La trincea è buia, fredda, umida. Ci si sta accalcati, appiccicati ai propri umori, agli odori, ai sudori. C’è pochissimo spazio. Nella trincea si sta immobili, ci si ravviva solo quando arriva la posta. C’è il soldato che non ne riceve mai, di posta. Perché non ha più una moglie che lo aspetta a casa. Perché l’unica volta che è tornato, l’ha trovata a letto con un altro. Oppure quando arriva il rancio. Rumore di gamelle e una brodaglia scura, nella quale galleggiano come stracci pochi pezzi di carne sconosciuta, fette di pane duro, che sembra fatto con la segatura.
Non c’è spazio per il cameratismo nel film di Olmi. Non si vedono le foto di donnine poco vestite appiccicate alla branda, non ci si scambia pacche sulle spalle, non si sorride mai. Tutta la vicenda del film si svolge in una notte. La notte in cui sulla trincea, uno sperduto avamposto di alta montagna, piove un ordine insensato. Bisogna fare arrivare il filo del telefono fino ad un punto di osservazione situato una ventina di metri fuori dalla trincea. Strisciare sulla neve, nella notte illuminata dai bengala che preparano l’imminente attacco nemico, completamente allo scoperto, per portare il filo del telefono al punto di osservazione e da li, comunicare al comando quel che si vede.
Non ci sono atti di eroismo nel film di Olmi. Nessuno si offre volontario alla chiama. Il primo soldato che si fa avanti lo fa quasi in maniera casuale, perché è il più vecchio, forse solo perché vuole farla finita con la guerra, con la trincea. E infatti striscia pochi metri nella neve e muore senza un lamento, senza un movimento.
Il capitano, comandante dell’avanposto, si degrada, pur di non essere lui a comandare ai suoi di andare a morire.
Il secondo soldato, in un lampo si offre volontario, si fa dare il fucile, si benedice da solo, si punta lo schioppo alla gola e si fa saltar le cervella.
E mentre noi spettatori ci si domanda chi sarà il prossimo, ecco che arriva provvidenziale l’attacco nemico, coi suoi rombi tremendi, col fischio delle granate, con le esplosioni, i crolli nelle trincea, i feriti col ventre squarciato che si tengono le budella implorando la pietà di un ultimo colpo. Quando l’attacco finisce, arriva la mattina, a illuminare il pianoro innevato, il film rimane meravigliosamente sospeso.
Ecco, se devo trovare una sintesi, direi che il rigore estremo di questo film, trova il suo compimento proprio nel finale. La vita in qualche modo riprende, addirittura c’è sempre stata, si vedano le rapide sequenze dedicate a una volpe che corre, a un topolino che mangia il pane. Un film straordinariamente bello, che ti tiene inchiodato allo schermo per tutta la sua durata, nonostante la quasi totale assenza di azione e i dolenti, scarni dialoghi.
Un film potentemente contro ogni guerra, soprattutto contro la prima guerra mondiale, la più insensata di tutte.