperlo all’essere al contempo consumatori e produttori nell’era del tutto digitale che ci porterà ancora oltre, verso un nulla che neppure riusciamo a immaginare. Quel nulla che sarà imputato al nemico perfetto, silente e invisibile. A quel virus che, come nella migliore tradizione sacrificale, prima o poi si allontanerà portando via tutte le nostre colpe. Ma se non agiremo contro quel nulla che è ancora non è qui, se rinunceremo ancora a capire, a chiedere, a denunciare, allora con le colpe se ne andrà anche la nostra possibilità di riconquistare uno spazio che sia realmente vivibile, uno spazio in cui non vi sia solo triste sopravvivenza. Uno spazio che non è la richiesta di anime troppo delicate per sopportare un tempo difficile ma la pretesa di corpi che premono per essere riconosciuti come forze affermative e non meramente produttive.
Che piaccia oppure no, la rabbia delle piazze delle scorse settimane era forza affermativa. Brutta, disorganizzata, violenta, confusa e manipolabile, ma affermativa. Ascoltare quella rabbia, dare una direzione non distruttiva al desiderio frustrato ma non estinto che la sostiene, è compito di chi, in questo momento, sa vedere oltre l’immediato e non teme di abbandonare il recinto della prudenza e del buon senso. Compito di chi non vuole cessare di essere responsabile nei confronti degli altri, ma rifiuta di essere complice di chi chiede di adeguarsi a ogni cosa; di chi vuole continuare a prendersi cura di ciò che ama, ma non a qualunque costo; di chi è nella posizione di poter parlare, ma rifiuta di farlo per insegnare la resa e l’accettazione. Di chi non crede che la chiusura delle scuole, delle università, dei teatri e dei luoghi di cultura sia una misura normale e comprensibile. Di chi crede che solo nell’incontro reale sia possibile far sorgere un desiderio che abbracci la rabbia per salvarla da se stessa. In un paese giusto, al medico e all’insegnante dovrebbe essere riconosciuta la stessa funzione di cura. Senza sacrifici e ali d’angelo. In un paese non allo sbando, i teatri, i circoli, gli spazi di incontro e di sperimentazione dovrebbero essere protetti come presidi di salute pubblica. In un paese non del tutto finito, le università dovrebbero essere luoghi di esercizio critico costante, palestre di liberazione di alto grado e di professionalizzazione umana. In un paese che non ha bisogno di essere cullato, questi luoghi dovrebbero restare aperti e vivi. Con regole ferree, d’accordo, ma aperti e vivi.
E poiché non ancora tutto è ingiusto, poiché non ancora tutto è allo sbando, poiché non ancora tutto è finito che si rivendichi il diritto, mentre tutto viene convertito e rinchiuso dentro la comunicazione a distanza, remota per chi la riceve e per chi la pronuncia, alla rinuncia, a dire no, a scioperare nel solo modo che rimane in questo tempo, ovvero nell’assenza, nella sottrazione, nel rifiutare una sostituzione che non tiene in vita nulla, se non l’inganno che l’ha prodotta. Si rivendichi il diritto a non essere per mostrare tutto ciò che si sta, collettivamente, perdendo.
Nella consapevolezza che la cura e la solidarietà nei confronti degli altri non possano mai accordarsi con il ripiegamento del singolo su stesso, nella sua colpevolizzazione per nascondere le mancanze criminali delle istituzioni, nel renderlo nemico-delatore del prossimo e ingranaggio perfetto in un sistema già pronto da tempo a mettere a profitto il deserto relazionale.